L’ITALIA: UNA SOCIETÀ SENZA STATO?-SABINO CASSESE-(T.KLITSCHE DE LA GRANGE)-Vol.-51-
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Sabino Cassese,
L’Italia: una società senza Stato?
Il Mulino 2011 (www.mulino.it), pp. 110, € 10,00.
C’è una (sterminata) letteratura sullo Stato italiano, sulla sua debolezza, e la/e sua/e crisi; ad essa hanno partecipato storici, giuristi, politologi, politici, letterati. L’autore mette le mani avanti “l’intento di questo scritto non è quello di sviluppare un’analisi critica della letteratura, ma di esaminare direttamente la realtà dello Stato italiano, nel suo percorso storico, per indagarne non tanto la natura quanto la forza, e, nello stesso tempo, i fattori della sua debole complessione”. Lo scritto è diviso in due capitoli. Il primo è dedicato alla fase iniziale dello Stato (1861-1864). Il secondo “prende in considerazione i tratti caratteristici che accompagnano la storia dello Stato italiano nei centocinquant’anni della sua vita. É dedicato a quegli elementi costanti che, al di là delle cesure, si riscontrano lungo tutto il percorso della vita statale italiana, esaminando i segni o indici di forza o debolezza e le loro cause, nonché le reazioni che hanno provocato”. La conclusione dell’autore è la risposta all’interrogativo, che già si poneva – in diverso contesto – circa quarant’anni fa Ernst Forsthoff “in che modo ha influito questo tipo di formazione dello Stato sul livello di statalità proprio del Regno – poi della Repubblica – italiano? Abbiamo avuto, in Italia, troppo Stato – come alcuni lamentano – o, al contrario, troppo poco Stato – come l’immagine dello Stato debole suggerisce?”
Cassese sostiene che il “tipo di sviluppo statale italiano è stato, in primo luogo, caratterizzato dal permanere delle preesistenze”. In particolare è stato caratterizzato da tre caratteristiche “la prima è l’accumularsi degli strati diversi, che in Italia è stato superiore di quello di altri Paesi. La seconda è la scarsa cura nel rendere omogenei, coordinare, dare coerenza agli elementi disparati provenienti da epoche e regimi diversi. La terza è il ritorno di alcuni tratti originari, che riaffiorano ripetutamente”. Per cui abbiamo avuto uno Stato apparentemente forte, ma in effetti debole (anche perché connotato da estese contraddizioni).
La tesi di Cassese è interessante e confortata dall’avvalersi dell’analisi della legislazione (come dei comportamenti amministrativi); tuttavia la causa della “debolezza” della costruzione unitaria (che spesso non è poi tanto debole) appare rapportabile a cause politiche – e “politologiche” – di cui quelle giuridiche sono la “spia” (e la conseguenza). Ad esempio la mancata “comunicazione” tra società e Stato, su cui l’autore insiste, ricordando il suffragio censitario (e limitato) in vigore fino al 1912; o lo Statuto albertino, octroyé: ambedue comportano un deficit d’integrazione. In Italia aggravata dal fatto – tutto politico – del modo di unificazione, avvenuto con l’opposizione della Chiesa cattolica e la vittoria dello Stato nel brigantaggio, cioè nella guerra civile. Non è un buon inizio, né un favorevole viatico per l’integrazione quello di aprire il percorso unitario (d’unità politica) col (sintomo) massimo di divisione/contrapposizione politica, cioè la guerra civile. Peraltro occultata e minimizzata anche da gran parte della cultura “ufficiale”. Per cui al riguardo appare sempre attuale la tesi di Guglielmo Ferrero (1942) che lo Stato italiano era un caso di quasi-legittimità, cioè di una legittimità incompleta, parziale, claudicante. La cui caratteristica, scriveva Ferrero citando Metternich, era di fondarsi sulla “menzogna”. Cioè di costruire la propria legittimità su enunciazioni e narrazioni agiografiche, poco realistiche e quindi poco credibili; agiografia cui la legislazione contribuisce non meno dell’istruzione pubblica o della propaganda politica. Ad esempio possiamo citare la formula di proclamazione del re “per grazia di Dio e volontà della nazione”. Ma nel 1861 coloro che, per ragioni religiose, credevano alla monarchia per grazia di Dio, e cioè i cattolici, erano all’opposizione del nuovo Stato, e gli altri, che dovevano esprimere la volontà della nazione, nella stragrande maggioranza non erano interpellati (perché non votavano) e l’unica volta che erano stati consultati, era stato con plebisciti “gattopardeschi”. Per cui coerentemente, votavano con gli schioppi, alimentando la guerra civile, convinti della legittimità della monarchia borbonica. E anche dopo lo scritto di Ferrero citato, la situazione è sempre stata connotata da una legittimità claudicante. La Costituzione repubblicana – come gran parte delle costituzioni europee ad esse contemporanee – era frutto della Dichiarazione sull’Europa liberata dettata a Yalta, per cui gli Stati dell’Asse (e i satelliti dell’Asse) liberati avrebbero dovuto darsi costituzioni democratiche, antifasciste, e così via. Mentre la dottrina ufficiale racconta che è conseguenza della Resistenza e del potere costituente del popolo italiano. Il che è vero a metà: a fare l’altra metà (almeno) furono le armate angloamericane e l’iniziativa costituente di Yalta. Per cui se non sulla menzogna, lo Stato italiano si fonda da un secolo e mezzo su mezze verità (al massimo): ed è questa la “costante” che più pesa.
Teodoro Klitsche de la Grange
Pubblicazione del: 25-07-2012
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