La Colomba ed il Serpente-Massimo Maraviglia-Vol.41-   Stampa questo documento dal titolo: . Stampa

Caro professore,

La colomba e il serpente

La politica tra martirio e tecnica

Chi è il martire

Secondo Origene “chiunque rende testimonianza alla verità, sia a parole, sia con i fatti o adoperandosi in qualsiasi modo a favore di essa, si può chiamare a buon diritto ‘testimone’. Ma il nome di ‘testimoni’ (μάρτυρες= mártyres) in senso proprio, la comunità dei fratelli, colpiti dalla forza d’animo di coloro che lottarono per la verità, ha preso la consuetudine di riservarlo a quelli che hanno reso testimonianza al mistero della vera religione con l’effusione del sangue”1. Qui vediamo condensate già le due dimensioni peculiari del martirio: la pena e la causa, la sofferenza del soggetto e il motivo del suo soffrire. Sebbene infatti Agostino proclami la sua definizione, divenuta ormai classica, “martyres non facit poena sed causa”2, ad indicare che non chiunque soffra per qualcosa può essere indicato con il termine di martire, ma chiunque soffra a motivo della fede in Gesù Cristo, rimane elemento consolidato che la testimonianza martiriale non c’è se non vi è contemporaneamente effusione di sangue.

A ciò peraltro allude la distinzione tra confessori e martiri: “I confessori – detto molto semplicemente – sono coloro che soffrono per Cristo senza morire”3. "Tutti sono testimoni del Signore, anche se subiscono persecuzioni, il titolo di martire, però, viene conferito solo a chi dona la vita”4 probabilmente a partire dal martirio del vescovo Policarpo di Smirne (69-155), che diviene esempio noto e paradigmatico in tutta la Chiesa sullo stile peculiarmente cristiano di affrontare l’intolleranza sanguinaria delle autorità imperiali. Si può comprendere così la definizione manualistica: “[il martirio è] sopportazione volontaria della condanna a morte, inflitta per odio contro la fede o la legge divina, che viene fermamente e pazientemente sopportata e che permette l’immediato ingresso nella beatitudine”5.

Tale definizione viene adeguatamente aggiornata nel Catechismo della chiesa cattolica che sul nostro argomento così si esprime: “Il martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede; il martire è un testimone che arriva fino alla morte. Egli rende testimonianza a Cristo, morto e risorto, al quale è unito dalla carità. Rende testimonianza alla verità della fede e della dottrina cristiana. Affronta la morte con un atto di fortezza. ‘Lasciate che diventi pasto per le belve. Solo così mi sarà concesso di raggiungere Dio’”6. Con questa citazione di Ignazio, vescovo di Antiochia, martirizzato all’inizio del II secolo, il Catechismo ben sintetizza lo spirito con il quale i primi cristiani intendevano il loro sacrificio e, con la sua definizione, il modo in cui la Chiesa, nei secoli e nei millenni successivi ha reso loro onore. Infatti il nostro testo conclude così: “Con la più grande cura la Chiesa ha raccolto i ricordi di coloro che, per testimoniare la fede, sono giunti sino alla fine. Si tratta degli Atti dei Martiri. Costituiscono gli archivi della Verità scritti a lettere di sangue”7.

Gli Atti si riferiscono principalmente all’epoca delle grandi persecuzioni che l’impero romano mise in opera contro la Chiesa nascente allo scopo di impedirne quella che poi è stata chiamata la sua admirabilis propagatio. La “caccia al cristiano” terminò grosso modo attorno al 313, anno del famoso editto di Milano, per scomparire del tutto con Teodosio, imperatore con il quale il cristianesimo divenne egemone nell’impero anche sotto il profilo giuridico. Ciò non toglie che nel corso dei secoli il martirio sia sempre stato un’opzione possibile, un caso serio dell’esistenza dei cristiani, che non di rado si è concretizzato, anche e soprattutto nel secolo scorso e nell’attuale.

Ed è proprio parlando del caso serio che Hans Urs von Balthasar ci ha fornito una delle migliori sintesi teologiche sul significato del martirio, un testo che in qualche modo riassume e contiene le precedenti definizioni, in un quadro che definisce la struttura esistenziale e cristologica dell’essere testimoni del Vangelo. Per il teologo svizzero, il martirio rappresenta la risposta del fedele alla croce di Cristo, una risposta resa necessaria dal fatto che “Egli [Gesù] è morto per tutti affinché coloro che vivono non vivano più per se stessi ma per colui che per essi è morto e risuscitato” (2Cor 5, 14-15 ). Ciò fa della morte di Cristo “l’a-priori del comportamento cristiano”8. La morte di Cristo è ciò in cui il fedele viene salvato e dunque entrare nella fede significa entrare nella morte di croce, così come effettivamente avviene nel Battesimo, sacramento con cui si viene “sepolti” con Cristo per rinascere con lui alla nuova vita credente. Non c’è dunque modo di ringraziare per questa offerta salvifica del Padre, il quale permette che il Figlio muoia nell’abbandono per riscattare l’umanità dal peccato, se non con la croce e il martirio.

Infatti “Dio non si accontenta di un grazie cordiale. Vuole riconoscere nei cristiani il Figlio. Per quanto nei loro sentimenti rimangano al di sotto di Cristo, essi tuttavia devono, per principio, consentire a quell’amore, mediante il quale sono redenti. Ma consentire significa trovare che la cosa è giusta, anzi l’unica giusta; ma che è pure la rivelazione più alta dell’amore divino, e quindi — poiché Dio è la verità — che è la norma di ogni verità. Perciò (ed i cristiani lo comprendono) anche per loro nessun’altra norma di verità può aver valore. Nel ringraziamento non possono accontentare Dio con un amore e una verità diversi da quelli che ha loro assegnato”9. Pertanto, contrariamente alla diffusa opinione secondo cui il martirio rappresenterebbe una sorta di super-erogatorio e dunque in parziale rifiuto di quella morale teologica che distingue i precetti dai consigli evangelici, von Balthasar può affermare che io, come cristiano “fiorisco sul sepolcro del Dio che è morto per me, affondo le mie radici nel terreno della sua carne e del suo sangue. Perciò l’amore che ne traggo nella fede non può essere di natura diversa da quello del sepolto”10.

Questa idea radicale dell’esistenza di fede come “esistenza nella morte per amore”11, è stata giocata nel periodo immediatamente posteriore al Concilio Vaticano II anche come antidoto a tutte quelle forme di aggiornamento che tendevano a secolarizzare il messaggio cristiano, svuotandolo della sua caratteristica più propria, ossia della contestazione più profonda ed estrema delle logiche di questo mondo, nella totale devozione al solo che può restituire alla creazione la sua originaria bellezza. Questa idea può altresì rappresentare un punto fermo sotto il profilo della delineazione dei caratteri “perenni” del martirio, a partire dalle Scritture e dalla considerazione dell’atteggiamento generale dei cristiani nei confronti della fede e della persecuzione, nel quadro di una chiara e impegnativa theologia crucis cattolica.

Forma e contenuto

Da un punto di vista concettuale il martirio andrebbe invece compreso sotto la categoria della testimonianza, entro la cui specie costituirebbe una sorta di caso estremo. Il martirio è un atto che si configura come una testimonianza usque ad sanguinem che afferma al prezzo della vita una verità creduta dal martire.

Prima di entrare nella questione relativa ad una fenomenologia della testimonianza, attraverso la quale saremo condotti al problema del rapporto testimonianza-politica occorre sgombrare il terreno da una difficoltà preliminare: quale carattere di esemplarità e specificità possiede il martirio cristiano a fronte delle altre situazioni in cui una testimonianza è stata portata fino al dono della vita? Ovvero, in base al rispetto che incutono i sacrifici di sé, tutte le idee in funzione delle quali tali sacrifici sono compiuti meritano di vedersi attribuito il medesimo valore di verità? Oppure il martirio cristiano, presupponendo la fede vera, avrebbe un valore specifico diverso, finendo tuttavia col non rappresentare altro che una conferma di un valore di verità già preventivamente accolto, con una conseguente svalutazione del significato appunto testimoniale dell’azione? In altri termini bisogna chiedersi se sia la forma dell’atto, ossia il morire-per-qualcosa (chiaramente di ideale, di etico e in generale di assimilabile ad un valore universale), a garantire la bontà di questo “qualcosa”. In tal caso si dovrebbe assegnare eguale credibilità a contenuti per ipotesi anche contraddittori, a patto che siano testimoniati con il martirio. Viceversa, qualora non si possa rinunciare ad entrare nel merito di ciò che è testimoniato per chiarire il valore della testimonianza, ci si troverebbe a fare i conti con un circolo per cui la testimonianza a favore della verità di un dato contenuto presupporrebbe quella stessa verità che essa ambirebbe a supportare. La soluzione, a partire da quanto sopra affermato da Agostino, ma anche confermato da Tommaso12, non può che essere la seconda, ovvero quella che costringe ad “entrare nel merito”. Con l’avvertenza che in qualche modo bisogna imparare a stare nel circolo, secondo un ormai inflazionato adagio ermeneutico, giacché è cosa difficile ma comunque meno onerosa che stare nella contraddizione insuperabile tra diversi contenuti, implicita nel primo corno del dilemma.

A tale scopo può giovare la riflessione di K. Rahner, che nel suo Sulla teologia della morte, affrontando una digressione sul martirio, si accorge del problema. Egli da un lato afferma che esiste un “atto supremo dell’uomo etico-spirituale” che, benché non raggiunto dalla rivelazione storica, giunge fino alla “totale disposizione di sé nella morte”, cosa che non può essere indifferente all’ordine della salvezza13. Ciò aprirebbe la strada ad una considerazione della prima soluzione, laddove un contenuto esplicito di fede non sarebbe richiesto a priori e si attribuirebbe esclusivamente all’atto della “totale disposizione di sé nella morte” la capacità di esibire di per sé un peculiare valore salvifico (e quindi una verità intrinseca). Quanto detto sarebbe, stando allo spirito del discorso rahenriano, coerentemente applicabile alla situazione di una testimonianza estrema non esplicitamente riconducibile a un motivo di fede, ma implicitamente capace di possederlo.

