Schmitt e la teoria della guerra giusta-Andrea Salvatore-Vol.40-
Stampa
Schmitt e la teoria della guerra giusta
Nelle pagine iniziali di Ex Captivitate Salus, Carl Schmitt afferma: «Io sono oggi – nonostante Quincy Wright – l'unico giurista di questa terra che abbia inteso ed esperito in tutte le sue profondità e in tutti i suoi fondamenti il problema della guerra giusta, inclusa, purtroppo, la guerra civile»1. Tralasciando l'impronta autobiografica della citazione (al cui riguardo non si può non scorgere in quell'«esperito» un rimando all'esperienza di imputato al processo di Norimberga, quest'ultimo essendo, secondo il giurista tedesco, il simbolo della perversione dispiegata nel concetto di una guerra intrapresa per fini morali, oltre che l'occasione del testo da cui si è citato), è evidente lo stretto legame che Schmitt intende rivendicare tra la sua attività di studioso e il problema della guerra giusta. Come intendere questo nesso? Schmitt è forse un teorico della guerra giusta? Il presente scritto cercherà di rispondere a queste domande, indagando i rapporti tra Schmitt e il tema della guerra giusta. In particolare, si esporrà in primo luogo in che senso è possibile parlare di una teoria della guerra giusta all'interno degli scritti schmittiani (1.), per poi evidenziare i caratteri fondamentali della prima (2.) e, infine, considerare quale contributo essa apporti per una valutazione delle norme del diritto di guerra attualmente vigenti (3.). Come impone il tema prescelto, verranno considerate soprattutto le opere dell'ultimo Schmitt, principalmente l'opus magnum di questo periodo, ovvero Il nomos della terra. Tuttavia, tesi immanente alla analisi che seguirà è la sostanziale continuità metodologica e contenutistica del pensiero del giurista di Plettenberg: di contro alla più diffusa interpretazione che inquadra l'itinerario filosofico schmittiano in un'ottica esclusivamente occasionalista, si intende qui sottolineare la sostanziale identità della tesi di fondo, che ad avviso di chi scrive ne costituisce il costante esito, pur nelle indubbie variazioni, quando non persino inversioni in itinere, del significato di concetti pur centrali, come nel caso di «nemico». 1. Se, com'è noto, il concetto di guerra è uno degli snodi fondamentali dell'intera riflessione schmittiana, riflesso controfattualmente probante della categoria amico-nemico, lo stesso non può dirsi per il problema della guerra giusta, che compare solo a partire dagli anni '40, agli albori, cioè, della riflessione dell'ultimo Schmitt, il teorico della legittimazione storica del potere politico, per riprendere l'ormai classica periodizzazione proposta da Hasso Hofmann2. Individuato il quadro temporale, per poter rispondere alla domanda sulla presenza o meno di una teoria della guerra giusta all'interno degli scritti schmittiani, è necessario specificare a cosa ci si riferisca con l'espressione «teoria della guerra giusta». Con essa si intendono in realtà due diversi livelli di discorso e altrettanti contenuti normativi. Per quanto riguarda il primo aspetto, si può far riferimento tanto a una teoria morale, intesa come un gruppo di principi deontologicamente ancorati, quanto a una normazione giuridica, intesa come un insieme di norme positivamente sancite. Per quanto attiene al secondo aspetto, l'obiettivo, determinante il contenuto normativo della teoria, può essere descritto in due modi reciprocamente integrabili, ma non interscambiabili: limitare il numero delle guerre, dichiarandone lecite solo alcune, ovvero quelle intraprese ex iusta causa, oppure limitare la ferocia delle guerre, qualsiasi natura giuridica esse abbiano, regolando la condotta di guerra in sè. Ora, alla luce di quanto detto, non sembra sia possibile ricondurre la produzione schmittiana che culmina ne Il nomos della terra ad alcuno dei due livelli del discorso: l'opera citata, infatti, non delinea né una teoria morale né una teoria giuridica, quanto piuttosto una ricostruzione storico-genealogica di un determinato ordinamento giuridico (lo jus publicum Europaeum) alla luce di una nuova categoria centrale per lo studio del diritto (il concetto di nomos); in essa si tratta, in altre parole, di rinvenire le condizioni storiche solo grazie alle quali è stato possibile che si generasse e sviluppasse un deteminato ordinamento giuridico, di cui le norme di guerra costituiscono uno degli ambiti centrali. Focalizzando l'analisi sul tema in esame, si potrebbe dire che Schmitt è non già un teorico, ma uno storico della teoria della guerra giusta, uno storico, tuttavia, che si serve della ricostruzione storiografica per rendere perspicui i fattori possibilitanti e limitanti una specifica delineazione della teoria: scopo del giurista tedesco, dunque, non è né quello di proporre nuove norme né quello di rivedere le vecchie, quanto quello di mostrare come un determinato processo storico sia alla base del fondamento e insieme dell'efficacia di un'altrettanto determinata declinazione della teoria della guerra giusta. Se dunque si può parlare di una teoria della guerra giusta in Schmitt, è necessario specificare che essa non prescrive a quali condizioni normative una guerra possa essere considerata giusta, bensì descrive le condizioni fattuali necessarie per la sussistenza e il rispetto delle condizioni normative: detto altrimenti, quella di Schmitt è una metateoria della guerra giusta. Allargando ora il discorso anche ai contenuti normativi della teoria della guerra giusta generalmente intesa, nella loro duplice declinazione di criteri distintivi per la giustezza del ricorso alla forza e principi atti alla limitazione dell'impiego della violenza, il metodo schmittiano e la strategia argomentativa a esso sottesa dimostrano un'indubbia continuità con gli altri periodi della produzione del giurista tedesco. Proprio di Schmitt, infatti, è evidenziare la tensione tra due momenti costitutivi dell'oggetto d'analisi, al fine di metterne in luce l'ineliminabile dialettica, per poi subordinarne uno all'altro: una stessa realtà, in altri termini, consta di due momenti/componenti distinti e spesso in attrito, in cui uno, tuttavia, pur richiedendo l'altro come antagonista indispensabile, ne costituisce al contempo il vero fondamento. Quanto detto è evidente in ognuna delle principali dicotomie schmittiane: norma e stato di eccezione, politico e amico-nemico, normalizzazione e decisione, legalità e legittimità, costituzione e potere costituente: tutti i concetti richiamati sono indefinibili se non si ricorre ai concetti opposti, e tuttavia uno dei due (i secondi nell'elenco precedente) è il fondamento dell'altro (i primi), ovvero loro condizione di possibilità, logica prima ancora che normativa. Il procedimento seguito da Schmitt nel caso del diritto di guerra è esattamente lo stesso: quest'ultimo si definisce solo in rapporto alle condizioni che ne permettono la pensabilità, oltre che, concretamente, le precondizioni normative. Ma c'è un altro aspetto metodologico in continuità con i precedenti scritti schmittiani, consistente nella scomposizione ai minimi termini dell'oggetto considerato, al fine di mostrare i diversi (e divergenti) apporti alla costituzione di quest'ultimo; anche in questo caso, tuttavia, le spinte centrifughe delle varie componenti finiscono alla lunga per compromettere quell'equilibrio che in un primo tempo, limitandosi reciprocamente, esse stesse erano riuscite a instaurare. Considerando l'altra grande opera di Schmitt, Dottrina della costituzione, il procedimento descritto, che sempre si presenta innanzitutto come un contributo chiarificatore, viene applicato all'analisi dei moderni sistemi costituzionali. Questi ultimi sono composti, secondo il giurista tedesco, da due elementi fondamentali: la componente di derivazione individualistico-liberale del costituzionalismo («principi borghesi dello Stato di diritto») e quella comunitaristico-democratica della sovranità popolare («principi di forma politica»). Questi due apporti originano da due distinti principi in merito all'unità del popolo, cui possono essere ricondotte tutte le classiche divisioni delle forme di governo: il principio della rappresentanza e quello dell'identità; secondo il primo, affinché si dia un'autentica unità politica, è necessario che il popolo sia sempre presente come tale; per il secondo, viceversa, è necessario che esso sia rappresentato fisicamente da individui a ciò delegati. Ancora