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OSSERVAZIONI SUL TERRORISMO POST-MODERNO (*)

(*) Questo scritto è la rielaborazione delle risposte ad un questionario inviato dalla rivista nordamericana “Telos”, pubblicato sul n. 120 della stessa. Una versione ridotta è comparsa il 3-4 ottobre sul quotidiano “L’Opinione delle libertà”. Tale comunicazione è datata considerato il mutare continuo della situazione, delle informazioni ed il carattere spesso non affidabile delle stesse, che potrebbero smentire, al momento della diffusione, le tesi ivi sostenute.

La catastrofe dell’11 settembre mostra caratteri del tutto nuovi rispetto alle forme di guerra irregolari o “non convenzionali” cui eravamo abituati.

1) In primo luogo è mancata una rivendicazione delle stragi, chiara e pubblica. Questa è normale nella guerra partigiana e terroristica per due motivi: a) prova la propria capacità di colpire e distruggere, cioè di avere potere; b) costituisce il requisito per la propria legittimazione a trattare. Trattativa che “promuove” il partigiano e il terrorista ad interlocutore politico (a pieno titolo) con cui si può concludere la guerra e stipulare la pace.

2) In realtà tale secondo aspetto richiede – generalmente – che il movimento partigiano o terroristico – cioè, di solito, il partito rivoluzionario – costituisca un ordinamento in embrione, il quale aspiri a trasformarsi in stabile e regolare, cioè in uno Stato (o qualcosa del tutto simile, come l’autorità palestinese); o, quanto meno, a modificare i caratteri, la classe dirigente e la costituzione, materiale prima che formale. L’aspirazione a divenire Stato – o modificare questo – comporta necessariamente un rapporto con la popolazione (e, anche se meno rilevante, col territorio), volto – quanto meno - ad acquisire un minimo di consenso, come ad incutere un certo timore. Tutte cose che attentati spettacolari, e “firmati”, producono.

La mancata rivendicazione pone in forse il passaggio allo status (politico) di nemico, ed è a un tempo, confermativa del distacco dalla terra, da uno spazio territoriale limitato e abitato (a un tempo difeso e controllato), di tale nuovo terrorismo. Il carattere “tellurico” del partigiano pare qui assente. Mao-dse-dong sintetizzava il rapporto tra popolazione ed esercito rivoluzionario, paragonandolo alle due braccia di un uomo: coerente ed estrema formulazione del concetto di nazione in armi. A questo terrorismo, invece, manca un braccio.

3) Il che è inconsueto anche perché il soggetto politico che guida la lotta rivoluzionaria è uno Stato in embrione, e di questo ha gli elementi, sia pure in forma fluida: ha una direzione, cioè un “governo”; un territorio, anche se piccolo e incerto; ha – soprattutto, come cennato – una popolazione con la quale mantiene un rapporto di “protezione” e da cui ha, entro certi limiti, consenso e obbedienza. Un grande giurista italiano come Santi Romano ne individuava i caratteri: “si tratta di un’organizzazione, la quale, tendendo a sostituirsi a quella dello Stato, consta di autorità, di poteri, di funzioni più o meno corrispondenti e analoghi a quelli di quest’ultimo: è un’organizzazione statale in embrione, che, a mano mano, se il movimento è vittorioso, si sviluppa sempre più in tale senso”1.

4) La mancanza di rivendicazione, ed il carattere “non tellurico” dell’aggressore rende incerto e non chiaro lo scopo dell’azione terroristica, e, in quanto azione di guerra, il fine di questa. Si può arguire, che, se, come sembra, l’autore ne è Osama Bin Laden e l’organizzazione da questi diretta, l’obiettivo sarebbe il ritiro del contigente americano dall’Arabia Saudita, ma il tutto non appare sicuro. Se invece fosse di mostrare la vulnerabilità della super-potenza planetaria probabilmente il calcolo si rivelerebbe errato, perché l’azione terroristica (e le sue modalità), come avviene spesso nelle democrazie, ha stimolato la volontà di combattere e schiacciare l’avversario: i terroristi, prima all’attenzione di polizia e servizi segreti, ora lo sono a quella di un’intera nazione. E abbiamo la consapevolezza, fin dai tempi di Napoleone e Clausewitz, di quali conseguenze, in termini di radicalizzazione ed intensità della guerra, abbia il coinvolgervi direttamente (ed emotivamente) la popolazione: moltiplicare l’energia bellica, rendendo assai più (facile e) probabile la debellatio del nemico. Se scopo della guerra (in se) come scriveva Clausewitz, è in primo luogo “l’atterramento” dell’avversario, da una parte questo è impossibile per i terroristi, perché la sproporzione delle forze è tale che nessun esito del genere appare possibile: d’altra parte, come mostrato, l’azione è controproducente. Pertanto è evidente che lo “scopo politico” vi debba essere, come c’è sempre in ogni guerra (omne agens agit propter finem, scriveva S. Tommaso), e che questo non si identifica con lo scopo della guerra (in se). Ma quale sia e come si coordini il mezzo (la guerra) con quello appare tuttora poco chiaro. Ciò che può affermarsi di sicuro è che la guerra è un mezzo serio ad uno scopo serio, ed è sempre qualcosa di razionale, nello scopo e nei mezzi; è quindi da escludere, ça va sans dire, che possa costituire il campo di brillanti intuizioni letterarie come l’ “atto gratuito” di Gide.

