L’INFLUENZA DI PASQUALE STANISLAO MANCINI-MARCO MANGIABENE-Vol.51-
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L’influenza di Pasquale Stanislao Mancini
I Introduzione:
Il contributo più rilevante e originale di Pasquale Stanislao Mancini alla filosofia politico-giuridica del Risorgimento italiano è la dottrina della nazionalità nella quale si compongono sia il pensiero politico, che ha orientato l’azione rivoluzionaria volta al conseguimento dell’unità e dell’indipendenza nazionale, sia la riflessione giuridico-politica che ha anticipato prima e accompagnato poi l’edificazione dello stato unitario, alla quale Mancini dedicò la sua esistenza. Il principio di nazionalità ha ispirato non soltanto il Risorgimento italiano, ma anche la nascita – nel diciannovesimo secolo – di nuovi stati unitari in Europa nella quale l’imperialismo napoleonico aveva diffuso l’idea di nazione che poi gli si rivolterà contro. A tale riguardo, Federico Chabod - nel saggio su ha giustamente sostenuto che quell’idea è stata particolarmente cara ai popoli non ancora politicamente uniti e, quindi, soprattutto in Italia e in Germania essa ha avuto assertori entusiasti e continui. Infatti, nella prima metà dell’ottocento, l’Italia e la Germania sono state le terre classiche del principio di nazionalità 1L’elaborazione di quel principio è stata preceduta – nella filosofia politica del diciottesimo secolo – da una particolare attenzione nei riguardi del concetto di nazione e dei propri elementi costitutivi: la lingua, il carattere, la volontà, il genio, la tradizione, la religione, i costumi, tutti aspetti, questi, che richiamano le idee di Shaftesbury, Bolingbroke, Burke, Vico, Zimmerman, Montesquieu, Rousseau, Moser e Herder le quali hanno sicuramente influito – seppur indirettamente - nella formazione del pensiero di Mancini. II Il principio di nazionalità prima di Mancini: Nicolò Machiavelli, Thomas Hobbes e Jean BodinPrima di Mancini, il riferimento alla nazionalità non ha avuto particolare rilievo negli scrittori politici che hanno analizzato gli elementi costitutivi dello stato. A tale riguardo, è il caso di ricordare Nicolò Machiavelli, Thomas Hobbes e Jean Bodin. Nicolò Machiavelli – che distingue tra stato e provincia , con un’accezione di questa più prossima a quella odierna di nazione -, benché affermi che lo stato è più forte quando i sudditi sono della medesima provincia e della medesima lingua, non ritiene che la nazionalità sia un elemento indispensabile2.
Thomas Hobbes sostiene che elemento necessario di coesione non sia la nazionalità quanto piuttosto la cittadinanza comune3.
Jean Bodin mette in rilievo la sovranità e non considera invece la nazionalità come elemento necessario dello stato4.
E’ solo con l’elaborazione teorica manciniana che il principio di nazionalità assurge a principio di legittimità dello stato moderno. L’espressione compiuta di questa concezione è contenuta nello prolusione Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti tenuta il 22 gennaio 1851 alla Regia Università di Torino5.
E’ il caso di ricordare che in quella città Mancini si era rifugiato con l’aiuto dell’ambasciatore francese dopo avere abbandonato Napoli in seguito ai moti rivoluzionari del maggio del 1848 ai quali aveva partecipato e dei quali - come avvocato - aveva difeso gli organizzatori Carlo Poerio, Giuseppe Massari e Pier Silvestro Leopardi, vedendo mutare processualmente la propria posizione da quella di difensore in quella di complice. Ebbene, con atto legislativo del 14 novembre 1850 – appositamente per lui – fu istituita la cattedra di Diritto Pubblico Esterno ed Internazionale Privato e nella prolusione espose la propria dottrina della nazionalità.