una volta Schmitt sottolinea la reciproca dipendenza dei due concetti dell'analisi: Nella realtà della vita politica esiste tanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi strutturali del principio di identità, quanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi strutturali della rappresentanza. Anche là dove è fatto il tentativo di realizzare incondizionatamente un'identità assoluta, rimangono indispensabili gli elementi e i metodi della rappresentanza, come viceversa non è possibile nessuna rappresentanza senza raffigurazioni dell'identità. Queste due possibilità, l'identità e la rappresentanza, non si escludono, ma sono due punti contrapposti di orientamento nella concreta strutturazione dell'unità politica. In ogni Stato prevale l'uno o l'altro, ma entrambi fanno parte dell'esistenza politica di un popolo3. Esplicitata la sintesi da cui nascono le moderne costituzioni, tutto il discorso schmittiano ha lo scopo di individuare nella componente liberale, segnatamente nel parlamentarismo, la cancrena dei moderni sistemi liberaldemocratici: sono i pricipi dell'individualismo, del sistema parlamentare e della rappresentanza che accelerano la crisi delle forme costituzionali, portando a quel vuoto formalismo giuspositivistico in virtù del quale la costituzione finisce per identificarsi con la legge costituzionale, rimuovendo la fonte ultima della legittimità, che risiede nel potere costituente del popolo e non già nel potere costituito delle norme costituzionali. Anche in questo caso Schmitt opera seguendo un procedimento a due stadi. Nel primo vengono mostrati gli elementi costitutivi dell'oggetto analizzato (i principi dello Stato borghese di diritto e i principi della forma politica, nel caso delle costituzioni moderne), con i rispettivi e divergenti principi-guida (il principio della rappresentanza e il principio dell'identità), i quali danno vita originariamente a un determinato equilibrio (il costituzionalismo moderno). Nel secondo, tale equilibrio, a seguito di una parabola storica inevitabile, viene meno (crisi del parlamentarismo), rendendo necessaria la scelta di uno di quelli che ora si rivelano i due corni del dilemma (fermo restando che l'altro aspetto non può mai scomparire, ma soltanto essere minimizzato in favore del prescelto): di qui la soluzione schmittiana di una democrazia plebiscitaria, in cui il principio della rappresentanza viene ridotto il più possibile in favore degli istituti giuridico-politici propri del principio di identità. L'equilibrio originario dei due momenti costitutivi è ormai storicamente inadeguato, tanto da aver condotto alla crisi delle liberaldemocrazie; per uscire da tale crisi, occorre abbandonare uno dei due momenti, al fine di dar vita a un nuovo equilibrio, fondato sul secondo. Lo stesso procedimento metodologico viene impiegato anche per quanto riguarda il problema della guerra giusta ne Il nomos della terra e negli scritti dello stesso periodo: anche in questo caso, infatti, si tratta di riportare alla luce le diverse componenti costitutive della teoria in esame, seguendone l'evoluzione storica dalle origini fino all'epoca contemporanea. In particolare, Schmitt evidenzia proprio le tensioni originantesi dalla doppia natura (giuridica e morale) e dalla duplice finalità (di discriminazione particolare e di limitazione generale) della teoria della guerra giusta, mostrando il loro potenziale distruttivo: nuovamente, alla crisi dell'equilibrio iniziale si risponde con l'abbandono della sintesi originaria, in favore di una delle componenti. Come nel caso delle forme costituzionali, tuttavia, questa evoluzione non deve esser vista come la perdita di un'armonia originaria, ma come la necessaria correzione di una contraddizione interna all'oggetto analizzato (sia detto fattore di tensione il parlamentarismo o, come ora vedremo, la connotazione morale delle norme di guerra). Le due continuità metodologiche ravvisate tra lo Schmitt del periodo weimariano e lo Schmitt teorico del nomos hanno in comune l'adozione di un punto di vista dialettico, atto a mettere in luce le ineliminabili, almeno prima facie, tensioni riguardanti il tema di volta in volta affrontato, ma si distinguono per un aspetto decisivo: mentre la prima distinzione rimanda alla dialettica tra fondamento e fondato, quale quella tra decisione e normalizzazione, tra stato di eccezione e norma, la seconda rinvia a un rapporto di originale complementarità, che degenera, in un secondo momento, in una contraddizione da superare, come quella tra principi dello stato borghese di diritto e principi della forma politica. In sostanza, mentre il primo procedimento si basa su un rapporto verticale di dipendenza di una componente dall'altra, il secondo si fonda su un legame orizzontale di interdipendenza, tanto stretto da risultare non interamente eliminabile: nel momento critico, la prima distinzione si fonda su un altro-da-sé, necessariamente esterno all'ambito normativo indagato, cui si deve rimandare quale fondamento ultimo; la seconda su un altro-da-sé, altrettanto necessariamente interno, che deve essere abbandonato, pena l'implosione della sfera normativa. Come si vedrà, tale scelta metodologica è in stretta connessione con la tesi di fondo dell'intera riflessione schmittiana. In conclusione, l'istanza normativa, oltre a rimandare costitutivamente a qualcos'altro (rapporto di dipendenza), deve necessariamente configurarsi secondo certe caratteristiche e non altre (rapporto di interdipendenza-contraddizione). L'indagine, dunque, verte nuovamente sull'individuazione delle condizioni che rendono possibile un determinato sistema normativo, configurato in funzione di specifiche esigenze di coerenza, a partire dall'individuazione dei fattori primi che contribuiscono a plasmare l'unità considerata. 2. È necessario ora introdurre la nuova categoria giuridica che Schmitt pone a fondamento de Il nomos della terra, vale a dire, appunto, il concetto di nomos: con esso si intende la misurazione originaria, da cui tutte le altre derivano, consistente nella suddivisione della terra, successiva all'occupazione di quest'ultima; tale istituzione di delimitazioni spaziali (che Schmitt definisce Ortung, localizzazione) implica un preciso ordinamento (Ordnung). L'ordine concreto che ne consegue si fonda su una normazione interna al fatto dell'occupazione di terra: più che essere unificati, la sfera della fattualità e quella della normatività sono più originariamente inseparabili; il dover essere non si contrappone all'essere (come pure accadrà a partire dai Sofisti, con la contrapposizione di nomos e physis), ma ne è l'immediata conseguenza, non la causa ma il causato. In conclusione, Schmitt afferma: «Il nomos [...], nel suo significato originario, indica proprio la piena “immediatezza” di una forza giuridica non mediata da leggi; è un evento storico costitutivo, un atto della legittimità che solo conferisce senso alla legalità della mera legge»4. Di qui il carattere originario e fondante, rispetto a ogni diritto seguente, attribuito all'occupazione di terra, momento culminante del nomos, cui ci si riferisce esplicitamente come non già una mera fictio euristica, ma «come una fattispecie storico-giuridica, come un grande evento della storia»5, e che determina sia i rapporti interni di proprietà che la contrapposizione esterna con le altre entità territoriali Il concetto di nomos viene elevato da Schmitt a categoria della storia universale: ogni nuova epoca porta con sé una determinata suddivisione dello spazio, nella quale, a sua volta è implicita la «combinazione strutturante di ordinamento e localizzazione»6. In base al criterio del nomos si possono distinguere tre epoche principali, ciascuna con un diverso ordinamento: l'antichità, il medioevo cristiano e la modernità. Tuttavia, solo in quest'ultima epoca, le cui istituzioni portanti, secondo Schmitt, nel momento in cui scrive stanno volgendo al tramonto, si instaura il primo nomos della terra, in quanto per la prima volta si ha, in seguito alle scoperte geografiche, un ordinamento globale, ovvero coincidente con l'intera estensione planetaria. Ciò significa, per altro verso, che il nuovo nomos è possibile solo nel momento in cui l'ordinamento spaziale del mare libero si pone in feconda antitesi con il già costituito ordinamento spaziale della terraferma; tale contrapposizione fu resa possibile, oltre che dalle scoperte geografiche