5) Tornando allo scopo della guerra (in se), questa è in primo luogo di costringere il nemico all’impotenza, a subire la volontà del vincitore. Clausewitz notava che se la guerra reale fosse ciò che risulta dalla sua concezione astratta “una guerra sarebbe assurda fra Stati di potenza notevolmente differente”2.

La considerazione è tanto più valida nel caso nostro dove i contendenti sono, da un lato, la superpotenza planetaria, dall’altro una piccola organizzazione di “senza terra”. Senonchè, scrive Clausewitz, “la guerra reale si allontana sovente dal suo concetto originario”3. Nella specie ciò che riduce lo squilibrio abissale in termini di potenza, è l’altrettanto abissale squilibrio in termini di vulnerabilità. I fattori di potenza sono, spesso, moltiplicatori di vulnerabilità; in questo caso – e tipo di guerra – sempre e in modo acuto. A decidere dell’esito della seconda guerra mondiale non fu tanto lo squilibrio tra USA e Germania in termini di potenza, ma quello in vulnerabilità. L’Oceano Atlantico, insuperabile per Hitler, non lo era per le armate alleate. In questo caso invece popolazione, territorio, ricchezza degli Stati Uniti, costituiscono gli obiettivi (facili) del terrorismo e i “punti deboli” – enormemente estesi – da difendere.

La scarsa consistenza numerica, l’assenza di un rapporto con popolazione e territorio, sono gli elementi di (relativa) in-vulnerabilità degli aggressori. Cui si deve aggiungere un altro fattore che riduce lo squilibrio: la determinazione a condurre la guerra. Clausewitz definisce (è la prima delle sue definizioni) la guerra come “un atto di forza che ha per scopo di costringere il nemico a sottomettersi alla nostra volontà”, onde la vittoria si consegue non con la soppressione fisica (o politica) del nemico ma con l’annientarne la volontà di combattere; questa consiste “nella sottomissione della volontà avversa”4. Per cui la volontà di combattere è decisiva per l’esito. Sotto tale profilo se l’organizzazione terroristica appare estremamente determinata, il mondo occidentale è condizionato da elementi di debolezza, che ne riducono le capacità a sopportare prove “costose”: costumi pacifici, ideologie ireniche, società poco coese, dubbia resistenza ad affrontare conflitti di lunga durata. Gli USA, anche se (probabilmente) più solidi e meglio attrezzati di altre nazioni occidentali, risentono comunque di questo “clima” generale; il cui effetto, nel caso di prolungamento del confronto, non è da sottovalutare.

6) La pericolosità dei terroristi è provata anche dal rapporto tra mezzi e risultati: nel senso che con mezzi minimi si sono ottenuti risultati massimi. Questa guerra terroristica è, in altri termini, estremamente efficiente . Se viene portato ad esempio d’efficienza bellica – e di sproporzione – tra mezzi impiegati e danni arrecati – il forzamento di Alessandria da parte della X MAS, dove sei marinai italiani a cavalcioni di tre siluri pilotati affondarono due corazzate ed un mercantile inglese, questo è stato surclassato da un’azione, che a prezzo di una (o due) dozzine di terroristi morti (addestrati, pare, in scuole di volo americane) ha inflitto perdite umane mille volte superiori, ed economiche ancora più squilibrate. Anche per questo l’invulnerabilità compensa, almeno in parte, la potenza. Ulteriormente esaltata dalla possibilità di infliggere grandi perdite con mezzi minimi, per lo più utilizzando quelli del nemico. Di converso un gruppo terroristico con mezzi – e rapporti – così limitati è difeso dalla sua stessa “scarsa consistenza”.