Tuttavia, specificando ulteriormente il senso del suo pensiero, Rahner giunge ad una formulazione per la quale si domanda: “La morte del martirio non deve dunque possedere la qualità di testimonianza di Dio anche empiricamente, proprio affinché possa essere testimonianza che convince e motivo di fede?”14.”Riguardo a questo problema — continua il teologo tedesco — [...] ci siamo aiutati finora accennando al fatto che il martirio nella Chiesa per la grande quantità dei martiri, per la loro pazienza, la mancanza di fanatismo, per l’odio del mondo che lo cagiona [il quale mondo] si tradisce cattivo, anzi diabolico, e per simili motivi (che non occorre analizzare oltre) si dimostra un miracolo della grazia di Dio. Con ciò vogliamo dire: chi osserva il martirio nella Chiesa, così com’è, può constatare una chiara differenza di fronte alle altri morti volontarie per un’idea, per una visione del mondo ecc., che si danno nel mondo, può riconoscere che il martirio cristiano (anche in precedenza ad una vera e propria interpretazione secondo la fede) non è semplicemente uno dei molti casi del ‘farsi garante fino alla morte per la propria convinzione’, che si danno normalmente anche nel mondo e nella storia”15. Dunque, se è vero che non si richiede un contenuto esplicito di fede, è altrettanto vero che un contenuto anche implicito, pur sempre presente nell’atto del sacrificarsi per ciò che è supremamente vero e degno, retroagisce sulla qualità formale dello stesso, conferendogli alcuni tipiche caratteristiche che lo rendono riconoscibile: mancanza di fanatismo, pazienza, odio del mondo etc.

Così verrebbe a configurarsi una specificità del martirio cristiano, una sua qualità interna direttamente derivabile dal “per-che-cosa” si muore, in grado di provocare chi non è già dentro la dimensione della fede. Ciò sebbene, avendo prima con Rahner introdotto la categoria della fides virtualis, e non potendo logicamente riservarla al caso limite del soggetto che si autoimmola, bensì dovendo estenderla anche al pubblico raggiunto dalla testimonianza del martirio, si reintroduca una circolarità, giacché codesta fides virtualis nel pubblico non potrebbe non coincidere con una predisposizione preventiva ad accogliere la verità comunicata dal martirio, riconoscendone, con gli occhi di una fede pre-esistente, la qualità di evento in cui agisce la grazia divina. In tal modo, tuttavia si ripropone in tutta la sua dimostrata plausibilità il più classico dei circoli ermeneutici e il problema, pur non superando un’intrinseca e forse misteriosa aporeticità, giunge ad un’accettabile soluzione.

Pertanto il gesto del martirio diventa riconoscibile per alcune qualità, che dicono la presenza in esso, in qualsiasi forma – esplicita o implicita – della grazia di Dio, riconoscibile dal pubblico in una disposizione, diremmo oggi, empatica nei confronti del martire e di ciò che egli vuole comunicare. Ciò rende la testimonianza efficace e indispensabile dal punto di vista della verità che essa comunica e nel contempo ne determina un carattere peculiare in ordine alla sua “causa” che rende possibile discriminare tra testimonianze diverse e portatrici di contenuti non conciliabili tra loro.

Testimonianza

Ma ora risulta veramente necessario approfondire che cosa si intende per testimonianza. Abbiamo finora infatti parlato di una specificità del martirio (differenza specifica) senza però dare una descrizione sufficientemente esaustiva del suo genere prossimo, elemento senza il quale, com’è noto, non è possibile definire alcunché.

Secondo l’irrinunciabile studio di Paul Ricoeur su L’herméneutique du témoignage16, la testimonianza può avere due diversi significati, uno empirico, uno giuridico. Nel primo essa coicide con un racconto di ciò che si è visto e con una trasposizione delle cose viste nel linguaggio. Si constata un fatto e lo si racconta in modo da provare un’opinione o una verità. Nel secondo significato v’è testimonianza in un contesto giuridico, laddove essa si declina come testimonianza a favore o contro in un ambito dove non si discute di qualcosa di necessario, cioè la cui evidenza si impone immediatamente, ma di qualcosa che ha bisogno di un’attestazione. In tale senso è stato sviluppato il tema anche nella Retorica aristotelica, che tratta dei mezzi per persuadere impiegati nell’ambito deliberativo, giudiziario, epidittico. La retorica in Aristotele riguarda il discorso probabile e la finalità della persuasione. Qui la testimonianza si configura come prova extra-tecnica che non viene dall’abilità dell’oratore ma dall’esterno e contempla non solo la dimensione del racconto di cose viste e la loro attestazione ma anche le affermazioni di persone considerate come autorità nel loro campo.

Tale significato, che attiene a fattori esterni all’abilità strettamente argomentativa, introduce ad un’altra questione, qui estremamente interessante, quella dell’attaccamento del testimone alla causa: “C’est cela que nous signifions par le mot témoin. Le témoin est l’homme qui s’est identifié à la juste cause que haïssent la foule et les grands et qui, pour cette juste cause, risque sa vie”17. Ossia la testimonianza è quell’atto che non si può esaurire nella narrazione linguistica, quand’anche essa rivesta i caratteri dell’attestazione “ideologicamente” convinta, ma comporta una peculiare relazione carnale con l’evento, con la causa, con la verità testimoniata, la relazione in cui la persona arriva ad essere messa in gioco persino nella sua sopravvivenza fisica.

C’è allora una rapporto singolare, sorgivo tra l’evento e il senso, tra l’accadere fattuale e quello linguistico. L’interpretazione non può oltrepassare la linea di quell’irruzione della cosa stessa che produce stupore e che induce alla testimonianza. Lì si accede all’inizio del senso, laddove esso confina e tracima nell’evento: “La témoignage donne quelque chose à interpréter. Ce premier trait marque l’aspect manifestation du témoignage. L’absolu se déclaire ici et maintenant. Il y a, dans le témoignage, une immédiateté de l’absolu sans quoi il n’y aurait rien a interpréter. Cette immédiateté opère comme origine, comme initium, en deçà de quoi on ne peut remonter. A partir de là l’interprétation sera l’interminable médiation de cette immédiateté [...]. Une herméneutique sans témoignage est condamnée à la régression infinie, dans un perspectivisme sans commencement ni fin”18.

C’è qualcosa di assoluto che si “dà ad interpretare” nella testimonianza, qualcosa che sta prima dell’ “interminabile mediazione” ermeneutica e ne costituisce la condizione iniziale, senza la quale la mediazione è condannata ad un “prospettivismo senza inizio né fine” in cui l’uomo si perde, perdendo al contempo il senso di ciò che accade. Tale senso è invece accessibile nella testimonianza. Così ci si pone al centro della tematica ricoeuriana della testimonianza assoluta dell’assoluto in cui s’incontrano da un lato la coscienza umana e dall’altro un evento in cui l’assoluto lascia segno di sé nella storia, un segno tale da impegnare e trasformare radicalmente l’interiorità e l’identità tutta dell’uomo.

Ma, a questo punto proverei ad addentrarmi ancor più in questa dinamica tra evento e linguaggio che si dà nella testimonianza, con l’aiuto di Jürgen Habermas. Il filosofo fa propri, con l’acume che gli compete, i guadagni della svolta linguistica del Novecento, in particolare sottolineando un elemento pratico insito dentro il linguaggio. Il linguaggio è costituito per lui da enunciati collocati in un contesto comunicativo. C’è infatti accanto alla sua dimensione semantica un’irrinunciabile dimensione pragmatica19, per cui nel dire qualcosa si vuole anche fare qualcosa, e in particolare si vuole comunicare un contenuto ad un interlocutore. Ora, Habermas sottolinea che una condizione di possibilità della comunicazione è quella della comprensione, da parte dei dialoganti, delle rispettive pretese di verità, sincerità, giustizia che ciascuno avanza nel proprio dire. Ciò significa che

1) nella pretesa di verità “il parlante deve avere la pretesa di voler comunicare un contenuto proposizionale vero, in modo che l’ascoltatore possa condividere il sapere del parlante”;

2) nella pretesa di sincerità “il parlante deve voler esprimere le sue intenzioni in modo veritiero, in modo che l’ascoltatore possa credere all’enunciazione del parlante (avere fiducia in lui)”;

3) nella pretesa di giustizia “il parlante deve scegliere un’espressione corretta in riferimento a norme e valori dati, in modo che l’ascoltatore possa accettare l’espressione ed entrambi, parlante e ascoltatore, possano trovarsi d’accordo sull’enunciazione in rapporto ad uno sfondo normativo riconosciuto”20.

Solo se coloro che stanno parlando si comprendono reciprocamente in queste pretese, possono modulare il loro comportamento in relazione ai contenuti del discorso dell’altro e rispondere in un contesto sensato. Per esempio, se io non comprendo le pretese di validità di colui che mi sta chiedendo qualcosa come un bicchier d’acqua21, potendo pensare che egli voglia dire una cosa intendendone un’altra, o mi parli di cose inesistenti o semplicemente compia dei gesti ed emetta suoni per coazione o per divertimento, non mi sentirò interpellato e non risponderò. Ciò che così accadrà sarà un sostanziale fallimento della comunicazione. Viceversa, potrò fornire l’oggetto desiderato o comunque rispondere in base alla mia disponibilità a compiere l’azione richiesta in modo che il mio interlocutore, capendo a sua volta le mie pretese di validità, potrà avere quello che vuole o rivolgersi ad un’altra persona.