già richiamate, dalla decisione per l'esistenza marittima compiuta dall'Inghilterra nel XVI secolo e dalla Rivoluzione industriale, che permise di rimisurare e dominare tecnicamente la terra7. Fino alla modernità, dunque, ciò che manca è proprio un'immagine scientifica del mondo: la totalità della terra viene pensata soltanto miticamente, e non come risultante di una misurazione valida per tutti gli uomini. Mancando tale coscienza globale, non può sussistere alcuna normazione universale: nell'antichità ogni regno esistente si ritiene il centro del mondo, senza dunque la necessità, se non fattuale, di rapportarsi con le realtà esterne, considerate peraltro come spazi caotici, privi di ordine; i confini territoriali hanno, in quest'ottica, la funzione di «separare un ordinamento pacifico da un disordine senza pace, il cosmo da un caos, la casa da una non-casa, un luogo custodito da un territorio selvaggio»8. Tale rapporto di reciproca esclusione, di non riconoscimento, non può che portare a un diritto internazionale che, pur conseguendo notevoli risultati riguardo al diritto di legazione, alle alleanze, ai trattati di pace, al diritto degli stranieri e a quello di asilo, non è in grado di riconoscere l'altro come justus hostis: la guerra, regolata da questo non riconoscimento tra estranei che costituisce il nomos proprio dell'antichità, si configura quindi come una guerra di annientamento. La grande novità dell'età medievale consiste nel darsi di una prima forma di riconoscimento tra entità territoriali, consistente nella comune appartenenza alla respublica christiana: in virtù di questa rivoluzione, l'ordinamento spaziale è dominato dalla contrapposizione cristiano-non cristiano. Alcuni regni, la cui totalità coincide essenzialmente con il suolo europeo, si riconoscono come facenti parti del populus christianus, il quale eccede i confini comunitari, creando un ambito di condivisione che permette di non intendere più i conflitti tra comunità a esso appartenenti come guerre illimitate, a differenza di quelle rivolte contro popoli e principi non cristiani, ma come riaffermazioni di un diritto comune violato, e quindi, in ultima istanza, come una conferma della superiore validità di un unico ordinamento complessivo, alla cui vigenza si rimette l'ormai necessaria valutazione teologico-morale del conflitto. Il carattere di forza frenante (katechon) proprio dell'impero cristiano permette, a differenza del mondo antico, una limitazione effettiva della condotta di guerra. Solo con l'avvento della modernità, tuttavia, si pone, a seguito delle nuove scoperte geografiche, la necessità di «un ordinamento spaziale di diritto internazionale dell'intero globo terrestre»9. Si sviluppa, quindi quello che Schmitt definisce un pensiero per linee globali, fondato sull'equiparazione di superficie terrestre e superficie marina e sulla contrapposizione tra potenze europee e territori extraeuropei: il nuovo mondo e gli oceani si presentano come uno spazio libero per l'occupazione e l'espansione europea, nei cui confronti vale solo il diritto del più forte e dunque la guerra risulta senza limiti. La mancanza di una istanza arbitrale comune, che invece veniva riconosciuta durante l'età della respublica christiana nell'autorità papale, instaura uno spazio bellico tra le potenze europee: l'unico riflesso dell'ordinamento del periodo precedente consiste nella condivisa credenza secondo cui solo i prìncipi europei hanno diritto a prendere parte alla conquista del nuovo mondo. Si crea in tal modo un nuovo ordinamento, fondato su due macrozone planetarie: da una parte la presenza del diritto pubblico europeo, regolante i rapporti interstatali del vecchio mondo; dall'altra l'assenza di ogni diritto per quanto riguarda il nuovo mondo. Quest'ultimo veniva così considerato come l'ambito in cui le potenze europee potevano legittimamente guerreggiare per la propria espansione, a differenza di quanto avveniva all'interno del vecchio continente; in tal modo, lo spazio extraeuropeo assolve a una fondamentale funzione di sgravio, permettendo allo spazio europeo di presentarsi come il campo del diritto, dell'ordine e della pace. Ma l'evento fondamentale che segna l'inizio dell'era moderna, almeno dal punto di vista giuridico e politico, è la nascita dello Stato territoriale sovrano: è questa nuova entità, infatti, a eliminare l'impero sacrale del medioevo con la sottesa potestas spiritualis pontificia, ridotta a strumento del potere statale, e a fondare in tal modo, all'interno del vecchio continente, un diritto tra realtà territoriali ugualmente sovrane e indipendenti, lo jus publicum Europaeum; è questo nucleo giuridico europeo a determinare quel nomos della terra che comprenderà l'intero mondo fino al XX secolo. La nuova realtà statale si caratterizza essenzialmente per la creazione di una superficie territoriale delimitata, retta da un'unità politica centralizzata in grado di sottomettere e regolare ogni altro potere, tramite l'istituzione di competenze legislative, amministrative e giurisidizionali, superando in tal modo ogni lotta intestina sia politica che religiosa. Il nuovo nomos è dunque essenzialmente fondato su un rapporto interstatale di uguaglianza fattuale e quindi anche giuridica10. Distinti in tal modo i tre grandi ordinamenti storico-mondiali, è necessario ora indagare il rapporto che ciascuno instaura con la questione della limitazione della guerra. Essendo il nomos dell'antichità caratterizzato da un non riconoscimento tra estranei, è naturale, come detto, che la guerra sia in tutto e per tutto illimitata. L'ordinamento del medioevo, invece, si basa sul reciproco riconoscimento tra principi cristiani, fondato in ultima istanza sull'autorità spirituale del papato. È quest'ultima a vincolare la definizione della guerra giusta alla justa causa, ovvero all'attuazione di determinate pretese giuridiche, al di là del tipo di guerra che si conduce e dalla natura politica degli attori coinvolti: qualsiasi attore è legittimato a condurre una guerra, a patto che rispetti il principio della giusta causa, cui ogni altra limitazione è quindi subordinata. La limitazione propria del medioevo è dunque tutta interna allo jus ad bellum: il ricorso alla violenza viene limitato nella misura in cui si permettono determinate guerre e se ne impediscono altre. L'età moderna, infine, essendo fondata sul riconoscimento non più dell'autorità giuridica sovranazionale della Chiesa, bensì dell'eguale sovranità degli Stati, rovescia la gerarchia medievale: il concetto centrale non è più quello di justa causa, ma quello di justus hostis. Come si vede, il rapporto tra attori e causa della guerra è inverso rispetto al periodo precedente, risultando incentrato interamente sullo jus in bello: non è più la giusta causa a rendere irrilevante la natura dell'attore che la persegue, quanto, viceversa, è la natura statale degli attori coinvolti a rendere del tutto indifferente il motivo che li ha spinti a dichiarare guerra. Al riguardo, Schmitt afferma che la svolta storica avvenuta nel diritto internazionale tra il Medioevo e l'età moderna si compie in una duplice separazione di due ordini di idee che per tutta la durata del Medioevo erano apparsi inseparabili: nel definitivo distacco dell'argomentazione ecclesiastica e teologico-morale da quello giuridico-statale e nel distacco egualmente importante della questione morale e giusnaturalistica della justa causa da quella tipicamente giuridico-formale dello justus hostis, distinto a sua volta dal criminale, vale a dire dall'oggetto di un'azione punitiva. In questi due punti consiste il passaggio decisivo dal diritto internazionale medioevale a quello moderno, da un sistema di pensiero ecclesiastico-teologico a uno giuridico-statale11. Qui vediamo operare quel procedimento metodologico di scomposizione dell'oggetto analizzato, menzionato precedentemente: come nel caso delle moderne costituzioni Schmitt riportava alla luce la duplice radice individuabile nei principi dello Stato borghese di diritto e nei principi della forma politica, così anche in questo caso il giurista tedesco mostra la complessità del concetto di teoria della guerra giusta, sistema di norme comprendente tanto una natura teologico-morale quanto una teologico-politica, e tanto un fine di discriminazione delle guerre quanto uno di limitazione assoluta di ogni guerra. Ancora: come nel caso della costituzione, all'equilibrio tra i