Sulla giustizia-E.Forsthoff-Vol.37-
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SULLA GIUSTIZIA 1 2
Introduzione
Nonostante la densità dei concetti, lo scritto di E.Forsthoff non ha bisogno di chiarimenti. Il nocciolo è ben evidente: il superamento della visione liberal-positivistica della giustizia, a favore di una alternativa in cui faccia premio la legittimità sulla legalità, tanto per usare metodi di pensiero del maestro di Forsthoff (e non solo), quel Carl Schmitt di cui quest’anno si celebra il ventennale della morte. La pubblicazione di questo scritto può essere l’occasione per una considerazione d'attualità. Passano i decenni, cambiano i regimi, si modifica la storia, si avvicendano le ideologie, ma un filo rosso (o nero, con il variare delle epoche) emerge come tratto comune in negativo ed in positivo: in negativo, perché l’avversario da battere è sempre la visione complessiva che fa riferimento all’individuo, che attua il diritto a prescindere dal contesto, che tiene alla forma del diritto, che è sostanza; in positivo, perché i valori sono sempre la storicizzazione del diritto, la sua contestualizzazione, la sua interpretazione perché, attraverso contorcimenti e squassamenti della norma, si riesca alla fine a far leggere la realtà secondo le lenti dell’ideologia con la presunta giustificazione della ratio della norma, che naturalmente era tutta diversa. Allora come oggi la malattia mortale dell'Occidente, l'hegelismo, segna il trionfo del contesto e quindi dell’ideologia sulla realtà, la forzatura di quest’ultima e della sua parte relativa al diritto, per far loro sembrare e dire ciò che non è, ma ciò che semplicemente si vuole che dicano. La giustizia diventa valutazione dei fatti alla luce dell’ideologia di chi valuta, il diritto viene flessibilizzato. Allora come oggi l’individuo è ancora il nemico da battere, allora perché tacciato di atomismo e dunque di essere portatore di elementi di disgregazione della comunità di popolo, oggi perché portatore di interessi non collettivi, ma privati, di cui corollario è l’odioso aspetto della proprietà. E’ sempre il liberalismo il male da vincere, nella sua versione politica non meno che economica: questo è l’obiettivo che si pongono le rivoluzioni, un tempo violente, oggi soft, ma non per questo meno pericolose, perché trasformatesi in formae mentis e per questo più impalpabili, più sottili, più diffuse, più subdole. L’importante è conoscerle: ecco
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All'uomo è connaturata l'esigenza di giustizia. Egli richiede giustizia per sé , per la sua famiglia e per i suoi concittadini. Egli la richiede per il suo popolo e per il suo Stato. Assumiamo questa richiesta come un fatto evidente. Rinunciamo con ciò a tutte le indagini psicologiche sull'affinità dell'uomo nei confronti della giustizia. Ci chiediamo il senso e l'attuazione della giustizia negli ordinamenti statali.
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Per l'epoca borghese-positivistica che ci sta alle spalle la giustizia non aveva un interesse pratico quale compito dello Stato. Dopo essere stata coinvolta in un primo tempo nelle discussioni politiche in ragione del suo legame con le dottrine kantiane e dei teorici della rivoluzione francese in materia di eguaglianza e di libertà, nel prosieguo del diciannovesimo secolo la giustizia è arretrata sempre di più. La società borghese, soddisfatta nelle sue aspirazioni politiche con il compromesso costituzionale con la corona e portatrice di un processo di espansione economica che le aveva fatto sperare con sicurezza il conseguimento del primato politico, era destinata a porsi, di fronte alla questione della giustizia, da lontano, con indifferenza, quando non con rifiuto. Per il pensiero borghese, che non voleva porre in gioco la propria esistenza politica, la giustizia doveva avere lo stesso significato dell'ordinamento in essere, essa diventava pura legalità e con ciò non problematica. Nella misura in cui si dava ancora peso alla giustizia, ciò accadeva - in coerenza con