Quando un individuo, dopo aver compreso le pretese di validità del discorso di chi gli sta di fronte, per qualche motivo le contesta, s’innesca la dinamica argomentativa. L’argomentazione nasce come sostegno della veridicità complessiva del discorso del parlante e favorisce a sua volta lo svilupparsi di una contro-argomentazione, fino a che l’argomento cui non è possibile opporre un’obiezione sensata ottiene ragione. Una ragione, beninteso sempre sottoponibile alla riserva di fallibilità, nel momento in cui sopravvengano in un secondo tempo obiezioni nuove e più decisive. Ma la pregnanza dell’argomentazione ha dei criteri per essere valutata. Vale a dire che esistono condizioni ideali in cui un’argomentazione è in grado di soddisfare la pretesa di verità insita in un atto linguistico22, condizioni che hanno un carattere di criterio orientativo per la realtà anche se non si constatano mai nella loro purezza all’interno di concreti dibattiti23. Tali condizioni possono condensarsi in quattro punti

1) dal consenso non si può escludere nessuno in via di principio;

2) tutti devono essere messi nelle condizioni di partecipare attivamente e in libertà alla formazione dell’argomentazione e alla sua critica;

3)nessuno può esercitare coazione sugli altri;

4) coloro che partecipano al dialogo devono essere disposti a collaborare non per vincere essi stessi ma per far vincere l’argomento migliore e ciò deve avvenire in ruoli in via di principio interscambiabili, cioè le ragioni non devono esser fatte derivare da condizioni che non siano sperimentabili da tutti e in cui tutti si possono riconoscere.

Si può osservare che queste condizioni riproducono su un piano sociale ed esistenziale, cioè pragmatico e concreto il concetto di universalità che il discorso corretto deve possedere su un piano formale e logico-deduttivo, cioè tendono a dare concretezza sociologica a tale piano. Così un discorso vero al livello logico-deduttivo non potrebbe

1bis) 2bis) non includere tutti i parlanti in via di principio;

3bis) non costringere all’assenso solo in virtù della propria cogenza, quindi non potrebbe non produrre un assenso libero;

4bis) non potrebbe non essere vero se non in relazione alla cosa e non alle diverse “volontà di potenza” dei soggetti.

E tuttavia potrebbe non essere compreso o essere rifiutato da chi vive situazioni diverse e per certi versi esistenzialmente uniche (alludo qui al problema dell’interscambiabilità dei ruoli evidenziato nella seconda parte del punto 4). In condizioni peculiari, per esempio in situazioni di estrema sofferenza, siamo per così dire insensibili agli argomenti, malgrado essi possano esibire un elevato grado di condivisibilità in altre situazioni24 o risultino veri dal punto di vista dell’adaequatio rei et intellectus25.

Allora qui si inscrive la testimonianza come quell’argomento che ha una vocazione eminentemente pratica e consente di cogliere, per così dire, in modo amplificato, il nesso di parola e atto, di verità e libertà, contenuto su cui Habermas ha insistito. Infatti nel parlare del testimone non è compreso solo il narrare o il riportare una verità, ma, come si è detto in precedenza, l’impegno personale a favore di tale verità. In tal senso la testimonianza è quella forma di linguaggio che costitutivamente “possiede in sé un’intima apertura verso il ‘di più’ e verso l’ulteriore”26. Qui l’argomento appare “forte” e “stabile” perché singolarmente procedente dal vissuto e dalla carne della persona e singolarmente eccedente verso il vissuto e la carne. Si può dire con Paolo Martinelli che esso sia “il caso serio del linguaggio”, il luogo in cui il coinvolgimento della libertà nella verità mette in gioco il soggetto in modo talmente chiaro, in modo così evidentemente esposto al pericolo, da renderlo credibile e affidabile.

Così, attraverso il fatto che nel suo dire il testimone è disposto a perderci o a farsi garante dei contenuti mediante l’agire concreto e un dispendio effettivo di energie, l’argomentazione è messa nelle condizioni di soddisfare in maniera profonda e veramente adeguata l’originaria pretesa di verità insita nel linguaggio. Una verità che concettualmente viene così a trasmigrare dalla sfera dell’adaequatio rei et intellectus a quella dell’adaequatio rei et personae. Secondo l’opinione condivisibile di Daniele Silvestri la testimonianza “riconcilia la dimensione fiduciale e quella argomentativa del conoscere” facendo intervenire nel processo conoscitivo l’elemento personale dell’impegno morale ed enfatizzandone la “tessitura” che vi sottostà, ovvero l’idea di un rapporto non di persone verso cose ma di persone verso persone, nel cui quadro la conoscenza “trova la sua verità”27.

Una verità che adesso possiamo veramente chiamare con il suo appropriato nome biblico emet: “Il verbo che lo fonda ha il significato di stare saldo o stabilire, sostenere, sopportare. Emet significa la fidatezza, la sicurezza assoluta che una parola o una cosa garantiscono, e quindi anche la fedeltà che le persone dimostrano. Le parole di un uomo sono emet quando si dimostrano sicure. Emet non è quindi data una volta per tutte, non è uno stato di cose atemporalmente valido, ma deve continuamente accadere. Questo accadimento di veracità, di fedeltà, si manifesta nella sua forma più pura come ‘un agire del tutto libero di persone verso altre persone’”28

Ma questa dimensione personale, attiva, pragmatica, morale, fattuale e cosale della testimonianza come si colloca dentro la relazione tra l’evento e il segno che avevamo evocato a proposito delle riflessioni di Ricoeur? Essa come detto costituisce un initium che garantisce una sorta di saldezza dell’interpretazione, un suo cominciamento sicuro, giacché rappresenta un modo originario del rapportarsi del segno all’evento. Da lì poi si metterà in moto la mediazione di tale immediatezza iniziale, la mediazione dell’interpretazione e quindi, diremmo, lo scorrere del discorrere. Ma ancora all’interno di questo scorrere, che Habermas ha segnalato come una dinamica dialogica e argomentativa, la testimonianza rimane come possibilità sempre presente del farsi carne dell’argomento, la possibilità del trasformarsi della parola in atto, in effettiva autoesposizione e impegno morale del soggetto. E qui il discorso, il senso, trasborda e confluisce nell’evento29, diventa di nuovo atto e fatto, diventa nuovo inizio. E’ come se un significato estenuato nel gioco discorsivo delle interpretazioni, messo ripetutamente alla prova e financo sfiancato dalla sua ripetizione, trovasse nuova linfa, prendesse nuova vita e potesse nuovamente essere inteso nella sua freschezza, come se un’idea antica si rinnovasse a tutto beneficio del discorso e della sua capacità di comunicare, come se l’Origine tornasse di nuovo disponibile.

E’ interessante che la traduzione goethiana del Vangelo di Giovanni segnali, al primo versetto, il Logos come “Tat” = “atto, azione”30, laddove il farsi carne del Verbo diviene proprio un attualizzarsi della Parola, leggibile nel nostro contesto come l’attestazione di una primigenia dimensione intenzionale del linguaggio, intendendo tale termine nel senso dell’“uscita fuori da sé” che fu riesumato per merito di Franz Brentano ed Edmund Husserl dalla scolastica. Allora la parola esce dal suo guscio semantico e risponde nel modo più pregnante alla sua vocazione pragmatica proprio nella testimonianza, proprio, in particolare in quella testimonianza che comporta il grado massimo della messa in gioco della carne e quindi della vita fisica e concreta del testimone, in ciò diventando una sorta di lavacro appunto pragmatico del linguaggio e una nuova garanzia della sua possibilità di significare qualcosa oltre ogni nichilismo semiologico31.

Chiaramente qui si esce da una semplice filosofia del linguaggio, e pure da un’etica, per quanto nobile, del discorso. Qui ne va di cose assolute, qui è questione di vita o di morte, luoghi esistenziali dove si mette il questione il Fondamento di tutto, anche del linguaggio e della linguisticità dell’esistere umano.

Il martirio, come testimonianza resa al massimo grado, è il centro di tutto ciò.

Kenosi

Ma la condizione di significatività della testimonianza, cioè la condizione affinché essa possa svolgere questo ruolo vivificante fondamentale dell’esistenza umana (immersa nel linguaggio eppure al linguaggio non riducibile) è il suo carattere kenotico. Su questo argomento è necessario ora soffermarsi. In effetti si è visto che il testimone è credibile in quanto la sua parola mostra una disposizione all’agire, mostra di rispondere ad una chiamata della “cosa”. Ma come lo fa? Il testimone non esisterebbe se la verità di cui egli testimonia fosse a suo vantaggio. Il ritorno della verità ad utilità di chi la sostiene, non è prova di essa ma anzi vi gioca contro. Infatti l’interlocutore può sempre invocare il sospetto. La storia è piena di uomini che hanno agito per interesse contro la verità. Anzi, moralmente parlando, è inutile sottolineare con Kant che l’interesse empirico è proprio quell’elemento che guasta inesorabilmente l’eticità di un atto.

Dunque non vi è attestazione testimoniale pro domo propria: il testimone è tale perché è disposto a perderci. Solo l’amore è credibile, recita il titolo di un testo di von Balthasar. Non si può, nel caso in questione, non concordare, rilevando che l’amore di cui si parla è un amore crocifisso. Si è prima visto che il martire, dice lo stesso von Balthasar, risponde con la croce all’amore di Gesù in croce. Ma qui il tema non è altro che la testimonianza con cui il soggetto è sempre di fronte alla possibilità della croce. E la croce che cos’è se non appunto il compimento della kenosi32? La kenosi come abbassamento svuotamento di sé a favore dell’altro è il senso profondo della testimonianza, che mette in atto questo processo sia nei confronti dell’altro-verità testimoniata, sia nei confronti dell’altro-persona interlocutore oggetto della propria testimonianza, rispetto al quale viene evidenziato un atteggiamento di disposizione e di servizio. Tale può essere anche il senso in cui Ricoeur indica la testimonianza come dépouillement (spoliazione). Nella medesima costellazione di significati si può altresì inserirsi la riflessione di Lévinas, il quale secondo Silvestri sostiene che “la responsabilità per l’altro [...] spinge il soggetto all’autoespropriazione ed è precisamente in questo spazio vuoto che si crea lo spazio per la testimonianza, spazio che è quasi più il vuoto di un’assenza-presenza che non il luogo di un’apparizione di un essere che sia in qualche modo sostitutivo dell’essere soggettivo, per costituire così un nucleo diverso da quello di partenza ma egualmente auto-centrato, e proprio per questo diventa capax infiniti, non essendo più il ‘pieno’ di qualcosa che, per grande che sia, resta sempre limitato, ma il vuoto di una disponibilità sempre nuova”33. Ebbene, in questo svuotarsi risiede precisamente il senso ultimo della kenosi e lì, nella radicalità del testimoniare auto-espropriante, riposa il carattere tipico del martirio.