due ordini di principi propri di una prima fase faceva seguito una crisi implicante necessariamente la decisione per uno dei due momenti, così anche qui all'inseparabilità delle componenti individuate, propria del medioevo, fa seguito la crisi di questo equilibrio originario (causato dal fatto che autorità morale e autorità giuridica si rivelano non più coincidenti) e la conseguente necessità di tener ferma una sola delle componenti, riducendo a essa anche l'altra; tale necessità si esplica di fatto in una deteologizzazione, ovvero nell'abbandono della componente morale con il relativo fine di discriminazione delle guerre, in favore di un'assolutizzazione della componente formal-giuridica con l'annesso effetto di limitazione assoluta della guerra. Va chiarito che tale evoluzione, sia nel caso della costituzione che di quello della guerra giusta, non definisce né un progresso né una decadenza, quanto più semplicemente la necessità di adeguare all'evoluzione storica delle condizioni della convivenza inter gentes un adeguato impianto giuridico. Tuttavia Schmitt, nonostante individui sia nell'età medievale che in quella moderna una teoria della guerra giusta, fondata come visto su assunti opposti, afferma perentoriamente che solo l'età dello jus publicum Europaeum «conseguì un reale progresso: quello di circoscrivere e di limitare la guerra europea»12. Quali sono, allora, le deficienze della teoria della guerra giusta medievale rispetto a quella propria della modernità? Innanzitutto, il fatto che la fattispecie guerra comprendesse ambiti molto diversi tra loro, dalla faida alla resistenza alla tirannia, fino al conflitto armato vero e proprio: di qui una pluralità di legittimazioni della guerra, ovvero una molteplicità di giuste cause per il ricorso alla violenza, dal diritto feudale di faida al diritto cetuale di resistenza, fino all'espansione del mondo cristiano; ciò comporta un potenziale conflitto tra le varie legittimazioni, oltre che, di fatto, una più estesa possibilità di far ricorso alla guerra. In secondo luogo, è proprio della natura morale della teoria medievale il rischio di degenerare in una serie di distinzioni assolute e radicali, che non ammettono moderazione né contenimento della forza: il nemico diviene il male assoluto contro cui ogni mezzo è lecito e la guerra giusta una guerra totale, una guerra santa in cui non si dà reciprocità nel riconoscimento dello jus belli; in più, il concetto di giusta causa si rivela prospetticamente indecidibile13. Infine, l'intera teoria si fonda su valori condivisi, basati su un ordinamento spaziale non mediato orizzontalmente tra entità fattualmente e giuridicamente eguali, come nel caso del diritto interstatale moderno, ma definito verticalmente da una gerarchia eterogenea quale quella tra un'entità in primo luogo spirituale (la Chiesa) e realtà territoriali distinte (i regni cristiani). In altre parole, al diritto di guerra medievale manca quella assoluta ed esclusiva identità tra fonte della legittimazione e attori della guerra propria della modernità; nel momento in cui, con le guerre civili e di religione, i tre difetti indicati da insidie latenti si trasformano in veri e propri fattori di disgregazione della teoria, si impone la necessità di un nuovo ordinamento spaziale. Lo jus publicum Europaeum è fondato sul reciproco riconoscimento tra Stati ugualmente sovrani: da tale parità deriva l'invalidità del criterio della giusta causa, in quanto la decisione unilaterale di uno Stato riguardo alla giustizia di un altro negherebbe proprio tale uguaglianza. In tal modo, il concetto di nemico viene ad assumere una forma giuridica, distinguendosi da quello di criminale: l'avversario non è più un essere moralmente inferiore che deve essere annientato, ma uno justus hostis, uno Stato legittimato al pari di ogni altro Stato a intraprendere un conflitto; in questa distinzione epocale di nemico e criminale va vista la causa ultima della limitazione della guerra. La rivoluzione operata rispetto alla teoria della guerra giusta medievale può esser riassunta in un processo di reductio ad unum di quella molteplicità che aveva segnato il fallimento della limitazione ex justa causa: la modernità opera un'identificazione assoluta ed esaustiva tra fonte di legittimità, attore e principio legittimante la guerra. Infatti, lo Stato è, al contempo, l'unico soggetto che può muovere guerra, l'unica fonte di legittimazione della medesima e l'unico principio di giustificazione di quest'ultima: guerra giusta e guerra interstatale divengono in tal modo concetti totalmente coestensivi. A questo punto risulta evidente come operi l'altro fattore di continuità metodologica dell'argomentare schmittiano, ovvero la dialettica tra fondamento e fondato: nel caso della teoria della guerra giusta tale rapporto si instaura tra l'efficacia delle norme dello jus in bello previste dallo jus publicum Europaeum e le condizioni di possibilità storico-fattuali di quest'ultimo. Nello stesso modo in cui lo Schmitt teorico del diritto pubblico aveva mostrato come i concetti di norma, politico, normalizzazione, legalità e costituzione non siano affatto il primum del diritto, ma rimandino rispettivamente ai più originari concetti di stato d'eccezione, amico-nemico, decisione, legittimità e potere costituente; parimenti nel caso della teoria della guerra giusta, il giurista tedesco mostra come i principi e le norme limitanti l'impiego della violenza dipendano interamente dalla più originaria sussistenza di un determinato ordinamento spaziale, senza il quale una limitazione della guerra risulterebbe del tutto impensabile. Una riprova e contrario di quanto detto può esser vista nel fallimento di ogni tentativo di limitare la guerra una volta entrato in crisi lo jus publicum Europaeum, in seguito all'equiparazione giuridica di spazio europeo e spazio extraeuropeo compiutasi alla fine del XIX secolo, in favore di un universalismo normativo astratto e despazializzato: non appena si innalza il nomos ad astratta legge mondiale, lo jus publicum Europaeum, deterritorializzato, non può che sgretolarsi; ancora una volta è la riduzione del diritto a legge a sancire il fallimento di ogni regolazione normativa14. Non solo: il venir meno dell'ordinamento spaziale moderno ha come conseguenza un recupero della valutazione morale della guerra, tipico del diritto internazionale premoderno della respublica christiana; venuti meno la pari dignità giuridica degli Stati e il relativo concetto di justus hostis, subentra una criminalizzazione non solo del nemico, come nel medioevo, ma in più anche della guerra tout court, in nome di un concetto discriminante di umanità, in virtù del quale il nemico è un essere inumano, che quindi va combattuto, se necessario, anche con mezzi inumani15. Limitazione della guerra e ordinamento giuridico fondato su un reciproco riconoscimento tra eguali, dunque, stanno e cadono insieme (nello specifico si ottiene il seguente rapporto verticale dal fondato al fondamento: limitazione-riconoscimento-simmetria-uguaglianza fattuale): perpetuare la prima eliminando il secondo è, per Schmitt, un fine tanto illusorio da rovesciarsi nel suo contrario, come mostra la sostituzione del pluriverso ineguale (da un lato sistema europeo e dall'altro mondo extraeuropeo) in favore della vuota tecnocrazia delle forze universalistiche del liberalismo e del capitalismo, che conduce a un concetto di guerra, umanitaria appunto, ancor più distruttivo. Definito in questi termini il rapporto tra fattualità e normatività per quanto concerne il problema della guerra giusta in Schmitt, è possibile individuare quello che, a mio avviso, costituisce il vero filo conduttore, e insieme la lezione principale dell'intera riflessione schmittiana, vale a dire il fatto che il normativo presuppone delle precondizioni fattuali, e in quanto tali a esso indisponibili, per la sua costituzione teorica e la sua efficacia pratica. Contro ogni normativismo puro e in tutto autosufficiente, Schmitt mostra, in altre parole, come ogni sistema normativo dipenda inevitabilmente da determinati presupposti non normativi: è il fatto a determinare il diritto e non viceversa. Questa necessaria trascendenza fattuale del normativo si ritrova in ogni fase del pensiero schmittiano e, anzi, pressoché in ogni testo: dall'impossibilità di dedurre la decisione giudiziaria nella sua interezza da norme giuridiche preesistenti tramite interpretazione