la costruzione complessiva della filosofia idealistica - in stabile connessione con la formulazione della questione dell'uomo che chiede libertà, che agisce, che conosce, quindi da un punto di vista privatistico. In questo modo la giustizia 1 veniva privatizzata, essa svolgeva un ruolo nell'ambito della situazione permanente di conflitto in cui si trovava il liberale in quanto "personalità morale" davanti alla forza dello Stato e della ragion di Stato. I tentativi di concepire la giustizia, al di là del riferimento all'individuo, nell'ambito di una rigida oggettività e di una vincolatività derivante dallo Stato finivano o in un formalismo vuoto e razionale (per es. l'equiparazione di Stammler tra diritto equo e diritto giusto) ovvero in un piatto eudaimonismo (giustizia in quanto progresso sociale, in quanto più grande fortuna del maggior numero di persone e via dicendo). Nell'appiattimento del modo di comprendere la giustizia si specchia la caduta della cultura giuridica di quest'epoca. Le formali garanzie organizzatorie di un sistema costituzionale di divisione dei poteri dovevano fungere da velo alla sostanza etica affievolita. Dal momento che l'esigenza di giustizia veniva in tal modo indirizzata verso la costituzione, i princìpi portanti di questa costituzione, i diritti fondamentali, la divisione dei poteri e l'indipendenza dei giudici conservavano quel respiro etico che avevano mantenuto per gli statisti liberali fino ai nostri giorni. La questione della giustizia non può più trovare risposta oggi con il rinvio alle garanzie costituzionali formali. Gli approfondimenti che seguono non sono intesi a fornire una risposta e una soluzione al problema, straordinariamente ramificato. Essi dovrebbero solo offrire alcuni punti di vista essenziali.
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Le origini del diritto stanno nella religione. All'epoca dei primi popoli il diritto non rappresentava il conio di un ideale sociale, ma la volontà di Dio. Così il mito greco incarnò il diritto nelle dee Temi e Dike. La funzione giudiziale e sacerdotale si riuniscono, all'epoca di una cultura giuridica ancora determinata in base alla magia e al mito, in una persona. La giustizia non è altro dunque se non la vita secondo la volontà di Dio o degli dei. Questa giustizia è veterotestamentaria (cfr. Dt. 6, 25; 2. Sam. 22, 21; Sai 7,9), essa è presente anche presso i greci arcaici, che hanno identificato la giustizia con la religiosità, ed è ben comune a tutti i popoli al primo stadio dello sviluppo. Proprio con la progressiva autonomia della ragione umana e con l'ampliarsi del campo delle idee attinenti allo spirito per diventare visione del mondo, questa giustizia, determinata in via puramente religiosa, trovò un'alternativa in un dualismo che affiancava al diritto divino e alla relativa giustizia un diritto umano dell'al di qua. E' la giustizia del suum cuique tribuere, che da allora domina il pensiero giuridico occidentale. L'etica cattolica ha tuttavia mantenuto fermo un legame tra diritto divino e diritto terreno nell'unità del sistema di diritto naturale articolato sul principio della gradualità. Essa conferiva allo Stato medioevale legittimità e compiti nell'ambito della volontà di Dio. Anche la dottrina di Lutero della primazia cristiana è ancora permeata di questa unità medievale. E' stato lo Stato sovrano della seconda metà del sedicesimo secolo, concepito per la prima volta dal francese Bodin, ad aver significato la separazione radicale tra diritto divino e diritto terreno. Segno caratteristico dello Stato rispetto alla restante comunità era ora la sovranità, il potere più elevato, l'illimitatezza della volontà, che racchiudeva in sé il disporre del diritto. Nonostante ciò, il diritto manteneva il proprio legame con le premesse metafisiche e lo doveva mantenere perché l'uomo non riusciva a sfuggire al dato metafisico. In questo si riflettono, all'interno della trasformazione dell'idea di giustizia a partire dal sedicesimo secolo, le grandi trasformazioni dell'immagine metafisica del mondo.