La testimonianza raggiunge la pienezza della sua dimensione kenotica nel martirio. Infatti “l’offerta della vita è molto improbabile che sia suggerita da considerazioni pragmatiche, vista l’inutilità di progettare un utile al di là della morte”34. Qui l’assurdo di un gesto totalmente oblativo diventa l’alternativa alla e la sconfessione della ragione utilitaria. Si tratta di una via opposta all’utile e alla logica del servire a, una via che afferma un valore in sé, ponendo fine a quella catena nichilistica di rimandi per la quale ogni valore relativo costruisce un riferimento ad un ulteriore valore relativo in un circolo che, come rettorica, si qualifica in modo singolarmente contiguo al continuo rimandarsi dei significati nella sfera del nichilismo semiotico35.

Solo nell’ambito di tale assurdo kenotico è rinvenibile una totale coincidenza di forma e contenuto dell’azione, così come richiesto dalle riflessioni rahneriane. Infatti non c’è svuotamento che possa strategicamente separarsi dai propri contenuti, giacché il ventaglio di questi ultimi è una volta per tutte definito dalla qualità dell’atto, ed essi stessi ne rappresentano l’esito inevitabile: non c’è martirio, cioè svuotamento a favore dell’altro, se non nell’amore e l’amore radicalizzato fino all’assoluto sbocca naturalmente nel martirio o, che è lo stesso, nella disposizione al martirio. D’altro canto uno svuotamento a favore dell’altro è senza dubbio riconoscibile nei suoi aspetti formali, che non possono entrare in contraddizione con quelli materiali, giacché la forma non può mai essere esibizione strategica di un contenuto fittizio, se non ricadendo nella ragion utilitaria da cui si era voluti uscire.

Martirio e politica: il caso dei martiri africani

Se il martirio è la sconfessione più lampante della ragione utilitaria, esso non ne è l’unica versione possibile. In effetti esistono azioni che nulla hanno di martiriale pur essendo pienamente disinteressate. E’ il caso delle azioni violente eseguite in onore ad una legge o ad un modello che le prescrive e senza interrogarsi sulle loro ripercussioni. La violenza ha in questo caso un peculiare grado di gratuità quantomeno soggettiva. E tuttavia anche qui è riproponibile, seppure ad un livello di raffinatezza superiore, la qualificazione dell’atto come atto strumentale. Infatti la violenza - e con essa intendo l’esercizio della forza a danno diretto o indiretto di qualcuno, laddove il danno appaia incommensurabile con il beneficio che ne può derivare alla stessa persona (incommensurabile per diversità di livello ontologico)36 - è un atto che tende a rimuovere un ostacolo affermando una sovranità, la sovranità del soggetto cui è riconducibile l’atto rispetto all’ostacolo stesso. Dunque qualsiasi sia il tramite mediante cui l’atto si esplica concretamente, questo ricade sempre a vantaggio di una determinata soggettività.

Che cosa succede se il tramite è un altro soggetto, cioè se l’azione non è compiuta da chi ne riceve il beneficio ma da un altro in suo onore o in base al suo modello, cioè se si compie un azione per esempio ad majorem Dei gloriam, quando il dio può essere lo Stato, un’altra istituzione o un qualsiasi individuo particolare? Non si avrà qui forse la stessa dinamica spoliativa che abbiamo visto agire nella kenosi e di cui abbiamo esempio tipico di tutti coloro che nella storia hanno detto di essersi assunti la responsabilità di compiere azioni moralmente condannabili per far trionfare il soggetto buono? Non sarà anche il caso di coloro che si prendono la responsabilità di anticipare il Regno, combattendo una sorta di Harmagedòn per far vincere il bene promesso da Dio, mettendosi dalla parte dei “violenti” che “rapiunt illud” (Mt 11,12)?

Ma qui è chiaro l’accadere di una sorta di identificazione proiettiva con il soggetto buono di cui si parla, il cui vantaggio diviene il proprio vantaggio, tanto da consentire il paradosso di un atto in sé contrario alla bontà assoluta che si attribuisce al soggetto proprio per affermarla, in una tipica schizofrenia morale che la sapienza cattolica ha sempre voluto scongiurare quando ha avvertito che non sunt facienda mala ut veniant bona. Dunque non vi può essere martirio in questo caso, giacché l’agire appare comunque strategico, sebbene di una strategia che presuppone un certo dislocamento di sé. Un dislocamento che appare tuttavia viziato da una singolare meccanismo proiettivo che ne inficia la qualità morale.

Ma evidentemente siamo già entrati, un po’ dalla porta di servizio, nella sfera della ragion politica. Infatti l’agire strategico di cui si parlava coincide con quanto Weber ha indicato come “etica della responsabilità”, quell’etica che contraddistingue in modo tipico la sfera del politico. Lasciando per il momento in sospeso la questione weberiana della dinamica tra etica della convinzione ed etica della responsabilità, che riprenderemo più avanti, e approfondendo le osservazioni fatte sino ad ora, ciò permette di domandare: “Quale rapporto si viene ad instaurare tra il martirio e la politica?”.

In tale campo è necessario confrontarsi con gli studi di Remo Cacitti che, con acume indiscusso, ha analizzato sotto il profilo storico un caso emblematico di martirio avente una relazione specifica con la sfera politica, il caso dei martiri africani del IV-V secolo.

Cacitti esaminando dapprima la Passio Perpetuae et Felicitatis, documento classico del martirologio africano, e mettendolo a confronto con alcuni scritti relativi alle vicende di martiri donatisti, rileva una singolare dimensione mistica nelle loro passioni, dimensione che viene avvertita come profondamente eversiva da parte delle autorità romane. Si tratta di una peculiare amentia o “mania” del martire, che si esprime nel contegno verso gli accusatori, nel patire o nelle visioni che lo precedono, nei quali emerge la dislocazione escatologica del criterio di giudizio delle cose mondane e quindi la condanna e il rigetto non dei singoli comportamenti dei “pagani”, bensì della logica complessiva cui si ispirano, la logica della gerarchia terrena dei valori che nel Regno verrà ribaltata e il cui rovesciamento si annuncia già nella prassi di chi muore testimoniando Gesù37. Tutto ciò assume un significato ancor più marcatamente politico nella vicenda dei Circoncellioni, un gruppo di cristiani itineranti di estrazione sociale popolare e contadina che affiancava i donatisti nella lotta, interna alla cristianità nascente, con il clero e il popolo cattolico, cioè contro le direttive ecclesiologiche romane in merito alla questione della riaccettazione nell’ecumene dei traditores. Tra le caratteristiche di questi cristiani “dissidenti” vi era un atteggiamento marcatamente escatologico, un culto dei martiri attuato in forme coribantiche e la determinazione incrollabile nell’opporre la fede nella prossima instaurazione del Regno all’autorità politica romano-pagana. In particolare la volontà di seguire fino al martirio il messaggio biblico e la recezione entusiastica della sua qualità alternativa rispetto alle logiche mondane conducevano questi gruppi non solo al rifiuto di ogni forma di compromesso con le istituzioni politiche, quand’anche cristianizzate dopo la svolta costantiniana, ma l’implementazione sociale di quel messaggio eversivo come anticipazione o simbolica precostituzione del Regno millenario di Cristo nella storia.

Di qui anche l’opzione della violenza riparatrice e restauratrice dell’ordine della creazione ante-peccatum che conduceva alla “(forzatamente) gratuita remissione dei debiti [al]l’esercizio della violenza contro i creditores, [a]l sovvertimento del rapporto schiavo-padrone, [...e al]la riduzione in schiavitù del ricco”38, con un furor eversivo in speculare contrasto con la bona mens e la pietas romana39.

Un’ ultima significativa particolarità dei Circoncellioni è l’aspirazione alla sequela martiriale che giunge fino alla messa in atto di una prassi suicidiaria. Non si tratta solo di ambire al martirio “nella lotta contro l’avversario il quale, contrariamente alla tradizione, non è più cifrato con un simbolo, ma si palesa nella sua concretezza storica e politica”40 (il connubio, diremmo oggi, fra trono e altare romani); bensì di cercare la morte per vacua liquidi aeris spatia, come titola suggestivamente Cacitti. In sostanza, come tramandano le fonti, molti Circoncellioni al culmine del loro percorso mistico-entusiastico si buttavano da dirupi scoscesi volendo con ciò anticipare il volo dell’anima verso il Regno, in imitazione di quanto avevano potuto udire del vescovo donatista Marculo, lui veramente spinto in un burrone dopo essere stato catturato dai cattolici, ma creduto immediatamente risalire in cielo, trasportato da Dio e dai suoi angeli nella dimora eterna41. Insomma si tratta di volere il martirio fino a progettare di darsi la morte nelle medesime condizioni in cui la morte era stata data ai martiri42.

Ora, di questa esperienza dice Mathieu: “La morte deve essere accettata ma non cercata come un mezzo. “Le salut n’est que dans le martyre” proclamano i Circumcelliones nella Tentazione di Sant’Antonio di Flaubert; senza dubbio: la salvezza non si trova che nell’azione che attesta la fede. Ma, precisamente per questo tale azione non dev’essere né imposta né cercata dall’esterno con quello scopo: pertanto la violenza dei Circumcelliones non era adatta a salvare neppure coloro che la subivano, mentre le persecuzioni dei Romani poterono portare a questo scopo perché i Romani non le progettavano con quell’intenzione”43. Alla luce di quanto siamo venuti specificando sin qui non possiamo non condividere l’opinione del filosofo torinese. Nondimeno si possono rilevare nella vicenda di questi “agonisti di Dio” ulteriori elementi di interesse.