III La dottrina della nazionalità nel pensiero di Pasquale Stanislao Mancini
Mancini definisce la nazionalità come “ una società naturale di uomini da unità di territorio, di origine, di costumi e di lingua conformati a comunanza di vita e di coscienza sociale”6. In questa
definizione, oltre agli elementi geografico, razziale e linguistico – che non bastano a costituire compiutamente una nazione – egli mette in
rilievo la coscienza della nazionalità intesa come lo spirito vitale, il divino compimento dell’essere di una nazione senza il quale gli altri elementi sono una materia inerte. Questa componente spirituale gli consente di acquisire il sentimento di sé stessa, di “costituirsi al di dentro e di manifestarsi all’esterno”. A tale riguardo, egli scrive: “ moltiplicate quanto volete i punti di contatto materiale ed esteriore in mezzo ad un’aggregazione di uomini; questi non formeranno mai una nazione senza la unità morale di un pensiero comune, di una idea predominante che fa una società quel ch’essa è, perché in essa viene realizzata. L’invisibile possanza di siffatto principio di unione è come la face di Prometeo che sveglia a vita propria e indipendente l’argilla, onde crearsi un popolo: essa è il Penso, dunque esisto dei filosofi applicato alla nazionalità. Finché questa sorgente di vita e di forze non inonda e compenetra della sua prodigiosa virtù tutta la massa informe degli altri elementi, la loro multipla varietà manca di unità, le attive potenze non hanno un centro di moto e si consumano in disordinati e sterili sforzi; esiste bensì un corpo inanimato, ma incapace ancora di funzionare come una Personalità nazionale e di sottostare a’ rapporti morali e psicologici di ogni distinta organizzazione sociale”7. Nella valorizzazione dell’elemento spirituale animatore della nazionalità – proprio del romanticismo e dei suoi prodromi - , la concezione manciniana risente molto del processo di formazione dell’idea di nazione dei primi anni dell’ottocento caratterizzato dall’accentuazione nel concetto di popolo – dominante nella filosofia politica del diciottesimo secolo – dell’importanza dei fattori naturali e tradizionali a scapito di quelli volontari. A tale riguardo non può essere taciuto il riferimento a Montesquieu il quale mette in luce le cause naturali e tradizionali – il clima, la religione e la tradizione – che contribuiscono a formare lo spirito generale della nazione e a Rousseau il quale – legato al concetto di stato-città dell’antica Grecia e critico dell’universalismo settecentesco – afferma ed esalta il valore dello stato nazionale, enfatizzando il ruolo dell’educazione per infondere negli animi la forza nazionale8. La tradizione come elemento dell’identità di una nazione riecheggia anche il pensiero di Fichte che – ponendo le basi del nazionalismo tedesco – considera il linguaggio come l’espressione
dell’unità spirituale della nazione9. Richiama anche Herder il quale, prima di lui, - enfatizzando il carattere di unità prevalentemente
culturale e politica della nazione - evidenzia la forza spirituale e unificante della lingua la quale esprime pienamente l’identità culturale di un popolo che assurge a nazione10. L’influsso dell’idealismo hegeliano, il quale con la nozione di spirito del popolo come incarnazione e manifestazione di Dio nel mondo – che si appalesa nella religione, nella scienza, nell’arte, nei destini e negli eventi – porta a compiuta elaborazione il concetto di nazione, è indubbiamente presente nella definizione manciniana di nazionalità11. Ma è soprattutto Romagnosi – che concepisce la nazione come l’espressione di una realtà naturale, storica e spirituale, formulando, su questa base, la teoria di uno stato nazionale – l’autore nei riguardi del quale Mancini è maggiormente debitore12. Il presupposto filosofico della concezione di Romagnosi – ripresa poi da Mancini – che considera appunto la nazione nella propria essenza naturale, storica e spirituale, è la filosofia storicistica di Giambattista Vico – anticipatrice del romanticismo – la quale vede nella nazione medesima una realizzazione dell’uomo che attua e dispiega nella storia la propria umanità. A tale riguardo, nell’introduzione al quarto libro dei Principii di Scienza Nuova - nella quale medita la comune natura delle nazioni – Vico scrive: “ ... tutte mettono capo in una unità generale, ch’è l’unità della religione d’una divinità provvidente, la quale è l’unità dello spirito che informa e dà vita a questo mondo di nazioni” 13. La divina provvidenza è ordinatrice delle nazioni e di tutto il diritto naturale delle genti. Egli riconosce i fattori costitutivi della nazione nei fatti, nelle leggi e negli istituti che rendono possibile la convivenza e la coesione sociale ( “ propri nomi, proprie lingue, proprie armi, proprie religioni, propri magistrati, proprie leggi”) e pone l’essenza della medesima nel pensiero, nell’idea, quasi riflesso dell’idea divina e nel suo perpetuo esplicarsi e involversi nei corsi e ricorsi della storia14. Nella filosofia storicistica vichiana affonda, quindi, le radici la concezione spiritualistica della nazione che ispirò anche Vittorio Alfieri, Vincenzo Cuoco, Giuseppe Mazzini, Vincenzo Gioberti, Carlo Cattaneo e che pervase l’azione politica
rivoluzionaria del Risorgimento15. Con Giambattista Vico – infatti - il principio di nazionalità riveste i caratteri e l’essenza di una vera dottrina, di una linea generale e costante che guida i popoli ad un’alta vita sociale internazionale.