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Per riacquisire una comprensione complessiva della giustizia è necessario sapere che l'esclusività della relazione della giustizia con il comportamento individuale costituisce una temporanea limitazione della giustizia, di cui dobbiamo liberarci. Essa appartiene all'epoca borghese. Per un cenno al senso complessivo che rimane racchiuso nella parola giustizia ci limitiamo a richiamare alla memoria l'originario l e g a m e, caduto nel dimenticatoio, t r a g i u s t i z i a e p a c e, poiché esso fornisce conclusioni fruttuose sui compiti dell'attività di giustizia. Anche qui si dovrebbe partire dalla mitologia greca, nella quale ha trovato plastica espressione un sentimento del diritto di rango elevato. Dea della giustizia divina, consigliera con buone intenzioni dell'uomo, è Temi. Le sue figlie sono Eunomia, la dea delle buone leggi e dell'ordine, Dike, la dea dei tribunali irritata con chi viola la legge, ed Irene, la dea della pace. La giustizia appare qui, quindi, come la madre dell'ordine e della pace, essa è la lontana origine di questo valore transpersonale e portante della società. Questo stretto legame tra giustizia, ordine e pace si trova in particolare nella vita giuridica tedesca e anglosassone. Il diritto medievale tedesco si fa riconoscere già nella lingua come ordinamento di pace. La lingua tedesca è abbondante di espressioni che rendono chiaro il nesso tra diritto e pace (tregua 2[Landfrieden], bando dalla pace [Friedensbann], messa al bando [Friedloslegung], fredo3 [Friedensgeld], e così via). Secondo il diritto tedesco colui che vive al di là dell'ordine del diritto non ha pace, non partecipa della pace garantita nel diritto e nei suoi ordinamenti, l'espulsione dalla comunità del diritto rende privi di pace. D'interesse in questo contesto sono le parole dell'Antico Testamento, Is. 32,17 e 18, caratteristiche del sentimento giuridico degli ebrei: "Il frutto della giustizia sarà la pace, e il vantaggio della giustizia sarà la tranquillità e la sicurezza eterne, ed il mio popolo abiterà nelle case della pace, in sicure abitazioni e in fiero riposo". Il nesso tra giustizia e sicurezza, che io non ho incontrato in testimonianze letterarie di altri universi giuridici, potrebbe essere specificamente ebraico. Potrebbe valere la pena di seguire l'idea della sicurezza, in particolare della sicurezza del diritto, dai suoi inizi giudaici attraverso il medioevo (gioco dell'anticristo!) fino ad oggi. Probabilmente, una tale ricerca porrebbe in una nuova luce lo sviluppo dello Stato di diritto, che era il portato, molto essenziale, dell'aspirazione alla prevedibilità e alla sicurezza.
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Ogni ordinamento giuridico è ordinamento di pace, ogni comunità giuridica pura è comunità di pace. Questa affermazione non deve riportare alla dottrina razionalistica del contratto originario, che secondo Hobbes gli uomini sottoscrivono tra di loro per superare, nell'ambito di un ordinamento statuale, lo stato originario della guerra di tutti contro tutti. Essa non è da intendere come strumento in ordine ad un significato complessivo degli ordinamenti umani, ma come prova di una funzione concreta del diritto 4.A partire dalla funzione pacificatrice del diritto si schiude cioè il senso della posizione particolare del giudice, quale si caratterizza come indipendenza. L'indipendenza del giudice (inamovibilità del giudice e mancata sottoposizione a disposizioni d'ufficio nell'attività giurisprudenziale) non è più ricavabile oggi sulla base dell'antitesi diritto e potere, norma astratta e decisione concreta. E' svanita anche la fede nel valore autonomo delle garanzie formali. In particolare, non è più possibile concepire l'indipendenza del giudice nel senso tradizionale, come libertà d a qualcosa (cioè dal potere dello Stato), ma piuttosto essa deve essere concepita come libertà p e r qualcosa. L'indipendenza del giudice è la libertà del giudice per la giustizia. E poiché l'ufficio del giudice trova realizzazione nell'attuazione della giustizia, essa è la stessa libertà per la funzione del giudice [Richtertum], che non è pensabile senza questa libertà. In questo senso c'è stata indipendenza del giudice nella misura in cui sussiste la funzione del giudice, quindi sempre. Neanche il popolo disciplinato e mobilitato nella totalità dell'ordinamento politico dello