D’altro canto una delle caratteristiche degli attentati dell’11 settembre è di aver condotto un’azione di guerra senza i mezzi normali ed appositi, cioè le armi. Aerei civili ed il loro carburante sono stati gli strumenti di distruzione. Il che conferma da un lato quanto da più parti sostenuto5 che è lo scopo e non il mezzo a connotare la guerra6, dato che, nel caso nostro, di “arma”, in senso classico, non v’erano che i coltelli usati (pare) per dirottare gli aerei; e d’altro canto ciò è un (ulteriore) elemento riducente il divario tra organizzazione terroristica e (super) potenza statale. Le armi sofisticate della quale, frutto di una tecnologia costosa e raffinata, sono inutili a fronteggiare i pugnali dei terroristi, acquistabili in un supermercato.

7) Sempre Clausewitz ricorda che la “debellatio” (cioè l’atterramento) dell’avversario, è causata principalmente da uno di questi tre fatti: a) lo sfasciamento del suo esercito “quando questo rappresenta realmente una forza consistente”; b) la conquista della capitale nemica; c) un colpo efficace portato al di esso alleato principale7.

Orbene il secondo caso è impossibile, perché il terrorista non ha un territorio né una capitale; il primo, volendo dare il nome di “esercito” a una banda armata, è difficile, non foss’altro perché carente di tutti quei segnali, strutture e servizi che caratterizzano un esercito; infine è possibile che il movimento terrorista abbia degli “alleati”, ma in senso, anche qui, in parte diverso da quello normale, non foss’altro perché uno dei soggetti dell’alleanza non è uno Stato. In realtà questa forma di terrorismo post-moderno, ha portato alla perfezione i consigli di Sun Tzu su “Il vuoto e il pieno” (Hsü Shih). Questi sostiene che di fronte al nemico ci si deve assottigliare… “più del sottile fino a rendersi privi di forma. Smaterializzarsi più degli spiriti fino a rendersi privi di suono! Soltanto così saremo in grado di diventare gli arbitri del loro (dei nemici) destino” e questo perché “Il Nemico manifesta una forma e con ciò si rende umano. Io invece sono privo di forma”; “dimodoché per quanto concerne la forma dell’azione militare, in guerra cioè, si attinge propriamente l’enfasi con l’assenza di forma”8; da ciò conclude “Insomma per quanto concerne l’azione militare una forma siffatta è quella che si assimila all’acqua”9.

E’ chiaro che ad un nemico la cui forma è simile a quella liquida, non si possono applicare le regole per la debellatio, formulate da Clausewitz per una guerra interstatale, cioè classica, già applicabili con difficoltà, riduzioni ed adattamenti a quella partigiana.

8) D’altra parte il fine della guerra è, come scriveva S. Agostino, la pace. Se il senso della vittoria è abbattere ogni resistenza – scrive – la vittoria serve a stabilire la pace. Anche dei briganti “Non vogliono dunque che non vi sia la pace, ma desiderano la pace che vogliono loro”10; e proseguiva “la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene”11 identificava così pace ed ordine, e questo con la disposizione armoniosa degli esseri.

Trasponendola nel sistema internazionale dell’era moderna, caratterizzato da unità politiche stabili (“status”) e delimitate, è (relativamente) facile mantenere un ordine (la pace). Mentre ad un soggetto, che manca di quei requisiti – e anche (sembra) dell’aspirazione ad averli – il problema dell’ordine – successivo - si pone in modo acuto.