IV La nazionalità e lo stato
Per Mancini la nazionalità – intesa vichianamente in senso spiritualistico - è antecedente rispetto allo stato ed è l’unità elementare del diritto delle genti. Essa è il solo titolo sostanziale che fa sorgere il diritto di formare gli stati e – come ho già detto - fonda la legittimità dello stato medesimo. La nazione e non lo stato è dotata di soggettività di diritto internazionale. A tale riguardo, egli scrive: “ l’idea madre della scienza non è lo stato, ma la nazionalità ... la nazionalità, che liberamente si costituisce all’interno ed è in possesso della sua piena autonomia ne’ rapporti esterni, non si differenzia dallo stato raffigurato nel concetto hegeliano, ed allora ( a parte la questione di ortodossia filosofica ), la scelta tra i due punti di partenza si risolve in una semplice quistione di precedenza logica”16.
Il principio di nazionalità - in questa accezione – è essenzialmente giusnaturalistico perché “si fonda sul fatto naturale della partizione dell’umanità in nazionalità distinte per caratteri assai più certi e durevoli degl’instabili arbitrii delle combinazioni diplomatiche”. E’ di matrice cristiana perché è contrario all’idea pagana della “onnipresenza dello stato artificiale e fattizio”. A tale proposito, egli scrive: “ Poco ad essi cale dell’origine de’ governi: siano questi creazione brutale della forza, costringano pure distinte nazionalità a profano connubio; è tutt’uno. Giusto è per essi soltanto ciò che si vuole in alto, o tra le autorità reggitrici degli stati si consente; nel sistema delle loro idee i popoli non possono volere né sono capaci di diritto; sono servo gregge, materia da contrattare o da cedere come il campo o il giumento. E’ per combattere appunto le tendenze di costoro che importa sommamente alla scienza far capo dalla idea di nazionalità come dal suo primo rudimento; se non voglia nelle sue deduzioni trovarsi costretta ad accettare conseguenze spaventevoli e lontane dal vero e dal giusto, ovvero di contentarsi di riuscire accomodato a que’ soli stati che meritano questo nome perché rappresentano daddovero una Personalità
Nazionale. Riforma feconda di salutari eventi sarà già questa di trasportare il fondamento e le origini della scienza, dall’apice della piramide sociale alla base, dal governo costituito al popolo governato,
dallo stato alla nazionalità”17. In questa prospettiva, il diritto di nazionalità è una manifestazione della stessa libertà dell’individuo
estesa – come scrive Mancini – al “ comune sviluppamento dell’aggregato organico degli individui che formano le nazioni”; la nazionalità
non è altro che l’esplicazione collettiva della libertà, e però è “santa e divina cosa quanto la stessa libertà”18. Il suo limite è costituito dall’eguale diritto delle altre nazioni in un quadro di rapporti internazionali caratterizzati da un progressivo e armonico sviluppo della grande famiglia umana. Il fatto della nazionalità è generatore spontaneo e necessario di rapporti giuridici che non traggono origine dall’artificio di alcun patto politico e che si manifestano sia nella libera costituzione interna – fisica e morale – della nazione sia nell’indipendente autonomia della medesima verso le nazioni straniere. L’unione di queste due manifestazioni dà luogo allo stato naturalmente perfetto, all’etnicarchia di Romagnosi – una filosofia della dominazione nazionale -.
Ho già evidenziato il fondamento giusnaturalistico del principio di nazionalità nell’elaborazione manciniana. E’ il caso di chiarire che si tratta di un giusnaturalismo razionalistico a sfondo metafisico poco incline verso le posizioni dell’ illuminismo lombardo dei fratelli Verri e di Beccaria. Infatti, nella sua concezione - prettamente monistica -, la varietà delle nazioni conduce all’unità del globo laddove Dio è l’universale, l’aggregante, il cosmopolita, il legame divino e razionale tra le genti. Il suo esito è il pacifismo e la pace – kantianamente intesa – è lo stato naturale, legittimo e perfetto. Il fine ultimo del diritto internazionale diventa, così, l’umanità delle nazioni di Giambattista Vico, “cioè la celebrazione dell’umanità e del suo progresso civile nel libero, armonico, compiuto sviluppamento delle nazionalità”19.