Per una tassonomia della prassi umana e mondana

Come nella lingua si può distinguere un aspetto semantico da uno pragmatico, appare plausibile nell’azione distinguere un aspetto propriamente pragmatico da uno concernente il senso e la significazione. Quando si dice che l’azione si differenzia da un mero accadere del mondo, s’intende alludere al fatto che essa assume la sua propria caratteristica umana nella misura in cui è rintracciabile in essa una volontà, un motivo, un fine e, come correlato di tutti questi elementi, un senso. Allora come si connota l’agire nei riguardi di questo aspetto “semantico” e di questo riferimento, diremmo, spirituale? Abbiamo visto che nella testimonianza c’è una purezza dell’intenzione, uno svuotamento kenotico della soggettività che permette la manifestazione di un nesso intimo e diretto con un bene, con un assoluto che nel testimone si fa carne e trapassa dalla sua assenza alla presenza nel mondo. Questo assoluto di un’idea, intesa in senso propriamente neoplatonico come pensiero di Dio, o nel senso della teologia cristiana come Logos del Padre, può venire al mondo solo mediante la croce, perché solo nella croce è esibita la potenza che salva non esplodendo su e contro l’altro ma passando all’altro, non affermando la sovranità del soggetto che la possiede, ma rendendo sovrano grazie alla propria autodonazione il soggetto che la riceve. Nel martire è la risposta più piena ed autentica a questa autodonazione, è la risposta della propria assoluta trasparenza alla luce del Logos, che senza essere trattenuta in nulla, si trasmette ulteriormente al mondo quando il martire a sua volta si dona alla propria croce a favore dell’altro, e in ispecie del proprio aguzzino.

Ma questa luce entrando nel mondo incontra una prima opacità. C’è infatti una diversa risposta possibile al martirio e pare esattamente essere la risposta data dai Circoncellioni. Una risposta che da cultuale si fa pratica e assume il martire a simbolo della possibilità di tradurre immediatamente qui ed ora il Logos in prassi mondana. Dal culto dei martiri si passa allora a quella peculiare intenzione imitatrice che aspira ad esaurire il significato della testimonianza martiriale assumendola come progetto di instaurazione del Regno. E’ l’azione immediatamente coerente con il significato ricevuto nella testimonianza e letto alla luce della Rivelazione e tuttavia non più in grado di sostenere il paradosso fondamentale del martirio, quello di essere un’azione sottratta in ultimo alla possibilità di essere progettata e deliberata in modo autonomo e irrelato44. Infatti, come già Cristo non potrà mai essere imitato sino in fondo, perché nella sua kenosi non solo si è dato interamente agli uomini ma ha fatto interamente la volontà del Padre, rinunciando egli stesso a progettare la sua fine e la sua estrema testimonianza, così il martire lo imita non deliberando ma decidendo di non decidere ma di lasciarsi decidere da Dio e dagli uomini, in modo tale che il suo martirio non è alla fine nelle sue mani ma in quelle di altri.

Viceversa la prassi della coerenza esige un’adesione cosciente e però autocentrata del soggetto al contenuto visto e partecipato. Non c’è qui una strategia vera e propria. La coerenza è essa stessa adamantina e trasparente. Siamo ancora nell’assoluta e innocente purezza dell’intenzione e, ciò malgrado, pericolosamente inclinanti verso l’ostinazione soggettivistica della produzione di un comportamento che in sé deve rispecchiare in modo non opaco la chiarezza trascendente dell’idea. Ma in questa volontà di non essere in minima parte opachi, come detto, si genera una prima opacità. L’opacità che per non accettare paradossi, per non accettare di aver bisogno di una salvezza donata, ne produce un altro più grave e distruttivo, quello di sacrificare all’altare della coerenza anche la verità dell’altro. Vale a dire: “Io devo realizzare il Regno che mi è stato rivelato e testimoniato nelle parole e negli atti di Cristo e dei suoi martiri: se qualcuno si oppone al mio intento, si oppone al Regno e quindi va spazzato via con la massima determinazione”.

Questa è la pericolosa svolta di un agire che media la trascendenza nel mondo, assumendo un prospettiva mondana quanto alla possibilità del successo della realizzazione, ma una prospettiva ancora trascendente quanto alla purezza dei contenuti da realizzare45. C’è un’indecisione e un’ incoerenza tra un metodo mondano e un criterio trascendente, che genera la tipica oscillazione dell’uomo agente nel mondo a Deo excitatus, l’oscillazione tra la spietatezza giacobina del suo odio teologico per il nemico che sta di fronte e il mite e dolce abbandono all’amico per il quale ci si dispone ad una oblatività quasi martiriale, quasi perché sottoposta alla riserva della comune militanza nell’“esercito dei santi”.

Mi pare, in sostanza, che qui sia da inserire la vicenda dei Circoncellioni che cercano il martirio e aspirano a realizzare socialmente i contenuti delle promesse divine, e quindi depongono realmente i potenti dai troni e innalzano gli umili, e quindi si scagliano con tutta la forza contro gli eserciti imperiali dichiarando: “Imperium huius saeculi non cognosco”. E tutto ciò fanno a partire da una mistica visione delle cose di Dio che invade i cuori e genera una peculiare ed eversiva follia, una follia che i pagani individuano subito come espressione di un’irriducibile alterità del cristiano rispetto al loro mondo. Nondimeno tale alterità si ferma sulla soglia ultima della desoggettivizzazione totale. Produce cioè un’ermeneutica del martirio, ma non una nuova testimonianza, rispetto ai contenuti della quale si allontana, preferendo il proprio criterio coerentistico piuttosto che l’essere anatema per l’altro, cioè il paradosso della rinuncia totale a sé anche contro la propria idea - elaborata con coscienza integra - di giustizia.

Siamo dunque in presenza di un agire a partire dalla testimonianza, ma già prendendo congedo da essa, in una situazione che rimane pericolosamente ambigua. Si può connotare tale ambiguità già con la ricaduta in una prassi strumentale, secondo quanto abbiamo prima accennato, giacché soggettivamente centrata, e tuttavia non ancora secondo la piena dissociazione tra fini e mezzi. E’ infatti una prassi strumentale, non pura secondo l’intenzione kenotica, ma ancora innocente. E’ il profilarsi dell’innocenza dell’applicazione di una consequenzialità logica chiusa al paradosso dell’altro ma ancora immune da una tematizzazione chiara del significato di ciò che è utilizzabile. Ossia ancora lontana dal vagliare la possibilità di sfruttare la complessità del mondo e la libertà di cui si gode in esso per rendere il proprio agire completamente autonomo, cioè in grado di utilizzare mezzi non coerenti con gli scopi in modo voluto e strategico, piegando la libertà delle cose all’ingiustizia, e depotenziando definitivamente il senso morale del proprio comportamento. Qui invece il fine è ancora legato al mezzo, anche se i significati di ciò che si compie si rovesciano contro le proprie intenzioni, secondo la paradossalità tipica che incontra chi vuole eliminare il paradosso. Dunque la coerenza col Vangelo si rovescia nell’odio del prossimo che si pone oggettivamente contro il Vangelo, in una eterogenesi antievangelica dei propri fini. E nondimeno è mantenuta l’innocenza.

Tale “innocente” ambiguità è all’origine di un’altro singolare fenomeno. Si tratta della forza incorrotta della convinzione che si rende disponibile a entrare nel mondo e lo fa come un autentico schiacciasassi proprio perché nel mondo non ha veri e propri interessi, essendo solamente interessata al Regno. La forza innocente di un’idea pura che ispira una prassi coerente fino alla fine è immensamente potente. In base ad essa i Circoncellioni, armati solo dei loro Israel (bastoni, così chiamati dalla lotta di Giacobbe, Israele, con l’angelo, in Gen 32, 23-29) si scagliavano contro gli avversari religiosi che si affidavano alla protezione della forza organizzata dello Stato. Allo stesso modo, qualche secolo più tardi, durante la crociata dei pezzenti del 1095, le avanguardie di Tafuri, animate dalla predicazione escatologica di Pietro l’Eremita, si gettavano contro i Turchi a mani nude o armate di soli bastoni46. Così anche i contadini di Thomas Müntzer, riuniti nella sua “Lega degli eletti” (1523) o nel suo “Patto perpetuo di Dio” (1524), pure essi ispirati dalla fiducia millenaristica in una prossima instaurazione di un Regno di giustizia, aggredivano i santuari del potere costituito in molti luoghi della Germania prima di essere sterminati dalle varie coalizioni di principi protestanti47. Appare pertanto evidente il prodursi - da un contesto dove un modello ideale e un criterio escatologico di giustizia sembrano trovare lo spazio di un’assunzione immediata e di un’immediata traduzione pratica, disinteressata quanto alle conseguenze delle proprie azioni, se non direttamente attinenti alla totalità e incondizionatezza dell’adesione al criterio stesso - di una forza d’urto storico-sociale-politico-militare notevolissima.