9) La nuova situazione politica geo-mondiale può essere considerata anch’essa all’origine delle differenze e dell’ “ascensione agli estremi” di tale nuovo terrorismo. Infatti un conflitto armato trova un proprio “equilibrio” e, in un certo senso, moderazione, nel fatto che tra i due contendenti non vi siano eccessivi squilibri di potenza (politica e militare). Invece l’esser rimasti gli USA sola superpotenza planetaria ha provocato due conseguenze salienti: a) ha squilibrato ancor di più il rapporto tra contendenti, essendoci un solo Golia mondiale, e non più due, almeno concorrenti se non contrapposti. Questo comporta un “salto di qualità” distruttiva per colmare, almeno in parte, il distacco; b) e ancor più la scarsa controllabilità – integrabilità dei movimenti terroristici, rispetto a quelli che li hanno preceduti, data dal riferimento di questi a un “terzo interessato”, potente e credibile antagonista degli USA, che essendo comunque responsabile – proprio perché Stato - evitava, o limitava le azioni più catastrofiche e “illegittime”, condizionando i soggetti rivoluzionari. Concetti come teatro di guerra, linee di fronte, zone d’operazioni, tipiche sia del conflitto convenzionale, e, in certa misura, più ristretta, anche di quello partigiano, qui vengono spazzati via dall’assenza di limiti politici (e giuridici) e dal carattere “planetario” del teatro di guerra, che rifiuta tutte le distinzioni tradizionali della guerra “limitata” e perfino le, ben più ridotte, di quella partigiana del XX secolo.

10) Ogni rapporto, fenomeno e (sovra) struttura sociale, secondo il materialismo storico, sarebbe la proiezione di un rapporto (e conflitto) economico sottostante. Il XXI secolo si apre con un conflitto non inquadrabile in uno schema siffatto, a ulteriore conferma dell’erroneità di questo, in particolare se generalizzato. Tale conflitto pare invece riconducibile a un altro genere, in cui il contrasto ha una discriminante “culturale” assai più che economica.

La globalizzazione del pianeta, non è, come sembra leggendo la stampa, una novità datata agli ultimi anni del XX secolo, ma inizia dall’espansione della civiltà cristiana occidentale, con la scoperta dell’America e “l’apertura” delle rotte oceaniche: almeno dalla fine del XVI, e dall’inizio del successivo secolo, abbiamo i primi esempi di reazione delle altre culture regionali. La “chiusura” del Giappone agli albori dello shogunato Tokugawa – e la più e meno contemporanea cacciata dei Portoghesi e dei gesuiti dall’Abissinia - forniscono il “modello” della reazione di rifiuto-chiusura. L’altro tipo di reazione, quello di assimilazione-emulazione, ha tardato un po’ ad affacciarsi alla storia, ma ha generato figure celebri di modernizzatori, da Pietro il grande a Mehemet Alì, dagli oligarchi giapponesi dell’epoca Meiji a Mustapha Kemal Atatürk. Toynbee l’ha mostrato chiaramente; anche Spengler ha dato, nella cornice della sua filosofia della storia, ampia considerazione ai rapporti tra le diverse civiltà regionali. Non sorprende quindi che, allora come oggi, le élites modernizzatrici delle culture “dipendenti” abbiano dovuto affrontare forti opposizioni interne, per lo più armate, per l’affermazione dei nuovi modelli di organizzazione sociale. Talvolta queste hanno spazzato via quelle, come nell’Iran degli ayatollah. Neppure sorprende che l’aspetto più conflittuale tra la civiltà in espansione e quelle sulla difensiva, sia l’aspetto culturale-sociale più che quello economico: non è contrastato (se non marginalmente o secondariamente) un modo di produzione, quanto dei modelli di vita – e organizzazione sociale.

Diversamente da come pensava Marx i cannoni che abbattevano le muraglie cinesi non erano caricati solo di merci a buon mercato, ma anche di munizionamento ben più diversificato – ed assai meno gradito: ovvero con i prodotti della civiltà e del razionalismo occidentale, dalla scienza moderna al diritto romano, dal dubbio cartesiano ai diritti dell’uomo.

La globalizzazione non è quindi un fenomeno nuovo, ma solo l’estrema fase di sviluppo di un processo di planetarizzazione della cultura occidentale in atto da cinque secoli, che ha prodotto tante reazioni di rifiuto-chiusura, guidate non solo da governi, ma anche da movimenti (e partiti) rivoluzionari.

11) Che il binomio su cui si sarebbe mossa l’unificazione-globalizzazione del mondo, doppio, culturale ed economico, sarebbe stato tale era già stato compreso all’inizio del XVI secolo da Francisco de Vitoria, in un penetrante e innovativo – quanto poco conosciuto – corso di lezioni (la “Relectio de indis”). Questi nell’individuare i tituli legitimi alla conquista del nuovo mondo, li trovava, attraverso la mediazione della “guerra giusta” (justum bellum), per cui agli indios si poteva muovere una legittima guerra di conquista, ove si opponessero all’esercizio di certi diritti, i più importanti e decisivi dei quali erano la causa religionis christianae propagandae e lo jus commerci: religione e scambi commerciali. Cultura (in termini più ampi) ed economia12. Non è un caso quindi che missionari e mercanti fossero i primi destinatari dei provvedimenti d’espulsione degli shogun come dei negus.