e sussunzione, sostenuta nella prima opera, Gesetz und Urteil16, passando per la necessità di previe condizioni di normalizzazione fattuale, possibilitanti l'applicazione della norma, teorizzata in Teologia politica17, fino al concreto ordinamento spaziale come precondizione effettiva delle norme limitanti il ricorso alla forza, delineato ne Il nomos della terra (si noti, però, che, a differenza del caso della decisione, in cui la precondizione fattuale è comunque soggettivamente disponibile, in quanto atto del sovrano, nel caso dell'ordinamento spaziale, l'indisponibilità del fattuale diviene assoluta, rimandando a un ambito storico-destinale; tanto è vero che il tramonto dell'Occidente viene visto, heideggerianamente, nell'oblio della differenza giuridico-ontologica tra norma e nomos18). A quanto detto è necessario aggiungere due specificazioni. In primo luogo, che il normativo presupponga condizioni non normative non significa che il primo rimandi a un ambito non giuridico, per il semplce fatto che in Schmitt normativo e giuridico, ovvero legge e diritto, non coincidono, quest'ultimo ricoprendo uno spazio molto più esteso del primo (del resto il nomos non è altro che una forma di diritto non determinata dalla legge, in quanto più originaria e determinante proprio quest'ultima): per Schmitt, non a caso, ritenere che ogni decisione giuridica debba derivare dal contenuto di una norma è l'errore capitale che il razionalismo illuministico ha trasmesso a forme di giuspositivismo estreme, quale quella kelseniana. In secondo luogo, la tesi della necessaria trascendenza fattuale del normativo potrebbe essere ulteriormente specificata, estremizzandola, come Schmitt fa negli ultimi scritti. In sostanza, non solo il normativo rimanda a un previo ambito fattuale a esso indisponibile, ma in più quest'ultimo si rivela come uno spazio radicalmente antinormativo, ovvero caratterizzante il reale secondo principi opposti a quelli di cui pure costituisce la condizione di possibilità: non solo l'efficacia delle norme di guerra rimanda a un determinato ordinamento spaziale, sovraindividualmente costituitosi, ma in più tale nomos si fonda sulla ineliminabile sussistenza (pena il venir meno del nomos stesso) di forme di guerra illimitate e miranti all'annientamento, quali le guerre civili e le guerre coloniali (cui in seguito si aggiungerà la guerra partigiana, con la rinascita del concetto di inimicizia assoluta19), da Schmitt esplicitamente escluse dalla regolazione del diritto di guerra, in quanto entrambe neganti il carattere identitario dell'unità giuridica statale ed europea. Solo queste ultime rendono possibile la guerre en forme; il che significa che la limitazione della guerra (statale) è resa possibile solo dalla non limitazione di altre guerre (non statali, siano esse sub-statali o extra-statali). In conclusione, la metateoria della guerra giusta presente ne Il nomos della terra (parte di una più ampia metateoria degli ordinamenti spaziali, di cui costituisce il capitolo moderno) illumina le condizioni storico-fattuali per l'effettiva costituzione e osservanza delle norme del diritto di guerra. Per quanto riguarda la costituzione di esse, il principio della giustificazione della guerra deve essere ridotto alla titolarità dello jus ad bellum: in altre parole, la liceità sostanziale della justa causa deve essere sostituita dalla regolarità formale dello justus hostis, al fine di riconoscere il nemico non come un essere inumano, contro cui ogni mezzo è lecito, bensì come un individuo con pari diritto, contro cui dunque è necessario limitare l'impiego della forza. Perché le norme di guerra così delineate siano osservate di fatto, invece, è necessario un ordinamento spaziale che abbia due caratteristiche: a) una condizione di effettiva parità di mezzi, risorse e potere dei soggetti componenti; b) una comunanza di interesse nel mantenere lo status quo cristalizzatosi nell'ordinamento vigente20. L'interesse di ogni Stato all'espansione è frenato, in questa visione, dal superiore interesse al mantenimento dello status quo dell'ordinamento giuridico: le guerre, dunque, vengono condotte in modo tale da non compromettere la stabilità di quest'ultimo; questo scarto costituisce lo spazio proprio della limitazione della forza, che, come ormai dovrebbe essere chiaro, in Schmitt è totalmente identificato con le restrizioni proprie esclusivamente dello jus in bello. Come detto, l'analisi del problema della guerra giusta fa parte di una più generale metateoria degli ordinamenti spaziali, a sua volta ulteriore declinazione della tesi centrale della riflessione schmittiana: la necessaria trascendenza fattuale del normativo. A tale coerenza contenutistica generale si accompagna una parallela continutà metodologica consistente nella duplice contrapposizione, per un verso, di concetto fondante e concetto fondato (nomos e norma), per altro verso delle opposte componenti dell'oggetto d'analisi (diritto vs. morale e liceità sostanziale vs. regolarità formale, nel caso della teoria della guerra giusta). Ciò significa non che negli scritti schmittiani non siano presenti, come da più parti notato, formulazioni molto diverse di uno stesso concetto, spesso dettate da occasionali interessi più o meno teorici, quanto piuttosto che tali riformulazioni sono pensate proprio per mantenere ferma la tesi di fondo indicata: in altri termini, è in funzione di quest'ultima che ogni altra affermazione viene fatta dipendere; verrebbe da dire che proprio il mutare di determinati concetti prova, e contrario, la centralità della necessaria trascendenza fattuale del normativo, ovvero della tesi fondamentale dell'intera riflessione schmittiana. Si consideri, ad esempio, il concetto di nemico: finché una sua estremizzazione si rivela necessaria per sostenere la necessità della decisione del sovrano, ovvero proprio dell'istanza fattuale che permette il normativo, esso viene caratterizzato, su tutti nel caso de Il concetto di “politico”, come esistenzialmente assoluto e totale; nel momento in cui, invece, come ne Il nomos della terra, la precondizione del normativo necessita di un'altra declinazione, incarnandosi in un nomos storico sovraindividuale, ecco che anche il concetto di nemico viene ridefinito, in questo caso addirittura in senso opposto, come un avversario in tutto e per tutto esistenzialmente simile a noi, tutt'altro dunque dalla costante minaccia nei confronti della nostra forma di vita21. Lo stesso potrebbe dirsi dei concetti di legalità e legittimità: fatto salvo il rimando al nomos, infatti, nell'affrontare il problema della guerra giusta, Schmitt antepone la legalità procedurale (la titolarità dello jus ad bellum) alla legittimità sostanziale (la validità della justa causa). Infine, una simile inversione è riscontrabile anche sul piano metodologico: nell'ultimo Schmitt quello che interessa non è più l'eccezione, la situazione limite, bensì il caso normale, la situazione regolare, al punto che il giurista tedesco non tratta mai di un tema classico della teoria della guerra giusta, quale quello dell'emergenza suprema. Se dunque per un verso le riformulazioni schmittiane possono essere ricondotte alla superiore esigenza di tener ferma l'indisponibilità delle precondizioni fattuali del normativo da parte del normativo stesso (fatti salvi, beninteso, gli opportunismi politici ormai ampiamenti documentati, tanto che si potrebbe distinguere, per maggior chiarezza, tra occasionalismo e opportunismo), per altro verso, è possibile individuare altri elementi di continuità. Dal punto di vista contenutistico, è necessario sottolineare il costante confronto con la teologia politica: oltre all'esplicita ripresa in Politische Theologie II22, per restare al tema in esame, ciò che secondo Schmitt permette alla respublica christiana di porsi come unica forza frenante il ricorso alla violenza rispetto all'impero romano, che pure poteva contare su una più consistente e concreta comunanza di istituti giuridico-amministrativi, altro non è che il suo carattere di katechon, ovvero di riflesso secolarizzato dell'opposizione all'avvento dell'Anticristo. Dal punto di vista metodologico, invece, immutata risulta l'attitudine schmittiana alla caratterizzazione polemologica dei principali concetti dell'analisi giuridico-politica, come alla delineazione del reale tramite contrapposizioni dialettiche: per restare al tema qui sviluppato, il concetto di nomos si definisce proprio come immediata misura dell'ordine sia interno che esterno, come confine che, separandoli, contrappone l'uno all'altro. Infine, sia metodologicamente che contenutisticamente, costante risulta l'attitudine a sciogliere i contrasti derivanti dalla genealogia concettuale polemologica, sopra richiamata, tramite una decisione, ovvero un tagliar via la componente che insieme costituisce l'origine del contrasto e l'impossibilità di porvi rimedio: nel caso della teoria della guerra giusta, tale decisione riguarda sia la componente morale che la normatività dello jus ad bellum. 