Questa tipologia di prassi sembra tuttavia al contempo strutturalmente incapace di una reale e positiva efficacia storico-sociale-politico-militare, da un lato per l’eterogenesi dei fini di cui prima si è detto e che avviene per lo più in un climax drammatico di violenza, sangue e distruzioni indiscriminate, dall’altro perché la forza che deriva dal purezza della convinzione al contempo sottrae in modo costitutivo e inaggirabile se stessa ad ogni prospettiva strategica e costruttiva. Questa sarebbe propriamente una prospettiva politica che, come tale, fuoriesce dagli orizzonti di una simile concezione dell’agire mondano. Al contrario si verifica qui il caso di un agire impolitico per definizione, capace di avere un forte impatto sullo status quo politico nei termini della generazione di uno specifico conflitto e dell’impiego anche straordinariamente vasto di energie storiche, e tuttavia impossibilitato ad incanalare ulteriormente nella storia tali energie, proprio a motivo del fatto che esse vengono evocate a partire da una trascendenza ideale che si colloca al limitare della storia e nella prospettiva della sua fine prossima. Doppiamente legata alla trascendenza e al mondo, ma prigioniera, nell’interpretare il rapporto fra i due, di una cattiva infinità dell’una e di una cattiva finitezza dell’altro, tale tipologia di prassi fallisce doppiamente sia sul piano dell’imitatio Christi, sia su quello della militia nel saeculum.

Ma accanto a questa modalità, che si affianca a sua volta a quella della prassi martiriale e ne diventa una possibile alternativa o degenerazione, si colloca infine una terza forma dell’agire, quella propriamente politica e secolare.

La politica ovvero una prassi della responsabilità

La politica è il luogo per eccellenza dell’agire strategico e dell’etica della responsabilità. Con questa formulazione si allude ad una morale che si interroga sulla bontà delle conseguenze delle proprie azioni, in opposizione ad una che bada esclusivamente alla corrispondenza di queste con una convinzione relativa a ciò che è giusto e sbagliato in assoluto (etica della convinzione). Sentiamo che cosa ci dice a proposito M. Weber nella sua famosa conferenza La politica come professione : “Dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente e inconciliabilmente opposte: può esser cioè orientato secondo l’ ‘etica della convinzione’ (gesinnungsethisch) oppure secondo l’ ‘etica della responsabilità’ (verantwortungsethisch). Non che l’etica della convinzione coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Non si vuole certo dire questo. Ma vi è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione, la quale - in termini religiosi - suona: ‘Il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio’, e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni”48.

Ciò significa che l’agire politico si colloca sul piano in cui può darsi una certa dissociazione tra mezzi e fini, una dissociazione che va “governata” nella misura in cui bisogna rispondere della possibilità di ottenere un fine buono e della necessità di raggiungerlo attraverso un mezzo sospetto, qual è il mezzo tipico della politica, ossia l’uso della violenza legittima. “E’ il mezzo specifico della violenza legittima, semplicemente, come tale, messo a disposizione delle associazioni umane, quello che determina la particolarità di ogni problema etico della politica”49. Da qui secondo Weber deriva il fatto che chiunque agisca in base ad un fine religioso (etica della convinzione) esce perciò stesso dalla politica. Il guaio, però, nasce quando chi si pone da questo punto di vista religioso o religioso-secolare (nel senso delle ideologie politiche a carattere chiliastico come il bolscevismo) della pura etica della convinzione aspira a realizzare le proprie convinzioni nel mondo a prescindere dal mondo.

Qui non capita solo come ai Circoncellioni di collocarsi all’interno della violenza di un conflitto mondano venendo meno al modello martiriale cui essi stessi si ispiravano. Non c’è solo la conseguenza da noi sottolineata della forza rivoluzionaria di un tale approccio che abbiamo chiamato coerentistico. Weber rivela anche una seconda possibilità, quella di una conversione al mondo che mantiene dei contenuti etico/ideologici professati solo una patina esteriore che serve da mascheramento etico di una prassi totalmente adeguata alle logiche mondane. Così è accaduto al bolscevismo la cui vittoria in Russia Weber aveva potuto constatare e il cui diffondersi in Germania aveva potuto stigmatizzare. Di esso, malgrado la sua iniziale ispirazione alla giustizia sociale universale, il nostro autore coglie con lungimiranza l’inevitabile processo di burocratizzazione con i suoi corollari etici, in una dinamica che lo trasforma in “legittimazione etica della brama di vendetta, di potenza, di bottino e di prebende”50. Analogamente il Dio cristiano, la fede nel quale non presenta caratteri diversi da quella bolscevica quanto alla “convinzione”, a contatto con il demone della politica51 poteva generare quell’impatto eterogenetico di cui l’episodio del Grande Inquisitore dostoevskijano è stata grande testimonianza letteraria e su cui in ogni tempo le critiche alla Chiesa ufficiale si sono con ragione esercitate.

Ora Weber ha solo intravisto quale particolare etica della responsabilità abbiano avuto a cuore i fautori radicali di un’etica assoluta della convinzione, cioè i martiri, laddove la kenosi a favore dell’altro si fa responsabile dell’altro, a prescindere dall’uso più o meno giustificato della forza (nel testo weberiano che abbiamo esaminato non si propone alcuna distinzione tra forza e violenza e forse in ciò sta uno dei suoi punti deboli). Di conseguenza non ha colto in modo sistematico la differenza tra i martiri e i loro “ermeneuti”, cioè tra due modi differenti di adesione all’etica della convinzione: l’uno “responsabile”, sebbene in un senso particolare che trascende le dinamiche politiche, e l’altro totalmente e irrimediabilmente irresponsabile. Nonostante tutto ciò, il fatto di aver adeguatamente segnalato l’autonomia della sfera politica in base ad un approccio che si interroga sulle conseguenze del proprio agire in un contesto di complessità che rende le intenzioni non sempre assiologicamente coerenti con le realizzazioni, e tuttavia di aver egualmente messo l’accento sulla necessità dell’adesione ad una qualche convinzione da parte del politico, rappresenta l’elemento di inestimabile pregio della riflessione del sociologo tedesco.

Infatti egli - dopo aver distinto i caratteri peculiari della “convinzione” e della “responsabilità”, e dopo aver rifiutato un’indebita, dilettantistica e perciò estremamente pericolosa adesione ad un pura convinzione da parte di chi intende agire nel mondo o, viceversa, un’indebita, dilettantistica e perciò pericolosa vocazione alla trasformazione del mondo da parte di chi ha prima aderito con convinzione pura ad un dato ordine di idee altro rispetto al mondo - fa presente la necessità che nel politico convinzione e responsabilità rimangano intimamente legate: “Si rimane profondamente colpiti quando un uomo maturo [...] il quale senta realmente e con tutta l’anima questa responsabilità per le conseguenze e agisca secondo l’etica della responsabilità, dice a un certo punto: ‘Non posso fare diversamente e da qui non mi muovo’. Tale situazione infatti deve potersi verificare in qualunque momento per chiunque di noi non abbia perduto la propria vita interiore. Pertanto l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche, ma si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la ‘vocazione alla politica’”52. In effetti già sin dall’inizio del discorso si era definita la responsabilità come qualcosa che si determina “nei confronti di una causa”53: mancando quest’ultima non può che venir meno anche la prima o, in alternativa, la prima può trasformarsi, il che è peggio, in pura tecnica del potere54.

Ecco, in ultimo, la quarta tipologia di prassi mondana, la pura tecnica del potere, quella che accoglie in modo incondizionato la mancanza di senso che sembra infiltrare un mondo dove fini e mezzi talora si dissociano. Se alla base di tale dissociazione non viene individuata una ragion sufficiente che giustifica la caparbietà e la tenacia nel perseguire comunque un fine buono, e se tutto cade nell’indifferenza, rimane allora solo una tecnica del potere quale saggezza nell’uso dei mezzi per affermarsi nei confronti dell’altro assunto sempre come colui sul quale esprimere la forza coattiva di un’energia intesa a ridurlo al proprio servizio, a proprio vantaggio. Insomma, rimane solo una volontà di potenza le cui radici irriflesse sono ultimamente di carattere biologico: mi affermo non perché affermarsi abbia un senso, ma perché così mi è dato fare a partire dal mio essere immediatamente biologico. Non sempre il cinismo autocentrato e amorale proprio di un simile atteggiamento si presenta in forme chiare e riconoscibili: molto più facilmente assumerà le vesti politicamente corrette di un’etica della situazione, di un indebolimento non-violento di tutti gli imperativi e di tutte le coazioni, di un’apertura romanticamente indefinita ad ogni esperienza e ad ogni comportamento inteso come esplorazione del nuovo e del diverso55. La traduzione politica di tutto ciò diventerà, nel rifiuto di ogni normatività etica dell’agire situabile fuori e oltre l’agire stesso, una responsabilità senza convinzione: un’opzione che, già riconoscibile quale permanente tentazione del politico in tutta la storia dell’umanità, si manifesta oggi essere all’origine di tutto quanto stigmatizziamo come opportunismo, cinismo, arroganza e financo irragionevole crudeltà delle classi dirigenti post-moderne.

Tra due casi seri

Tornando ora alla prassi della responsabilità politica, quella originariamente e indissolubilmente legata ad una convinzione, bisogna proseguire in profondità, cercando, alla luce di quanto si è detto sul senso della testimonianza, di capire la ragione della necessità di tale nesso con la convinzione. Infatti mi pare che la testimonianza possa essere considerata l’espressione più limpida della convinzione e la realizzazione più vera della sua etica. Una testimonianza come narrazione impegnata della verità, come dedizione ad essa esposta e decentrata verso colui che la riceve, al quale la libertà del soggetto liberamente si lega in una tensione intenzionale verso l’azione rappresenta il legame più autenticamente salvifico della responsabilità intesa come prudente attenzione alle dinamiche del mondo affinché l’azione compiuta sia veramente efficace e raggiunga lo scopo. Legame salvifico perché appunto ne impedisce la degenerazione in pura tecnica, in mero destreggiarsi intramondano di una ragione solo utilitaria affrancata nichilisticamente da ogni finalità alta.