La civiltà occidentale si sarebbe espansa – e aveva già iniziato la “conquista” – con i propri “prodotti” culturali ed economici, il rifiuto dei quali giustificava l’uso della forza. Anche dove non fossero arrivati gli eserciti e i funzionari coloniali (come in effetti è capitato in gran parte dell’Asia), sarebbero comunque giunti quelli.

12) L’emergere, dopo la fine della guerra fredda, di una sola superpotenza egemone costituisce una novità, anch’essa unica nella storia, tanto da non essere stata neppure ventilata, persino nel travagliato XX secolo. Neanche Napoleone o Hitler erano andati al di là del tentativo di creare una (stabile) egemonia sull’Europa, cioè in uno spazio politico regionale, anche se assai importante. Nel “Mein Kampf” la politica coloniale di Guglielmo II° viene svalutata e schernita, a favore di acquisti territoriali in Europa: e allo stesso modo l’aiuto ai popoli colonizzati (come India ed Egitto) in funzione anti-britannica; il lebensraum era uno spazio regionale. Anche Mao-dse-dong in una poesia esprime il proprio favore a una divisione del mondo al fine di mantenere la pace, una delle parti del quale, chiaramente, ad egemonia cinese13. Se pertanto al sistema degli Stati, come configurato nel pensiero politico “classico” europeo, si sostituiscono spazi imperiali, tuttavia regionali, la pluralità politica è comunque salvaguardata, (anche se con una riduzione dei soggetti “pleno jure” cioè a sovranità “non limitata”).

Ciò che rende assolutamente nuova la situazione odierna è che il “pluriverso” politico (e culturale) si va trasformando in “universo”.

Carl Schmitt individua (il principale) carattere delle guerre partigiane (e del partigiano) nell’irregolarità, contrapposta alla “regolarità” del sistema degli Stati e dei loro bracci armati, gli eserciti moderni. Concetti come quello di regolarità/irregolarità vanno compresi non tanto come conformità a delle regole intese come norme, ma ad un ordinamento, che ricomprende (genera, modifica, sopprime) le norme, secondo la nota lezione di Santi Romano. Nella nozione di ordinamento statale, che è in primo luogo qualcosa di concretamente esistente, l’aspetto spaziale – come gli altri elementi concreti – determina largamente carattere e connotati dello stesso, con particolare riguardo all’effettività e all’efficacia. Lo spazio caratterizza l’intensità e l’estensione del potere: in uno Stato o impero planetario è assai più difficile sfuggire ai comandi del governo “centrale” (ed all’esecuzione dei medesimi), rispetto al “pluriverso”, non foss’altro perché il territorio degli altri Stati o imperi non può divenire il rifugio o il “santuario” per gli oppositori del primo. Di fronte a un’egemonia planetaria non c’è diritto d’asilo, né base d’operazioni “sicura”: il confine del potere politico coincide con la biosfera, cioè col mondo abitabile.

13) La risposta alla “regolarità” (ossia all’ordine effettivo) planetario non può che essere “l’irregolarità” altrettanto assoluta, che non conosce alcuna delle distinzioni della guerra classica, né tra pace e guerra (non v’è dichiarazione di questa) né tra nemico giusto e non, né tra civile e militare, né tra teatro e non teatro di guerra (e zone d’operazioni): tutto il pianeta è zona d’operazione, come oggetto e spazio del nuovo potere politico, cui il combattente irregolare si contrappone.

D’altra parte è stato osservato14 che la differenza tra i concetti di “operazioni di guerra non militari” e “operazioni militari diverse dalla guerra” è molto più grande di quanto non appaia. In un ordine planetario tra queste due forme di conflitto c’è un rapporto in un certo senso speculare e simmetrico: nella misura in cui aumenta la “regolarità” e l’aspirazione all’ordine internazionale garantito da una super potenza, che tende a degradare ad operazioni di polizia (non-guerra) le azioni militari intraprese dalla stessa e dichiarate tali da organismi internazionali, si accresce di converso l’ambito delle operazioni di guerra non militari, connotate per l’appunto dal massimo dell’irregolarità, estese non solo a condizioni e modi, ma perfino ai mezzi impiegati (non destinati ad uccidere, ma usati a quello scopo).