3. Delineata in tal modo la trattazione schmittiana del tema della guerra giusta, è opportuno ora chiedersi quali indicazioni è possibile trarre da essa per una riformuazione contemporanea delle norme regolanti i conflitti armati. Più che su osservazioni precise, verranno qui di seguito enucleati quattro principali ambiti problematici: il primo (a) è la deduzione contenutistica del metodo schmittiano di contrapporre fondamento e fondato; il secondo (b) è la trasposizione dell'altra strategia metodologica di far interagire i due momenti costitutivi e divergenti dell'oggetto analizzato, applicata sia al rapporto tra morale e diritto (b1) sia a quello tra i presupposti morali di jus ad bellum e jus in bello (b2); il terzo (c) riguarda invece un aspetto particolare della teoria, ovvero l'estensione della fattispecie normativa; il quarto (d), infine, concerne una visione più generale della teoria in esame. a) Le precondizioni fattuali possibilitanti il normativo. La principale lezione schmittiana consiste, come più volte rimarcato nel presente scritto, nello svelare i necessari presupposti fattuali del normativo. Per quanto riguarda il tema della guerra giusta, si assiste a una restrizione delle possibilità normative, secondo un argomento a tre stadi: 1) non ogni epoca permette una limitazione della guerra; 2) non ogni guerra può essere limitata; 3) la limitazione di un certo tipo di guerra è resa possibile dall'assoluta non limitazione di un altro tipo di guerra. Tale argomento confuta lo speculare argomento dell'universalismo normativo, secondo cui è possibile in ogni epoca operare per una limitazione di tutte le guerre, almeno in linea teorica. Più specificamente, viene qui messa in luce la necessaria dipendenza della sfera normativa da un ambito esterno a esso: in ogni caso, non è possibile limitare la guerra per il solo fatto di volerlo, anche qualora questa volontà venga giuridicamente ancorata. Tuttavia, se dovessimo seguire l'argomento schmittiano nella sua interezza, individuando tale ambito esterno al normativo in una fattualità storico-epocale, si dovrebbe affermare l'impossibilità di instaurare le condizioni per il rispetto delle norme di guerra, in quanto dipendenti da uno stato di cose indisponibile all'intervento umano. Questa è certamente la più difficile sfida schmittiana: per l'osservanza delle norme di guerra non basta educare i singoli al rispetto del nemico, in quanto la loro forma mentis è plasmata molto più radicalmente da una Weltanschauung improntata secondo l'ordinamento spaziale vigente di volta in volta. Ora però questo univoco determinismo è messo in crisi, o comunque invalidato nella sua assolutezza, dall'entrata in quella che viene chiamata «tarda modernità» o «modernità riflessiva»: essa si caratterizza proprio per la presa di coscienza e la capacità di correggere criticamente i processi sociali evolutisi nell'età moderna. Tale mutamento non è né univoco né assoluto; tuttavia, permette una prima risposta alla sfida schmittiana, quantomeno nella misura in cui mostra come l'immagine di un sistema normativo totalmente determinato dalla fattualità sia una estremizzata astrazione, almeno al pari di quella di un normativismo demiurgo onnipotente della costituzione del reale. b1) La necessaria distinzione tra morale e diritto. Ciò è necessario a un duplice livello: sia per quanto riguarda la teoria della guerra giusta in sè, che deve configurarsi come un insieme di norme giuridiche e non di principi morali, sia per quel che attiene allo jus ad bellum, il quale deve essere fondato sulla titolarità dello jus belli e non sulla validità della justa causa. A mio avviso, entrambe le osservazioni devono essere seriamente meditate. Da un lato, l'attuale plurilegittimazione del ricorso alla violenza in ambito internazionale, con l'inevitabile anarchia normativa che ne consegue, non può non essere ricondotta al doppio standard oggi vigente: per un verso, il dettato della Carta delle Nazioni Unite, per altro verso, esigenze morali affermate come assolute, in virtù delle quali le norme positive vengono scavalcate in favore di un inderogabile umanitarismo (che tali norme siano la maschera ideologica di più segreti interessi geopolitici o meno è qui irrilevante). Dall'altro lato, tale plurilegittimazione, informata da una fonte morale e da una fonte giuridica, viene rispecchiata, stavolta in ambito esclusivamente giuridico, nell'insieme dei principi legittimanti il ricorso alla guerra: in tal modo, il diritto internazionale contempla principi tra loro in potenziale contraddizione, come quelli del mantenimento della pace, della salvagurdia dei diritti umani e dell'assicurazione del diritto all'autodeterminazione23. Anche qui la lezione di Schmitt è chiara: lo jus ad bellum è efficace solo se viene ricondotto a un unico e univoco criterio, giuridicamente inderogabile, regolante ogni fattispecie (tralasciando qui la pur fondamentale questione sul soggetto giuridico cui tale diritto deve essere riconosciuto). Condividere il monito di Schmitt non significa ovviamente doverne accettare le soluzioni: tanto una rigida deduzione del normativo dalla fattualità, per quanto riguarda il rapporto tra morale e diritto sul piano della teoria della guerra giusta, quanto la liceità assoluta della ragion di Stato (a patto che di Stato), per quanto riguarda il medesimo rapporto sul piano dello jus belli, non sono, infatti, più accettabili. Tuttavia, entrambe possono essere riformulate in modo da accogliere l'utile diagnosi del giurista tedesco, senza necessariamente doverne condividere la terapia. Nel primo caso, il rapporto tra morale e diritto andrebbe limitato al momento della statuzione del secondo, in cui possono essere avanzate argomentazioni proprie della prima sfera; una volta positivamente statuite, tuttavia, le norme devono risultare inderogabili, pena l'inefficacia della teoria stessa. Nel secondo caso, l'istanza schmittiana potrebbe essere corretta e ridotta al solo diritto di autodifesa, in tal modo neutralizzando i possibili contrasti con altri principi e soddisfacendo l'inaggirabile necessità di un unico criterio regolativo. b2) La necessaria distinzione tra giustizia assoluta e giustizia relativa. Come visto, Schmitt individua nella distinzione tra jus ad bellum e jus in bello, ovvero i due pilastri costitutivi della teoria della guerra giusta, una ineliminabile tensione strutturale, al punto che, per eliminare quest'ultima, riduce il primo al formalismo statualistico dello jus belli. Merito del giurista tedesco è appunto aver esplicitato il rapporto di potenziale contraddizione tra i due ordini di norme: mentre lo jus ad bellum, infatti, mira a discriminare le guerre in base alla giustezza della causa, operando una distinzione di genere assoluta tra la liceità di alcune guerre e l'illiceità di altre, lo jus in bello, viceversa, mira a discriminare non già le guerre in sè, ma gli atti compiuti nel corso del loro svolgimento, operando una distinzione di grado relativa al maggior o minor rispetto del diritto di guerra in ogni singola conduzione delle ostilità. Questo si riflette anche sul criterio di valutazione della vita degli individui coinvolti: detto brutalmente, mentre nell'ottica dello jus in bello i morti si contano, in quella dello jus in bello si pesano; da una parte c'è un'equiparazione del valore delle vite dei coinvolti, dall'altra una distinzione delle medesime. In tal modo, risulta evidente il cortocircuito, almeno potenziale, tra i due ordini di norme: il deontologismo dello jus ad bellum è difficilmente conciliabile, se non in un compromesso sempre precario, con il consequenzialismo dello jus in bello. Questo contrasto, su cui non si insisterà mai abbastanza, costituisce il vero “cuore di tenebra”, la minaccia di dissoluzione della teoria in esame, evidenziata da