Ma nella politica tale legame è reso necessario da un motivo ancora più intrinseco. Si tratta del fatto che la politica ha a che fare in modo esplicito non solo con le logiche mondane, non solo con le relazioni tra gli uomini che vivono tra bisogni legittimi, slanci nobilissimi, miserie egoistiche e tentazioni criminali, ma con il caso serio di tutto ciò, ovvero con la distinzione amico-nemico che per l’appunto ne costituisce il criterio essenziale. Ne Il concetto di politico Carl Schmitt afferma: “La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici è la distinzione amico-nemico [...]. Il [suo] significato è di indicare l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione”56. Tale distinzione restituisce la cifra di autentica relazione umana della relazione politica, una relazione in cui l’individuo esce da sé e con i suoi simili instaura un rapporto sempre instabile, sempre a rischio, perché instabile e a rischio è la natura degli uomini nella quale reclamano uno spazio esclusivo, pur restando sono sempre costretti a convivere, amore e aggressività. E proprio in quest’ultima sta il caso serio, cioè nella possibilità del conflitto, di un conflitto che porti all’uccisione dell’avversario nel momento in cui l’esistenza dell’altro è percepita, più o meno giustificatamente, come alternativa alla propria.

Leo Strauss nelle sue Note al “Concetto di politico”, interpretando la problematica schmittiana della neutralizzazione come ricerca della pace e dell’intesa ad ogni costo, dice: “L’intesa è fondamentalmente da ricercarsi con i mezzi destinati ad un fine già decisamente stabilito, dal momento che sui fini vi sarà sempre conflitto. In effetti non siamo mai in conflitto con gli altri e con noi stessi se non a proposito di quello che è giusto e buono (Platone, Eutifrone, 7 b-d e Fedro, 263 a). Se dunque si considera l’intesa ad ogni costo, non c’è altra via d’uscita che bandire completamente la questione che verte sul giusto, per preoccuparci solo dei mezzi. Si capisce allora perché l’Europa moderna, una volta impegnatasi per evitare lo scontro su quale sia la vera via, nella ricerca di un terreno neutro in quanto tale, sia potuta infine giungere alla fede nella tecnica: ‘La forza evidente della fede nella tecnica, comunemente diffusa ai giorni nostri, proviene semplicemente dal fatto che si è potuto credere di aver trovato in essa il terreno assolutamente e definitivamente neutro [...]’. Ma la neutralità tecnica è solo apparente: ‘La tecnica non è mai solo uno strumento o un’arma e, per il fatto stesso che essa è al servizio di ognuno, non potrebbe essere neutra’ (p. 147). Nell’apparenza di questa neutralità si svela il controsenso del tentativo di trovare un ‘terreno assolutamente e definitivamente neutro’ al fine di ottenere l’intesa ad ogni costo. L’intesa ad ogni costo è possibile solo se l’uomo rinuncia a porre la questione su ciò che è giusto; e se l’uomo rinuncia a porre tale questione rinuncia ad essere uomo. Ma non appena egli ponga seriamente la questione del giusto, allora scoppia, nei confronti della ‘problematica inestricabile’ (p. 147) di questa questione, lo scontro per la vita o per la morte: nella serietà della questione sul giusto, il politico - o meglio i gruppi di umanità che si raccolgono intorno alla coppia amico-nemico - acquista il proprio fondamento di diritto”57.

Ho riportato questo lungo brano perché Strauss pone un accento peculiare sulla serietà del politico in Schmitt, sebbene codesta serietà egli non deduca in modo condivisibile. Infatti, per Strauss, Schmitt “pone il politico”, cioè il conflitto come qualcosa di ineliminabile ma anche di desiderabile, e la sua desiderabilità starebbe nel fatto che il conflitto è sempre in funzione di ciò che è buono e giusto e che la ricerca del buono e del giusto definisce la parte nobile della natura umana. Tuttavia in realtà Schmitt, come mi sono sforzato di mostrare non molto tempo fa58, non pone il politico, cioè non lo ipostatizza come fatto che diventa valore. Egli al contrario rileva una condizione antropologica ineliminabile - la pericolosità dell’uomo, cioè il fatto che le relazioni umane sono attraversate da un residuo resistente di conflittualità - e tuttavia produce uno sforzo di pensiero al fine non di superarla definitivamente (come nelle utopie che coprono l’ampio ventaglio ideologico che va dall’anarchismo al socialismo al liberalismo) ma di relativizzarla attraverso la costruzione di un ordine legato alla concretezza effettuale dei rapporti umani, epperò in grado di umanizzarli ed elevarli rispetto all’immediatezza brutale della tendenza al bellum omnium contra omnes.

Non perché ricerca il buono e il giusto l’uomo entra in conflitto con l’uomo, ma per affermare se stesso a prescindere dal buono e dal giusto, e ciò fa prima di ogni elaborazione culturale e prima di ogni riflessione (e la tecnica, con la sua apparente neutralità, alimenta l’illusione di poterlo fare ). Per questo il politico di Schmitt è das Existentielle nel senso che c’è, si dà, è là, come sostiene giustamente Roberto Racinaro59, un elemento fattual-esistenziale che può essere relativizzato in un ordine (anche Strauss riconosce che l’ultima parola di Schmitt non è “guerra” ma “ordine delle cose umane”60) che è a sua volta politico, perché appunto non elimina il conflitto ma lo espelle all’esterno dalla comunità nel rapporto con altre comunità, un rapporto infine regolato secondo il principio giuridico, anch’esso avente funzione relativizzante, dello justus hostis.

Ma Strauss, come ho detto, ha il merito di aver sottolineato in generale la serietà della questione: il politico è il caso serio dei rapporti umani, ossia un caso che comporta la messa in gioco della totalità dell’esistenza umana, che si espone al rischio della propria fine e di provocare la fine di altre esistenze. Questo caso richiede lo sforzo per costruire un ordine delle cose umane, che sempre si misura sulla possibilità estrema della guerra e della fine.

Ebbene possono il caso serio e tutti i gravosi compiti che ne derivano essere affrontati tramite la discussione? Questa è la domanda che ci porta nel centro della nostra questione relativa al martirio e alla testimonianza come linguaggio.

Juan Donoso Cortés ha fornito al riguardo il contributo, a mio parere, di maggiore rilevanza. Egli ha visto con molto anticipo il tentativo del liberalismo di negare il caso serio: “La scuola liberale domina soltanto quando la società vacilla; il periodo della sua supremazia è quello passeggero fugace in cui il mondo non sa decidersi né per Barabba né per Gesù, sospeso tra un’affermazione dogmatica e una negazione suprema. La società si lascia allora guidare di buon grado da una scuola che non dice mai affermo o nego, ma che in ogni situazione usa la parola distinguo. Principale interesse del liberalismo è di non arrivar mai al giorno delle negazioni radicali o delle affermazioni sovrane; e affinché esso non arrivi, servendosi della discussione confonde i principi e diffonde lo scetticismo, perché sa bene che un popolo che ascolta continuamente dalla bocca dei suoi sofisti il pro e il contro di tutto, finisce col non saper più a che cosa credere e col domandarsi se la verità e l’errore, il giusto e l’ingiusto, l’onestà e l’infamia siano cose fra loro contrarie ovvero siano una stessa cosa osservata da diversi punti di vista. Ma un periodo così angoscioso, per molto che possa durare, è sempre breve. L’uomo è nato per agire e la discussione perenne è nemica delle opere. Verrà il giorno in cui i popoli, sospinti dalla loro indole più violenta, invaderanno le strade e le piazze per chiedere risolutamente Barabba o Cristo, abbattendo nella polvere le cattedre dei sofisti”61. La discussione alla quale i liberali delegano la gestione della cosa pubblica ha in verità un effetto programmaticamente dilatorio rispetto alle cose che richiedono una scelta, e le cose che richiedono una scelta se non raffrenate mediante appunto una chiara presa di posizione, esplodono con violenza, coinvolgendo nello scoppio gli stessi membri della “clasa discutidora”.

Di ciò è perfettamente consapevole Carl Schmitt che nel suo La situazione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo62, un’opera giovanile in cui però sono presenti spunti permanenti della sua riflessione, ha descritto con efficacia il vero e proprio principio spirituale del liberalismo: la fede nella discussione, cioè la fede che la verità sia funzione del dibattito tra opinioni opposte. Il giurista di Plettemberg ha fatto notare che tale fede è costretta a venir meno a fronte della necessità, che prima o poi si presenta in qualsiasi regime politico, di produrre decisioni per affrontare situazioni difficili e rischiose63: “Ma quanto anodini e idilliaci sono gli obiettivi dei gabinetti del XVII e XVIII secolo in rapporto alla posta in gioco di oggi [...]. Di fronte a questa constatazione, la fede nello spazio pubblico alimentata dalla discussione doveva necessariamente sperimentare una terribile disillusione [...] Ma ciò che resiste di meno è forse la credenza che da articoli di giornali, discussioni nelle assemblee e dibattiti in parlamento emergano la legislazione e la politica vera giusta”64. Infatti il parlamento, mano a mano che la politica si riprende i suoi diritti, diventa formalità vuota, camera di compensazione di decisioni che vengono prese fuori dall’ambito previsto per la discussione pubblica. Al massimo può rimanere luogo di confronto e scontro di diverse lobbies sociali, ciascuna pretendente ad un riconoscimento pubblico dei propri interessi privati e ciascuno impegnata nel tentativo di ottenerlo mediante la gestione delle maggioranze parlamentari. Allora, a maggior ragione, il parlamento perde il suo senso originario, e invece di essere il momento più alto della istituzionalizzazione della logica della discussione, ne diviene la sua più patente sconfessione.

A fronte di ciò, l’ostinazione nel voler elevare la discussione a ratio della prassi politica, rappresenta di per sé la volontà di perseguire un programma preciso di depoliticizzazione, nonostante le smentite, o le falsificazioni cui tale programma è andato incontro. Rappresenta la volontà di procrastinare la decisione o, peggio, di dissimularla e di dissimulare l’identità dei soggetti che la prendono, come se il politico potesse così essere esorcizzato nella precisione di una correttezza epistemologica, o di una conoscenza tecnico-empirico-economica capace di esprimere una sorta di autoamministrazione delle cose, immune dalla malattia dell’ostilità. Ma siccome correttezza epistemologica e conoscenze tecnico-empirico-economiche non garantiscono nessuna oggettività, ma si pongono al servizio della volontà più tenace nel perseguire gli obiettivi dettati dalla logica amico-nemico, esse, invece di eliminarla, ne amplificano enormemente gli effetti, mettendo a disposizione dei contendenti l’arma eccezionale dell’oggettività per screditare il nemico e dunque per portare alla massima radicalità il conflitto. Così il caso serio della politica può diventare il caso tragico della guerra di sterminio.