14) Il nuovo tipo di terrorismo (tra l’altro realizzato con mezzo aereo) ha in comune con l’offesa dall’aria altre caratteristiche già individuate chiaramente dal generale italiano Giulio Douhet, teorico – pioniere della guerra aerea “totale”. Non esistono in primo luogo, “linee” di fronte, perché sono impossibili(o pressoché superflue): il terrorista, come l’aereo le può oltrepassare senza prima essere costretto a spezzarle. Secondariamente, neppure barriere naturali possono concorrere a rinsaldarle: l’aereo, come il terrorista, è “indipendente dalla superficie, capace di muoversi in tutte le direzioni con uguale facilità”.

In terzo luogo così “la guerra può far sentire la sua ripercussione diretta oltre la più lunga gittata delle armi da fuoco impiegate sulla superficie, per centinaia e centinaia di chilometri, su tutto il territorio ed il mare nemico. Non più possono esistere zone in cui la vita possa trascorrere in completa sicurezza e con relativa tranquillità. Non più il campo di battaglia potrà venire limitato: …… tutti diventano combattenti perché tutti sono soggetti alle dirette offese del nemico: più non può sussistere una divisione fra belligeranti e non belligeranti”. Un quarto aspetto è che: “la vittoria sulla superficie non preserva dalle offese aeree dell’avversario il popolo che ha conseguito la vittoria”; per cui concludeva Douhet: “Tutto ciò deve, inevitabilmente produrre un profondo mutamento nelle forme della guerra, perché le caratteristiche essenziali vengono ad esserne radicalmente mutate” di guisa che il più forte esercito e la più forte marina non servono ad evitare le offese che il mezzo aereo – e il nuovo terrorismo – sono in grado di produrre15.

Neppure determinati jura belli, come quello di preda, che valgono a relativizzare la guerra o almeno l’atto di ostilità, sono concretamente esercitabili in un tipo di guerra – e di azioni belliche - come quella terroristica, per di più assoluta. Il saccheggio che soddisfa l’avidità dell’aggressore salvando in genere la vita dei vinti, in questo tipo di conflitto non è esercitabile. L’unico obiettivo dell’azione diventa quindi la distruzione della vita e dei beni del nemico, senza riguardo a quelle distinzioni sopra ricordate.

Tale conclusione mina anche una delle fondamenta – di fatto – dello Stato moderno. Questo, caratterizzato dalla netta distinzione tra interno ed esterno, la basa non solo su presupposti ideali, ma anche sulla possibilità concreta di serrare porti e frontiere, riducendo e minimizzando gli atti di ostilità non rapportabili alla guerra “classica”. Nella specie la situazione presenta questo ulteriore elemento di novità, suscettibile di sviluppi impensabili in un sistema dominato dai soggetti “normali” (gli Stati) e costruito con istituti, rapporti (e concetti) sull’idea (classica) di Stato e di conflitto interstatale.

Carl Schmitt rileva che il rapporto amicus-hostis si nutre di opposizioni di contenuto diverso, alcune delle quali dominanti in determinate epoche, essendo influenzate dal centro di riferimento spirituale. Il succedersi di diversi centri di riferimento spirituali, significa “nello stesso tempo una serie di progressive neutralizzazioni degli ambiti dai quali è stato spostato il centro”16 Così dal XVI secolo ha prevalso prima la “scriminante” di religione, poi relativizzata dalle monarchie barocche; per passare dalla “democratica” fino a quella economica tra proletariato e borghesia, ciascuna delle quali ha determinato raggruppamenti amicus-hortis, successivamente neutralizzati. Esaurita l’ultima delle quali nel 1989 col crollo dell’ideocrazia marxista, pare che il pendolo dell’inimicizia ritorni al punto di partenza, con una contrapposizione a contenuto (culturale-) religioso, la stessa prevalente in Europa agli albori dello Stato moderno nell’opposizione cattolici/protestanti e, subito prima, nel basso medioevo (anche se la situazione era assai diversa) in quella cristiani/non cristiani (questi ultimi, per lo più, musulmani).