V I limiti della concezione di Mancini e le contraddizioni con la sua azione politica. Conclusioni
Seppur fugacemente – in questa sede –, si devono evidenziare alcuni aspetti di superficialità dell’elaborazione teorica di Mancini e un profilo contraddittorio della sua azione politica rispetto alle idee e alle teorie professate dalla cattedra universitaria.
In primo luogo, si deve notare che, sebbene la dottrina manciniana della nazionalità sia stata fortemente influenzata dal pensiero di vichiano, il diritto delle genti - per Vico - non coincide con il diritto
internazionale come, invece, ritiene Mancini. Esso è il “diritto natural delle genti che procede con somma egualità e costanza per le tre età che gli egizi ci lasciarono detto aver camminato per tutto il tempo del mondo corso loro dinanzi, cioè: l’età degli déi, nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e con gli oracoli, che sono le più vecchie cose della storia profana; - l’età degli eroi, nella quale dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi ripetuta differenza di superior natura a quella de’ lor plebei; - e, finalmente, l’età degli uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana, è perciò vi si celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le monarchie, le quali entrambe sono forme di governi umani, come poco sopra si è detto”.20 Per Vico, quindi, il diritto delle genti è il diritto universale ed eterno che attraversa il tempo della storia e corre in esso, è contemporaneamente formazione ideale e storica e non è individuato nel tempo come lo è, invece, il diritto internazionale.
In secondo luogo, Mancini, astrattamente, considera quello di nazionalità come un principio costituzionale ideale sovranazionale – perché sovraordinato al diritto positivo degli stati – fino a ritenere che (esso) possa sancirne l’illegittimità se lesivo dei diritti delle nazionalità oppresse. Orbene, a mio modo di vedere, è il caso di chiarire che la nazionalità – la quale ha fondamento nel diritto naturale delle genti – costituisce, indubbiamente, l’unico titolo sostanziale per la formazione dello stato ma, a questo scopo, è necessario che la nazione si organizzi e crei un ordinamento statale per esercitare la sovranità al suo interno. In mancanza di questa condizione, la nazione non accede all’ordinamento internazionale e non ne diventa membro legittimo. A tale riguardo, è il caso di mettere in rilievo che Vico – più chiaramente di Mancini - scrive: “ In cotal guisa il diritto naturale delle genti, ch’ora tra i popoli e le nazioni vien celebrato, sul nascere delle repubbliche nacque proprio dalle civili sovrane potestà. Talché popolo o nazione, che non ha dentro una potestà sovrana civile fornita di tutte l’anzidette propietà, egli propiamente popolo o nazione non è, né può esercitar fuori contr’altri popoli o nazioni il diritto natural delle genti; ma come la ragione, così l’esercizio ne avrà altro popolo o nazione superiore”.21
In terzo luogo, - come ho detto - non si può non rilevare un profilo contraddittorio tra l’elaborazione teorica e la prassi seguita da Mancini soprattutto come ministro degli esteri nel secondo governo
Depretis ( 1881-1885). Per Mancini, la negazione dello stato come soggetto di diritto internazionale determina la mancanza di valore giuridico dei trattati internazionali – che sono fonti di obbligazioni
tra le genti e le società civili -, ma “non possono distruggere e abolire i diritti inalienabili ed essenziali della nazionalità, né quelli della morale e della giustizia universale; e, quindi, audace ribellione delle leggi della natura e della provvidenza, atti senza giuridico valore, si mostrano quelli, con cui si pretendessero tagliare a brani una nazione, altre accoppiare in mostruosi connubii, e spartir tra loro i più nobili e gloriosi popoli di Europa, come si divide un armento; opera impotente ed incapace di stabilire durata, perché la coscienza dei popoli ed un soffio di Dio vengono presto a distruggerla.22 Ebbene, se per la “questione romana” – per la quale si espresse contro una soluzione diplomatica - e per la politica ecclesiastica le sue posizioni furono certamente sempre coerenti con la dottrina del principio di nazionalità, in altri campi della politica estera si appalesarono notevoli contraddizioni. Nel 1882 – come ministro degli esteri - egli stipulò il trattato della Triplice Alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria, chiaramente in contrasto con l’idealità democratica, nazionale e risorgimentale perché - soprattutto nell’alleanza con l’Austria-Ungheria – esso comportava la rinuncia alle rivendicazioni irredentistiche riguardanti il Trentino e la Venezia Giulia. Sempre nel 1882, con l’acquisto della baia di Assab sul Mar Rosso e nel 1885 con l’occupazione di Massaua, il ministro Mancini – teorico del principio di nazionalità – iniziò la politica coloniale italiana, ma, nello stesso anno, fu costretto a dimettersi dall’incarico perché non ottenne alla Camera la fiducia sulle sue linee di politica estera.