Schmitt, ancora una volta, in tutta la sua radicalità e acutamente ricondotta, come conseguenza immediata, alla logica amico-nemico sottesa al sistema statuale. Certamente, è possibile incrociare i due criteri, ancorando la giustizia della guerra a un doppio vincolo, come teorizzato nella maggior parte delle formulazioni. Tuttavia, come rimediare a tutte quelle situazioni in cui il rispetto delle norme dello jus ad bellum comporta la necessaria violazione di quelle dello jus in bello? La risposta di Schmitt è inequivocabile: dato che tale contrasto sarà sempre insanabile, è necessario eliminare uno dei due poli, cosa che il giurista tedesco fa neutralizzando il deontologismo latente dello jus ad bellum, riducendolo al formalismo esplicito della titolarità dello jus belli. I teorici della guerra giusta, viceversa, o negano il contrasto evidenziato o, per porvi rimedio, ammettono delle deroghe al dettato della teoria riconoscendo il caso dell'emergenza suprema: quest'ultima alternativa è quella adottata, tra gli altri, da Michael Walzer nell'affrontare quelli che definisce dei veri e propri «dilemmi della guerra»24; tuttavia, il ricorso all'emergenza suprema finisce per minare inesorabilmente la teoria stessa, giungendo fino alla sua autodissoluzione, in quanto, aporeticamente, non è possibile individuare un'istanza superiore che regoli e decida il rapporto tra la normalità del diritto e l'eccezione dell'emergenza suprema25. Paradossalmente, è proprio Schmitt, ovvero il massimo teorico dello stato d'eccezione a non avventurarsi in questo caso nelle strette della necessità di derogare al diritto, in quanto ritenuta irrisolvibile26. Il rapporto tra teoria della guerra giusta e stato d'eccezione è uno dei temi meno indagati e tuttavia più urgenti dell'etica applicata alla guerra: si tratta di dimostrare o che l'esigenza morale che porta all'eccezione è irrealistica o inaccettabile, o che essa possa essere ricompresa all'interno della teoria senza far implodere la logica regolativa di quest'ultima. c) L'inclusione delle forme economiche nella fattispecie della guerra. Uno dei problemi maggiori, per quanto ancora una volta scarsamente avvertito, di una teoria della guerra giusta è quello della delimitazione della fattispecie da normare: la definizione del concetto di guerra, infatti, soggiace al rischio di un riduzionismo eccessivo. Uno degli aspetti più trascurati, al riguardo, consiste nella sottovalutazione delle forme non militari dei conflitti, in particolare di quelle economiche: una lunga e preminente tradizione, infatti, identifica i concetti di guerra e azione militare. A tal riguardo, uno dei maggiori meriti di Schmitt è quello di esser stato tra i primi a denunciare il carattere bellico, sia nelle intenzioni, sia, soprattutto, negli effetti, delle forme economiche di guerra, su tutte l'embargo e il blocco commerciale27. Oltre a ciò, e in esplicito rapporto con la teoria della guerra giusta e in particolare con il principio della discriminazione degli obiettivi proprio dello jus in bello, Schmitt afferma il carattere necessariamente assoluto, ovvero non discriminante nel senso detto, delle forme economiche di guerra: esse, infatti, si fondano sull'idea che debbano essere colpiti il commercio e l'economia del nemico. In una guerra simile, “nemico” non è soltanto l'avversario che combatte, bensì qualsiasi cittadino nemico, e infine anche il neutrale che commercia e mantiene relazioni economiche con il nemico. [...] La natura stessa di questi mezzi peculiari della guerra marittima implica che siano diretti tanto contro i combattenti quanto contro i non combattenti. Un blocco degli approvvigionamenti, in particolare, colpisce indifferentemente l'intera popolazione del territorio che vi è sottoposto: militari e civili, uomini e donne, vecchi e bambini28. Anche in questo caso è necessario far propria la lezione schmittiana. In generale, la teoria della guerra giusta deve preliminarmente riflettere sulla definizione della fattispecie da normare e non fenomenologicamente assumerla come autoevidente e dunque ragionevolmente prederminata; ciò, infatti, rischia di presentare un'immagine distorta della realtà da regolare, confinandola arbitrariamente a determinati ambiti. In particolare, si tratta di includere le forme economiche di guerra nella fattispecie in questione. Questo dovrebbe indurre i teorici della guerra giusta a considerare queste ultime non già come misure alternative alla guerra, bensì come prassi in tutto equivalenti a essa, con in più una costitutiva incapacità di discriminare tra gli obiettivi dell'azione tale da compromettere seriamente ogni tentativo di giustificare il ricorso a esse. d) Il minimalismo della teoria della guerra giusta. Quanto detto nel primo punto sul fondamento fattuale del normativo potrebbe essere ridefinito come il carattere “tragico” della teoria della guerra giusta: secondo questa visione, è irrealistico pensare a una limitazione assoluta della guerra; anzi, è bene convincersi del fatto che tale limitazione, dove e come possibile, si basa comunque su un più massiccio ricorso alla violenza in altri contesti. In altre parole, non si dà mai una vera e propria limitazione della guerra, quanto semplicemente la possibilità di dislocare, scaricandola, la violenza in atto in un determinato ambito piuttosto che in un altro: la limitazione della guerra, in sostanza, è sempre un gioco a somma zero. Del resto, nello jus publicum Europaeum, ovvero nell'unica epoca in cui si è riusciti concretamente a porre dei freni alla guerra (per quanto – è opportuno ricordarlo – anche in questo caso solo intensivamente e non già estensivamente), la guerra interstatale può essere limitata solo al prezzo di un illimitato impiego della forza nelle guerre coloniali e civili (tanto che quando vengono meno queste opposizioni, il contrasto si presenta, riflessivamente, tra il concetto di umanità, da un lato, e quello di nemico inumano, dall'altro). Inoltre, anche la limitazione dello jus in bello si paga al prezzo di una totale non limitazione dei principi dello jus ad bellum. Il carattere “tragico” della teoria, dunque, consiste, nel fatto che non è possibile, per un verso, soddisfare uno dei suoi principi senza necessariamente infrangere l'altro (è il caso della mutua esclusione di jus ad bellum e jus in bello); per altro verso, raggiungere il proprio obiettivo in un contesto senza necessariamente agire in senso contrario nei rimanenti. A conferma di quanto detto, Schmitt mostra come tutte le istituzioni guidate dall'obiettivo di porre fine alla guerra, su tutte la Società delle Nazioni, abbiano finito per perpetuarla, assolutizzando il conflitto e rivelando il volto totalitario dell'ideologia a esse sottesa. Tralasciando la particolare ed estremizzata declinazione schmittiana della natura “tragica” della teoria della guerra giusta, è utile, ancora una volta, riadattare l'analisi del giurista di Plettenberg. La teoria in questione deve prender coscienza dei propri limiti, al fine di un più efficace e credibile conseguimento dei propri obiettivi, oltre che di una neutralizzazione dell'estremismo ideologico in essa sempre latente: meglio una teoria minimale ma efficace che una teoria massimamente includente ma del tutto inapplicata. Sono molti gli aspetti che si potrebbero citare al riguardo: dalla minaccia di ricorrere alla forza alla violenza psicologica, dal rovesciamento dei regimi dispotici agli interventi in zone di crisi, è necessario chiedersi se una loro inclusione rafforzi o indebolisca l'obiettivo della limitazione della violenza, senza considerare i rischi di una strumentalizzazione dei parametri della teoria che una sua scriteriata estensione comporterebbe (e comporta). Del resto, compito di ogni teoria della guerra giusta, avendo questa come oggetto un concetto antinormativo per antonomasia, quale la guerra, è non già quello di trasformare la Terra in un paradiso, quanto di evitare che divenga un inferno. Si tratta, in sostanza, di essere realisti, ancora una volta con Schmitt. Andrea Salvatore
1 Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus. Erfahrungen der Zeit 1945/47, Greven, Köln 1950, tr. it. Ex Captivitate Salus. Esperienze degli anni 1945-47, Adelphi, Milano 1987, p. 14. Quincy Wright (1890-1970) è l'autore di A Study of War (1965²), la più completa analisi del fenomeno guerra nella sua interezza, antesignana della scienza polemologica contemporanea.
