LIMITE-SERGE LATOUCHE (Biagio di Iasio)-Vol.52-SUPPLEMENTO
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Serge Latouche,
Limite
Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 113, Euro 7
Nel suo recente lavoro, Limite, Serge Latouche riprende e sviluppa alcuni temi presenti in altri suoi lavori, tra i quali ricordiamo: La megamacchina ( 1995), Breve trattato sulla decrescita serena (2008), L’invenzione dell’economia (2010), studi che mettono in crisi l’economia classica che, per evidenti ragioni storiche e oggettive, non si era posto il problema della crescita esponenziale della popolazione mondiale. Crescita che ha richiesto la produzione di una tale quantità di beni da mettere in crisi le riserve naturali a disposizione dell’uomo. L’economia classica non si misurava con il fattore tempo, considerava la natura pressoché inesauribile, aveva fiducia nelle capacità tecnoscientifiche dell’uomo per produrre una quantità di beni sufficiente per tutti. Non si era nemmeno posto il problema dell’inquinamento della biosfera, prodotto dall’ eccessiva attività industriale; dello smaltimento dei rifiuti e l’esaurirsi certo delle risorse. In sostanza, preferiva sfumare sull’idea di una differenza sostanziale, in milioni di anni, tra i tempi storici di consumo energetico e i tempi biologici di rigenerazione dell’energia consumata. Il vizio di fondo della teoria economica tradizionale si rivela nella sua assoluta indifferenza alle leggi fondamentali della biologia, della chimica, della fisica e in particolar modo al secondo principio della termodinamica: «ignora, dunque, l’entropia, ossia la non reversibilità delle trasformazioni dell’energia e della materia. […] lo straordinario processo di rigenerazione spontanea della biosfera, per quanto assistito dall’uomo, non può andare a un ritmo forsennato: E comunque non permette di ricostituire in misura identica la totalità di quello che viene degradato dall’attività industriale. Non soltanto i processi di trasformazione dell’energia non sono reversibili (seconda legge della termodinamica), ma lo stesso vale praticamente per la materia: a differenza dell’energia, questa è riciclabile ma mai integralmente» (pp. 51-52). L’uomo, per il suo sapere scientifico e il suo agire tecnologico, mette in crisi i normali cicli della natura, ciò che è stato prodotto dalla natura in miliardi di anni viene dilapidato in pochissimo tempo dall’attività umana. La produzione di beni di consumo senza limiti porta anche a un’altrettanta produzione di rifiuti, che lasceremo a chi ci seguirà. Se noi finora siamo vissuti per merito di quelli che ci hanno preceduto, che ci hanno lasciato una natura coperta di foreste e di ricca flora, abitata da una straordinaria fauna e dotata di immense risorse idriche ed energetiche, non sarà la stessa cosa per chi ci seguirà. Già ora si calcola in più diecine la perdita giornaliera di specie vegetali e animali: «Secondo la Fao, nell’arco di un secolo si sono perduti circa i tre quarti della diversità genetica delle colture agricole» (p.62). Stiamo assistendo impotenti, per nostra colpa, allo svuotamento del “vivente” del nostro pianeta, che certamente, fra breve, toccherà l’uomo stesso determinando la sua scomparsa. Per la crescita della popolazione, gli spazi produttivi del nostro pianeta saranno insufficienti, l’inquinamento si porterà a livelli non compatibili con la vita: occorreranno più pianeti per assicurare a tutti un’esistenza secondo i parametri dettati dallo sviluppo occidentale.
«È mai possibile - si chiede Latouche mutuando da Norberto Bobbio - credere veramente che una crescita infinita sia realizzabile in un mondo finito? […] Il delirio quantitativo ha fatto improvvisamente precipitare la situazione nella direzione del teorema dell’alga verde» (p. 57).
E Latouche racconta : «Un giorno, una piccola alga verde si installa in un grandissimo stagno. Anche se la sua diffusione annua è rapida, di una diffusione geometrica con fattore 2, nessuno se ne preoccupa finché non ha colonizzato la metà della superficie, creando a quel punto una minaccia di eutrofizzazione, cioè di asfissia della vita subacquea. Perché anche se per arrivare a quel punto ci sono voluti decenni, basterà un solo anno per provocare la morte irrimediabile della vita lacustre» (pp. 57-58). Siamo appunto al momento in cui l’alga ha colonizzato la metà del lago, c’è ancora quel tempo necessario per mettere un freno allo sviluppo illimitato; per ridurre il Pil, come del resto sta avvenendo dal 2008 per motivi, però, diversi da quelli suggeriti da una ecologica e programmata decrescita; per limitare le attività industriali più distruttive; per attuare una economia politica ispirata ai veri bisogni dell’uomo e non ai suoi desideri infiniti indotti da una pubblicità e da un liberismo economico spietati che l’hanno trasformato in «turboconsumatore».
È ora, riflette Latouche, di pensare il limite come categoria etica ispirata alla conservazione della natura e alla sopravvivenza dell’uomo. Il suo superamento non è più un fattore di progresso, come nel passato, ma di accelerazione di un disastro annunciato. Il limite deve poter indicare un’assunzione di responsabilità, una presa di coscienza della necessità indilazionabile di porre un freno alla frenesia umana di dominare il mondo. Perché, in fondo, quand’anche costruissimo macchine sempre più potenti o calcolatori inimmaginabili oggi, non potranno mai darci la soluzione per superare il secondo principio della termodinamica: non saranno, cioè, capaci di ricreare il mondo dal nulla, come, per i fedeli, fece il vero Dio.
Il lavoro di Latouche, pur con accenti, a volte, apocalittici, ha il pregio della chiarezza e del rigore scientifico, ha la capacità di suscitare nel lettore le domande sul futuro dell’uomo. E porsi le domande, in un mondo scientificamente colonizzato dall’immagi-nario collettivo non è operazione semplice, richiede senza dubbio un uomo diverso: non quello creato dai tecnocrati o, peggio ancora, immaginato dai biologi che vogliono prendere nelle loro mani l’evoluzione dell’uomo, per adeguarla ai cambiamenti di un mondo devastato, credendo di avervi trovato la soluzione. Occorre, tout court, un uomo che sappia accettare i suoi limiti, il senso della misura come fecero i Greci, che non rifiuti la condizione umana. All’immortalità e all’eterna giovinezza promesse dalla dea Calipso, Ulisse preferì la condizione umana. Scelse il ritorno nella sua terra, insieme alla morte. Solo così fu possibile il suo ritorno in patria. È da augurarsi che tutti gli uomini possano, in un futuro che si annuncia molto incerto, continuare a vivere nella loro patria, che è il mondo.
Biagio di Iasio
Pubblicazione del: 16-01-2013
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