Se così è – come appare – c’è anche da interrogarsi su come tale contrapposizione denoti non solo un’eterogeneità irriducibile (ossia insuscettibile di relativizzazione), in contrasto con l’unificazione planetaria, ma che supera (scinde e attraversa all’interno) gli Stati e l’organizzazione internazionale per Stati, e nasce in un’area del mondo che ha subito il processo di statalizzazione, senza quello, parallelo e determinante, di secolarizzazione, tipico della cristianità occidentale. Cui, in definitiva, l’idea di Stato, come concretamente e storicamente affermatasi, è estranea; e senza questa ne rimane solo l’apparato statale di dominio, la “meccanica armatura di legno” di Hegel, a disposizione di ogni gruppo di potere, comunque, ma per lo più religiosamente, ispirato.

15) Se l’aggressore non è riconducibile ad almeno due degli elementi normali di un’unità politica (popolazione e territorio), anche la qualità della reazione deve tener conto.

Infatti il diritto di rappresaglia, sanzione per l’illecito internazionale, può esercitarsi su beni ed interessi dell’offensore: ma ove a questi manchino territorio e popolazione, come sopra cennato, resta da colpire essenzialmente (e praticamente solo) l’organizzazione del movimento terroristico, o i “manutengoli” di questa. La limitazione – per mancanza di “oggetti” delle rappresaglie - può risolversi – e si risolve, come detto – in un vantaggio per l’aggressore; ma la mancanza di quegli elementi ne comporta anche la de-responsabilizzazione di fatto, non dovendo rispondere né a una popolazione né essere colpito nel territorio.

Contrariamente a quanto può pensare qualche pacifista “impolitico” (ovvero chi non comprende come concetti – e status – come guerra e pace sono concetti politici), la guerra può essere “giusta”, e non ha come carattere e fine, l’annientamento fisico e, quasi sempre, neppure politico del nemico. Come scrive Clausewitz nella prima definizione della guerra, sopra ricordata, questa “è un atto di forza che ha per scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà”17. Sviluppando, e inserendo tale concezione nel proprio sistema filosofico, Giovanni Gentile scriveva “Il momento dell’alterità è essenziale come il momento della pura oggettività nel ritmo dell’autocoscienza. L’alterità va superata; ma ci dev’essere. E deve essere vinta. Prima l’opposizione, poi la conciliazione e l’unità” per cui “Tra i modi di superare l’opposizione è la guerra” ma “Soluzione della lotta non è peraltro l’annientamento d’uno dei contendenti, ma della forza per cui possono persistere le ragioni della contesa; ossia della volontà in quanto volontà avversaria. Il nemico deve essere messo in condizioni da non poterci più offendere; e deve riconoscere come sua la nostra volontà. Deve perciò sopravvivere e consacrare nel suo riconoscimento la nostra vittoria”18.

La concezione della guerra come mezzo di soluzione di conflitti tra avversari comunque riconoscentesi il diritto all’esistenza politica come justi hostes è tipica della jus publicum europaeum, ed è la chiave di volta della relativizzazione dei conflitti: ma tale riconoscimento (di justus hostis) è concesso solo da Stato a Stato, o ad un soggetto politico che tale stia per diventare o abbia comunque elementi di “statalità”. Cioè quelli che più facilmente consentono di conservare, nella pace, un ordine internazionale stabile. Che, proprio per questo, appare, con tale tipo di terrorismo, assai difficile da realizzare.

16) L’aggressione dell’11 settembre costituisce un esempio insuperato di guerra assoluta, che secondo la dottrina di Clausewitz, deve “logicamente condurre all’estremo”. Che abbia raggiunto il massimo dell’irregolarità è dato dal fatto che sono violate tutt’e quattro le condizioni della guerra “giusta”, individuate dai primi teorici del diritto internazionale moderno: manca infatti la legittima autorità per muoverla; la giusta causa; la retta intenzione; ed il modo conveniente19. Mentre le guerre partigiane sono “illegittime” perché difetta comunque il primo requisito (non essendo il movimento partigiano uno Stato sovrano) e, di solito non osservano neanche il quarto, possono – e spesso lo fanno – osservare le condizioni della “giusta causa” e della “retta intenzione”, nell’attentato delle due torri non si comprende quale “giusta causa” potesse legittimarlo, né da quale “retta intenzione” possa essere guidato l’aggressore. E non solo perché, in assenza di rivendicazione, non è neppure del tutto certo chi, perché, e in vista di quale obiettivo abbia aggredito; ma perché la mancanza degli elementi di “stabilità”, territorio e popolo, rende equivoco e largamente indeterminabile sia il motivo e, soprattutto, l’intenzione (oltrechè la proporzione tra difesa e offesa). Il collegamento con popolazione e territorio ha dato una certa legittimità a molte guerre irregolari: come quella irlandese, all’inizio dello scorso secolo, risoltasi con la costituzione dell’Eire e il distacco della Gran Bretagna; o come quelle israeliana e palestinese, entrambe concluse con la costituzione di Stati (o qualcosa di assai simile come l’autorità palestinese). Ovvero di soggetti (di un ordine e) di un ordinamento internazionale parzialmente diverso, ma pur sempre inquadrabile in un contesto complessivo di pace e sicurezza reciproca. Come possa essere ricondotto al quale un soggetto politico che appare avulso da un popolo e da un territorio – e financo dell’aspirazione ad essere costituito di quegli elementi – è una domanda cui, al momento, non può che rispondersi negativamente.