Stato e del partito rinuncia alla funzione del giudice. Perché appartiene alla essenza della comunità di popolo il fatto che si decida tra concittadini tra ragione e torto e che la violazione del diritto abbia la propria punizione, perché una comunità di popolo è impensabile senza un ordinamento giuridico. Ogni popolo sano aspira ad un ordinamento giusto. La conformazione di questo ordinamento giusto non è ricavabile tout court dalle inclinazioni naturali di un popolo. Essa trova attuazione nella storia ed è il risultato finale dell'effetto congiunto di fattori straordinariamente diversificati. La struttura sociologica del popolo, la natura geopolitica del suo spazio vitale, gli interessi agricoli, industriali, commerciali, le esigenze di traffico, la necessità di un bilanciamento sociale e politico dei beni, le richieste di autoaffermazione politica, i valori immateriali dell'onore, dei costumi e delle usanze e molto altro determinano l'ordinamento giuridico di un popolo nelle sue singole disposizioni, ordinamento che allora è da considerare come una creazione del popolo se corrisponde nel suo insieme alla struttura dello spirito e dell'anima del popolo, essendo da essa sviluppato. Un ordinamento giuridico che impone al singolo concittadino doveri e vincoli e che assegna ai ceti e ai gruppi in essere nel popolo la rispettiva posizione nell'ambito della totalità del popolo stesso, è sempre il risultato dell'affannosa ricerca politica di un giusto compromesso. Perciò non si può giocare l'uno contro l'altro il "valore del diritto" e il "valore della politica", secondo il modo di pensare liberale basato sulla loro antitesi. Perché ogni ordinamento giuridico, ogni idea di giustizia intorno a cui assemblare la comunità è necessariamente sempre espressione di una valutazione politica. L'ordinamento giuridico è ordinamento di pace nella misura in cui offre gli ordinamenti e le regole al cui interno è destinata a trovare realizzazione la pacifica convivenza dei componenti del popolo, la vita della comunità di popolo. In questa funzione esso è sottratto però al dato politico, conoscendo solo la differenza tra diritto e torto, non quella tra amico e nemico. Ciò vale tuttavia solo nel presupposto di una legislazione autenticamente del popolo, che sia il portato di tutto il popolo. Se ad una classe o ad un gruppo cetuale riesce di impadronirsi del monopolio nel porre le norme, le leggi che ne derivano, come ha giustamente riconosciuto la critica socialista alla legislazione borghese, saranno a servizio di una posizione di classe e risulteranno strumenti politici della volontà di autoaffermazione di gruppi privilegiati. Le leggi dell'epoca di Weimar possono al riguardo servire largamente da esempio. Non essendo l'ordinamento di Weimar un ordinamento giuridico, esso non poteva apportare al popolo tedesco una pace interna. Comunità di popolo e pacificazione della vita del popolo nell'ambito di un ordinamento giuridico sono possibili solo nel presupposto della unificazione politica del popolo. Questa unificazione politica significa però che le energie politiche che vivono nel popolo siano indirizzate all'esterno per l'autoaffermazione del popolo e solo in relazione a questa tendenza verso l'esterno producano un effetto sulla conformazione della vita interna del popolo. Nella misura in cui ciò si realizza, il rapporto tra componenti del popolo diventa un rapporto politico di amicizia ed il diritto diventa la regola di pace della comunità, rimanendo altrimenti strumento di una pacificazione esterna, forzata. 6 Il giudice non agisce come l'uomo di Stato e il funzionario politico. Il giudice giudica, egli riconosce il diritto. Non senza profondo significato il giudizio del giudice si chiama, nel linguaggio giuridico tedesco, riconoscimento. Questo riconoscere come diritto significa più che un soppesare interessi. Rappresenta una concretizzazione, nella singola lite, dell'ordinamento della giustizia per mezzo di una sentenza decisoria e la punizione della violazione del diritto a carico di colui che viola il diritto. Questa funzione di riconoscimento differenzia il giudice dal funzionario dello Stato che agisce. La giustizia, come la verità e tutto ciò che risulta ascritto alle nostre possibilità di conoscenza, è sottratta al comando e alla direttiva. Solo ciò che è opportuno, utile, favorevole può essere ordinato. La sottoposizione della funzione del giudice