2 Cfr. Hasso Hofmann, Legitimität gegen Legalität. Der Weg der politischen Philosophie Carl Schmitts, Duncker & Humblot, Berlin 1992, tr. it. Legittimità contro legalità. La filosofia politica di Carl Schmitt, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999, pp. 231-291. Gli accenni al tema della guerra giusta in altri scritti sono sempre osservazioni polemiche contro la possibilità di sottoporre a una qualche regolazione giuridico-morale lo svolgimento di una guerra; essendo quest'ultima informata esclusivamente da una contrapposizione esistenziale irriducibile, la teoria della guerra giusta non è altro che un'ideologia antistatale: cfr. Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen. Text von 1932 mit einem Vorwort und drei Corollarien, Duncker & Humblot 1963, tr. it. Il concetto di politico. Testo del 1932 con una premessa e tre corollari, in Id., Le categorie del “politico”, il Mulino, Bologna 1972, pp. 129-137.
3 Carl Schmitt, Verfassungslehre, Duncker & Humblot, Berlin 1928, tr. it. Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano 1984, p. 272.
4 Carl Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Duncker & Humblot 1974, tr. it. Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum», Adelphi, Milano 1991, p. 63.
5 Ivi, p. 25.
6 Ivi, p. 71.
7 In Terra e mare, Schmitt fa risalire a questa epoca la «prima rivoluzione spaziale planetaria», seguita, alla fine del XIX secono, dalla seconda: cfr. Land und Meer. Eine weltgeschicthliche Betrachtung, Klett-Cotta, Stuttgart 1954, tr. it. Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano 2002, rispettivamente, pp. 66-72, 106-110. Da notare che, rispetto al testo qui citato, la dialettica tra terra e mare ne Il nomos della terra configura un rapporto di equilibrio e non di opposizione: cfr. Hasso Hofmann, op. cit., pp. 260-270.
8 Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 33.
9 Ivi, p. 81.
10 Come si vede, dunque, con Hegel (di cui fa proprio, come visto, anche il procedimento dialettico, pur con decisive differenze, su cui non è possibile qui soffermarsi) e contro Kant e Kelsen, secondo Schmitt la guerra tra Stati non delinea uno stato di natura, essendo solo in apparenza una condizione di disordine: presuppone, infatti, il riconoscimento reciproco tra Stati sovrani in quanto attori esclusivi della politica internazionale (ancora una volta il tema della non coincidenza di diritto e legge).
11 Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., pp. 133-134. Non è possibile qui discutere la ricostruzione dell'evoluzione storica della teoria della guerra giusta svolta da Schmitt: cfr. al riguardo, Jean-François Kervegan, «Diritto, etica e politica. Riflessione storica sull'idea di guerra giusta», Filosofia politica, vol. 6 (1992), 2, pp. 273-293, per il passaggio dall'età medievale all'età moderna limitatamente al tema in esame, e Fabio Vander, Kant, Schmitt e la guerra preventiva, manifestolibri, Roma 2004, per una discussione della lettura schmittiana del Kant teorico della guerra giusta.
12 Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 163.
13 Si veda il nesso interno che Schmitt ricostruisce tra i concetti di guerra civile, guerra giusta e guerra illimitata: cfr. Carl Schmitt, Ex Captivitate salus, cit., pp. 57-61.
14 Afferma Schmitt al riguardo: «Io trovo che la più grande disgrazia storico-intelletuale della civilizzazione occidentale stia nello scambio tra norma e nomos» (Carl Schmitt, Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 163).
15 Sul tema, cfr. Luigi Ciaurro, «Carl Schmitt e il diritto internazionale umanitario», in Behemoth, n. 11 (1992), 2, pp. 55-58, e Hasso Hofmann, Legittimità contro legalità, cit., p. 32, nota 80.
16 Cfr. Carl Schmitt, Gesetz und Urteil. Eine Untersuchung zum Problem der Rechtspraxis, Liebmann, Berlin 1912, Beck, München 1962².
17 Cfr. Carl Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1934², tr. it. Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id. Le categorie del “politico”, il Mulino, Bologna 1972, pp. 19-86.
18 Il rapporto di Schmitt con Heidegger, sotto tale aspetto, è stato indagato da Hasso Hofmann (op. cit., pp. 270-287), il quale così sintetizza il mutamento di paradigma schmittiano in merito al ruolo della decisione: «Il momento della decisione viene rafforzato in decisione storico-universale, in scelta di una determinata “forma totale” di esistenza storica, in un progetto collettivo ed epocale di esistenza e quindi al tempo stesso modificato; infatti, la decisione storico-universale compare come un processo storico nel quale gli attori non hanno praticamente alcuna coscienza della decisione epocale» (ivi, pp. 276-277). Dunque, come nel secondo Heidegger l'originaria scelta della forma di vita autentica viene resa indisponibile alla prassi umana e rimessa all'insondabilità dell'evento, così anche in Schmitt la decisione viene rimessa a una fonte sovraindividuale di legittimità storica: in quest'ottica muta anche il concetto di ordinamento concreto, non più riferito al carattere sostantivo-essenziale di un popolo, ma alla struttura fondamentale di un'epoca.
19 Cfr. Carl Schmitt, Theorie des Partisanen. Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen, Duncker & Humblot, Berlin 1963, tr. it. Teoria del partigiano. Integrazione al concetto di politico, Adelphi, Milano 2005.
20 Cfr. Alessandro Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, il Mulino, Bologna 2006, pp. 169-274, in cui viene delineata la parabola storica dello jus publicum Europaeum sulla base dei fattori politici, sociali e culturali a fondamento del medesimo.
21 Nalla prefazione del 1963 alla nuova edizione de Il concetto di “politico”, tale mutamento viene ricondotto da Schmitt a una più sfumata distinzione di grado: «La ristampa del testo del 1932 doveva essere presentata senza modifiche e con tutte le sue carenze, come documento. La carenza principale consiste nel fatto che i diversi tipi di nemico – convenzionale, reale o assoluto – non sono separati e distinti fra loro in modo abbastanza chiaro e preciso» (Carl Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., pp. 98-99).
22 Cfr. Carl Schmitt, Politische Theologie. Die Legende von der Erledigung jeder Politischen Theologie, Duncker & Humblot, Berlin, tr. it. Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Giuffré, Milano 1992.
23 Al riguardo, cfr. Andrea Salvatore, «Michael Walzer e il presunto trionfo della teoria della guerra giusta», Behemoth, n. 39 (2006), 1, pp. 13-22.
24 Cfr. Michael Walzer, Just and Unjust Wars: A Moral Argument with Historical Illustrations, Basic Books, New York 1977, tr. it. Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli 1990, pp. 295-371.
25 Al riguardo, cfr. Andrea Salvatore, «La teoria della guerra giusta di Michael Walzer», Fenomenologia e società,
26 La spiegazione di questa scelta potrebbe esser vista nel fatto che, mentre nello stato di eccezione interno a uno Stato spazio regolato dal diritto e spazio d'intervento del sovrano coincidono, sancendo la legittimità della sospensione del diritto, nel caso di una normazione interstatale, quale il diritto di guerra, non essendoci un terzo sopra le parti, tale identità viene meno, delegittimandosi in tal modo quella che si presenterebbe come un'unilaterale e perciò illegittima sospensione del diritto, oltre che come la trasposizione della guerra civile a livello interstatale.
27 Cfr. Carl Schmitt, Terra e mare, cit., pp. 88-92, e Id., Il concetto di “politico”, cit., pp. 155-165, 193-203.
28 Carl Schmitt, Terra e mare, cit., p. 90.
Pubblicazione del: 03-03-2009
nella Categoria Filosofia Politica e del Diritto
« Precedente
Elenco
Successiva »
Titolo Precedente: DIRITTO DIVINO PROVVIDENZIALE...-T.Klitsche de la Grange-Vol.41-
Titolo Successivo: DISCORSO SULL’INIZIO DEGLI ANNALI DI TACITO-Thomas Hobbes-Vol.31-