Roma 3 novembre 2001

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Santi Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, p. 224, rist. Milano 1983.

2 V. Vom Kriege, I, 2).

3 Ibidem.

4 V. V Ilari, La cultura della guerra in Palomar n. 7, settembre 2001, Firenze, p. 38)

5 V. Quiao Lang e Wang Xiangsui Guerra senza limiti in Limes, (supp.) 4/2001 pp. 91 ss.; V. Ilari op. cit. p. 38.

6 V. Ilari “Non vi sono mai state guerre combattute unicamente con lo strumento militare” op. loc. cit. .

7 V. op. cit., lib. VIII, cap 4. Si rimanda per le condizioni di questi tre casi all’esposizione di Clausewitz, ovviamente assai più diffusa.

8 E prosegue “Se si è privi di una forma, di una stessa evidenza di forma, di una forma che sia sempre la stessa, per quanto profondamente si spii in qualche nostra falla o incrinatura, nemmeno di gettarvi un’occhiata saranno capaci e il più perspicace non sarà nemmeno in grado di congetturare alcunché”, la stessa “forma” è tuttavia solo rinviata al futuro “Eppure ci si deve basare su di una qualche forma! Ma quella supremazia, che si stabilisce e che si configura, va oltre l’aspettativa di quelle stesse masse di cui pure ci si serve e che sono al riguardo incapaci di conoscenza. E del resto chiunque sa che io in qualche modo realizzerò una forma che mi consentirà la vittoria, ma nessuno sa con quale lama modellerò quest’esito di vittoria” – Sun Tzu, L’arte della guerra, trad. it., Roma, 1980 p. 66 ss.

9 Si noti che ciò che rende « istituzionale » il movimento rivoluzionario secondo Santi Romano, è in buona sostanza, la « forma » e quel minimo di elementi che l’assicura ; ovvero proprio quello che per Sun-Tzu è un fattore di debolezza e vulnerabilità nelle guerre. La diversità di opinione dipende ovviamente da quella dell “angolo visuale” tra il giurista e il teorico militare, e potrebbe fornire interessanti spunti sui rapporti tra guerra e diritto, e sull’essenza dei medesimi.

10 De civitate Dei, XIX, 12.

11 Ibidem, XIX, 13.

12 V. F. de Vitoria Relectio de Indis I, 3,2-12.

13 Citata da Carl Schmitt in Theorie des Partisanen, trad. it. Milano 1981 p. 46.

14 V. Quiao Liang e Wang Xiangsui, op. cit. p. 100.

15 Giulio Douhet, Il dominio dell’aria, rist. Roma 1955, p. 9-10.

16 Carl Schmitt in Der begriff des Politischen, trad it. Ora ne “Le categorie del politico”, Bologna, 1972, p. 176

17 Vom Kriege, trad. It, I, 2.

18 Genesi e struttura della Società, X, 6; e prosegue “La guerra infatti non deriva da un nostro inumano desiderio di solitudine. Gli altri, con cui sorge il disaccordo, sono i nostri collaboratori, e concorrono a formare quel patrimonio o sistema spirituale che è il nostro mondo. Causa della guerra è soltanto un dissenso; e fine di essa perciò non è altro che il superamento di tale dissenso”.

19 Sono le quattro elencate da S. Roberto Bellarmino, ora in Scritti politici, Bologna, 1950, p. 259 ss.



Pubblicazione del: 20-03-2009
nella Categoria Dottrina dello Stato e Diritto Costituzionale


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