ad un diritto che detta disposizioni ad opera di istanze predeterminate la annienterebbe. Perciò, la funzione del giudice, in particolare quello tedesco, come dimostrano i tradizionali giuramenti d'ufficio dei giudici, si è sempre sottoposta alla legge della libertà in termini di autoresponsabilità del giudice e la limitazione di questa libertà è sempre stata percepita come una minaccia alla giustizia. Si potrebbe per contro obiettare che anche il giudice è vincolato, nella sua attività giurisdizionale, alla vita quotidiana e che egli deve aver chiare le conseguenze pratiche del proprio giudizio e per questo anche dare spazio a considerazioni di opportunità e di utilità, dal momento che le parti si rivolgono a lui nelle difficoltà della vita quotidiana e chiedono il giudizio di un giudice come aiuto nelle difficoltà pratiche. Questo è certamente giusto. Ma non riguarda in modo decisivo l'essenza della funzione giudiziale. Perché lo specifico della decisione giudiziale è di non potersi mai perdere del tutto nella considerazione di ciò che è opportuno ed utile, di dover essere sempre alla fine determinata in modo da allinearsi ad una giustizia sottratta a tutte le contingenze empiriche e quale vale la pena "riconoscere". L'errore della concezione della giustizia del diciannovesimo secolo non sta nel fatto che essa accorderebbe la libertà al giudice, ma nelle modalità di concessione della libertà. Essa ha attribuito al giudice una indipendenza pura sul piano formale, che ha permesso ogni abuso e infine - nella giurisdizione del 1932 - è diventata l'esenzione, da parte di una istanza politicamente decisiva, nei confronti di ogni responsabilità. Perciò, al posto della indipendenza pura deve subentrare la libertà del giudice giusto, cioè una libertà che non viene concessa sul piano formale, ma che viene, in base alla sua natura, assegnata come ad una personalità giudicante riconosciuta improntata a criteri di giustizia in ragione del suo diretto rapporto con la giustizia. Questa libertà ha i suoi concreti destinatari, il giudice giusto, che è stato giudicato tale sulla base di una prova di carattere. Essa viene concessa da uno Stato che, in opposizione allo Stato di diritto borghese, riesce a distinguere tra giustizia e ingiustizia e a premunirsi perciò di fronte ad un abuso di questa libertà. Questa libertà del giudice non significa un'autolimitazione politica da parte dello Stato, una rinuncia alla sua totalità. Perché questa totalità è una totalità dell'agire e del formare, cui non partecipa né può partecipare la conservazione del diritto all'interno della comunità di popolo, poiché l'attività di riconoscimento del diritto può aver luogo solo in collegamento con ordinamenti in essere e già formati, non con ordinamenti futuri, sperati o giudicati buoni. Questo collegamento con l'ordinamento esistente non deve essere mal interpretato come uno stabilizzarsi sul positivismo e sul normativismo dell'epoca che sta dietro di noi. La nuova concezione della legge che oggi sempre di più trova realizzazione, tale cioè da riconoscere nella legge non più la "volontà del legislatore", ma l'espressione di una parte dell'ordinamento complessivo della comunità, assicura al giudice un ampio spazio d'azione di giudizio per quanto riguarda la ricerca del diritto. Ernst Forsthoff (traduzione autorizzata di Clemente Forte)
1 [pubblicato sul quindicinale "Deutsches Volkstum", 1° dicembre 1934 - n.d.T.]
2 [il termine tedesco Gerechtigkeit può significare tanto giustizia quanto equità; si assume qui il primo significato - n.d.T.]
3.La drammaturgia tardo borghese, per es. Ibsen, visse del fatto di servirsi di questa giustizia privatizzata contro la società.
5.[nel diritto medievale tedesco somma versata allo Stato da chi aveva commesso un delitto - n.d.T.]
6.Nella più recente produzione scritta di teoria del diritto si trova, in particolare nella filosofia del diritto di Kohler, la correlazione tra ordinamento giuridico ed ordinamento della pace. Kohler intende però come ordinamento della pace non l'ordinamento giuridico nel complesso, ma solo una sua parte, la cui delimitazione è destinata qui a rimanere non oggetto di discussione. Ad ogni modo, il legame tra diritto e pace, anche se in altro modo, è stato visto e sottolineato in Kohler.
Pubblicazione del: 20-03-2009
nella Categoria Filosofia Politica e del Diritto
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