In conclusione, con la propria originale elaborazione del principio di nazionalità – che, come ho detto, richiama la filosofia politica del diciottesimo secolo – Mancini influì notevolmente nella formazione dello spirito rivoluzionario risorgimentale, ma, come ministro degli esteri, la sua azione fu contraddittoria con le idee e le dottrine professate dalla cattedra universitaria.
Marco Mangiabene
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Il testo è la rielaborazione della relazione al Convegno internazionale Per una filosofia del Risorgimento che si è svolto a Roma e a Tolfa nei giorni 8 e 9 aprile del 2011.
1 CHABOD F.,L’idea di nazione, Roma-Bari 1961
2 MACHIAVELLI N., Il Principe, in I classici del pensiero italiano, Milano-Roma 2006, vol. I, cap.III, p. 6 ss.
3 HOBBES T., Leviathan, trad. it. Leviatano, Firenze 1976 p. 180-204.
4 BODIN J., Les six Livres de la Republique , trad.it. I sei libri dello stato, Torino 1964, vol. I, p. 345 ss.
5 Quella dottrina è esposta anche nella prolusione torinese dell’anno successivo sui Lineamenti del vecchio e del nuovo diritto delle genti e in quella romana su La vita de’ popoli nell’umanità del 1872.
6 MANCINI P.S., Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti, in Saggi sulla nazionalità, Roma 1944, p.39
7 Op. cit., p. 37
8 MONTESQUIEU, Esprit de Lois, trad.it. Lo Spirito delle Leggi , Torino 1952, vol. I, p. 489 ss.; ROUSSEAU J.J., Considerations sur le gouvernement de Pologne, trad.it. Considerazioni sul governo della Polonia , Torino 1970, p.1125
ss.
9 FICHTE J.G., Reden an die Deutsche Nation, trad.it. Discorsi alla nazione tedesca, Roma-Bari 2005
10 HERDER J.G., Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, trad. it. Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Bologna 1971
11 HEGEL G.W.F., Grundlinien der Philosophie des Rechts, trad.it. Lineamenti di Filosofia del Diritto, Milano 1998, p. 417 ss.
12 ROMAGNOSI G.D., Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa o la scienza delle costituzioni, in Opere , Roma 1861, vol.VIII, p.47 ss.
13 VICO G., Principii di Scienza Nuova, IV, p. 567 in I classici del pensiero italiano, vol. VII, Roma-Milano 2006 , p. 165
14 Op.cit., II, p. 451 s.
15 ALFIERI V., Bruto II, “Al popolo italiano futuro” , Firenze 1959; CUOCO V., Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Napoli 1801; MAZZINI G., Fede e avvenire, in GALASSO G. ( a cura di) Antologia degli scritti politici di G. Mazzini, Bologna 1961; GIOBERTI V., Primato morale e civile degli italiani , Torino 1925, vol. I; CATTANEO C., Delle dottrine di Romagnosi, p.9-24; in I classici del pensiero italiano, Roma-Milano 2006, p. 9-24; CATTANEO C., Su la scienza nuova di Vico, op.cit., p. 39-70.
16 MANCINI P.S. op. cit., p.46 ss.
17 Op. cit., p.47 ss.
18 Op. cit., p. 39 ss.
19 Op.cit., p. 60
20 VICO G., Principii , cit., p. 186
21 Op. cit., p. 454
22 MANCINI P.S., Lineamenti del vecchio e del nuovo diritto delle genti, in Saggi sulla nazionalità , Roma 1944, p. 75 ss.
Pubblicazione del: 05-11-2012
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