Come può essere governato allora il caso serio della politica? Decisione, rappresentazione, ordine, dice Schmitt, cioè attraverso l’assunzione di responsabilità da parte di un’autorità che, forte della propria capacità decisionale, rappresenti in un progetto concreto e nel suo modo di darvi attuazione, un’idea, una visione del mondo in cui tutti possano riconoscersi e attraverso cui la molteplicità dispersa dei soggetti e dei gruppi che formano la società civile trovi unità e coesione, cioè acceda a quella forma di esistenza più alta che per un popolo è l’esistenza strutturata in una comunità politico-statuale65. Ciò comporta l’estromissione del conflitto, irrisolvibile tramite la terzietà giuridica dello Stato, all’esterno della comunità, luogo dove sarà demandato alla capacità di reciproco riconoscimento tra soggetti collettivi sovrani un’ulteriore forma di relativizzazione del conflitto66.

Per attuare questo progetto di costruzione dell’ordine è necessaria la messa in pratica di tutte le massime dell’etica della responsabilità, come pure del suo nesso con una convinzione perché richiede una strategia di gestione tecnica dei propri progetti, nell’attenzione alla loro efficacia effettuale, e insieme un legame con un modo di idee immateriali, di convinzioni etiche, di concetti normativi (ciò che i neokantiani chiamavano Sollen, dover essere). Dal punto di vista dell’esistenza linguistica degli esseri umani tutto quanto abbiamo sin qui specificato ha il significato di porre ai processi discorsivi un limite che non coincide con l’auspicabilità habermasiana del raggiungimento di un consenso pubblico, possibilità asintotica, come asintotico appare il processo del conseguimento della situazione discorsiva ideale che conferirebbe al consenso l’obiettività epistemologicamente richiesta.

Tale limite è invece costituito dalla possibilità della testimonianza, cioè dal fatto che ad interrompere le dinamiche dilatorie della discussione non sia un argomento vero nel senso di un riscatto discorsivo della pretesa di verità del linguaggio, ma un atto linguistico felice nel senso dell’azione rispondente all’impegno performativo che è stato preso nel proferire l’argomento67. Il nesso costitutivo che ha tale atto felice con l’impegno di una libertà a favore della verità, costituisce già di per sé una mediazione di tale verità nel contesto della vita concreta degli uomini, il farsi visibile pragmaticamente di un modo di valori ideali che esibito socialmente diviene il maggior fattore di giustificazione della decisione politica. Quest’ultima infatti nel suo rompere gli indugi, e nel suo tagliare il nodo di gordio dei differenti argomenti pro e contro, appare fondata da un lato su una necessità empirico-sociologica (la necessità che una decisione sia presa), dall’altro su un nulla normativo (la decisione è necessaria proprio quando non vi è una legge cui riferirsi per prenderla, e quand’anche vi sia, la legge non appaia evidentemente e senza residui applicabile al caso concreto68). Entrambi questi fattori giustificano l’atto ma non il suo contenuto di verità, cioè non rendono ragione della sua giustizia. Che cosa può rendere ragione della giustizia di una decisione? O l’argomentazione, che però è di per sé infinita e non garantita, oppure l’impegno, l’essere disposti a pagare per quella decisione, l’essere disposti a perderci, la scommessa esistenzialmente rilevante e pubblicamente ostensibile sulla sua verità.

Qui veniamo a contatto diretto con quel legame tra responsabilità e convinzione di cui avevamo detto. Infatti proprio nell’ambito politico vanno prese decisioni il cui obiettivo inerisce a quel determinato contesto e che pertanto devono tenere conto delle conseguenze secondo il criterio della responsabilità. Nondimeno esse appaiono non completamente plausibili a partire da quel criterio ma necessitano di un sostegno ulteriore dato dalla capacità di testimoniare idee. La responsabilità può ora attingere alla sfera ideale che le compete, indicata per l’appunto nel contenuto della testimonianza.

Ma nella capacità di testimonianza risiede altresì un elemento propriamente rappresentativo. “Rappresentare è un rendere visibile e un illustrare un essere invisibile per mezzo di un essere che è presente pubblicamente. La dialettica del concetto consiste nel fatto che l’invisibile è presupposto come assente ed è al tempo stesso reso presente”69. Rendere visibile e presente un assenza non allude solamente alle dinamiche dell’autorizzazione hobbesiana o della rappresentanza parlamentare nel liberalismo classico, in cui il popolo come un tutto è reso presente nell’azione del sovrano, sia esso un monarca o un istituzione parlamentare, ma anche ad una sorta di rappresentazione dall’alto in cui ad essere reso presente è un complesso di idee e valori avente rilevanza per il significato complessivo dell’esistenza umana individuale, sociale, politica. A partire da qui si attua quella politica come mediazione su cui un autorevole interprete di Schmitt come Michele Nicoletti ha messo l’accento70. Una mediazione che fa appunto entrare nel mondo un’idea non più come un ospite straniero ma come un ospite necessario affinché il mondo sia abitabile e vivibile spiritualmente e pure politicamente. Infatti senza idee non vi è riconoscimento, non vi sono né obiettivi né etica condivisa, non c’è collante sociale, insomma non vi può essere un ordine politico. Ma le idee non hanno efficacia se sono lasciate là nell’empireo del dover-essere, devono camminare sulle gambe degli uomini, non possono essere solo dette, perché le idee solo dette rimangono assenti, devono essere esperite, cioè rese presenti, o, il che è lo stesso, testimoniate.

Ecco dunque la testimonianza come fattore ineliminabile della politica, anche di quella politica quotidiana fatta di scelte non sui massimi sistemi, né su questioni di vita o di morte, ma sulla concreta gestione di una convivenza civile che nelle piccole cose verifica l’esistenza e la tenuta di un ordine politicamente concreto.

Una volta recuperato anche quest’ultimo senso della testimonianza, rimane ancora un passo da compiere: domandarsi se vi sia, ed eventualmente quale sia, la relazione che si instaura allora tra la testimonianza rappresentativo-politica e il martirio.

Il martirio è il caso serio, lo abbiamo visto all’inizio nelle parole di von Balthasar, di una testimonianza che è a sua volta il caso serio del linguaggio. Diciamo allora che il martirio è la massima serietà, perché appunto è l’impegno di tutta la vita, la messa a disposizione della vita per la verità. Tale atto si riconosce per il suo essere kenoticamente a favore dell’altro. Infatti non vi può essere verità contro qualcuno, perché la verità deve essere la realizzazione del massimo bene per tutti.

In sé il martirio è una testimonianza portata alla massima radicalità. L’atto del martirio ha la medesima qualità dell’atto testimoniale, ma un grado di perfezione completo. Così la testimonianza nel martirio giunge alla pienezza di sé. In particolare la testimonianza politica nel martirio purifica se stessa fino a depurarsi di ogni strumentalità, diventa ancora quella pura convinzione totalmente dedita di cui ogni tanto la politica ha bisogno per emendarsi dal continuo quotidiano commercio con la strategia e con l’interpretazione che si allontana dall’origine. Di politico il martirio mantiene solo un riferimento estrinseco, mantiene solo il punto di partenza, diremmo l’occasione, mentre l’agire diviene l’incondizionato donarsi nelle mani dell’assoluto. Un atto, questo, che è per sua natura extramondano, ossia che esce dalle logiche del mondo, eppure mantiene con il mondo (della politica in particolare) un nesso peculiare. Esso è la possibilità latente della politica, quando, esausta, voglia ritrovare il suo significato o, meglio, sia costretta a farlo, giacché quando la politica smarrisce il suo senso ideale, perde anche la sua capacità di generare un ordine tra gli uomini. La forma politica allora invecchia, si ammala e sopravvive solo come pura artificialità, mostrando i suoi lati peggiori (corruzione, autoritarismo, proliferazione di potentati extrastatali, decomposizione sociale, latente guerra civile etc.).

Invece solo e solo se la politica mantiene il suo collegamento virtuale ma ogni volta accessibile con il martirio, essa mantiene il suo collegamento con l’essenza della convinzione da cui ogni convinzione deriva e dunque mediante la rappresentazione/decisionale/testimoniale preserva la possibilità di affrontare adeguatamente il suo caso serio, cioè il caso dell’ostilità da contenere e moderare in un ordine. Solo se rimane ancorata a una siffatta possibilità estrema non perde il contatto con ciò che, a fronte del caso serio, costituisce un permanente serbatoio di senso e una permanente via di salvezza. Ecco allora formulazione di una possibile legge che governa l’intera disciplina: il caso serio può essere affrontato adeguatamente solo attraverso il caso serio. Ciò significa che la possibilità di essere uccisi e di dare la morte nella guerra guerreggiata, quale destino estremo e tragico della politica, trova il suo felice controbilanciamento nella possibilità di offrire la propria vita a favore dell’altro nel martirio. La morte può essere vinta con la morte. La morte procurata con la morte accettata. La spada con la croce. A me pare che sia questo il significato ultimo del rapporto tra martirio e politica.

Martiri politici

Per non rischiare di apparire astratti possiamo inserire in fase conclusiva alcuni esempi di come lo schema interpretativo qui abbozzato possa essere applicato a casi concreti. Il primo caso concreto che mi viene in mente non è un caso storico. Infatti attiene ad un brano testé citato di Weber in cui l’Autore manifesta la sua approvazione per l’eventualità che un uomo politico in un frangente eticamente rilevante della sua attività dicesse: “Non posso fare diversamente e da qui non mi muovo”, intendendo con ciò la determinazione a non rinunciare ad principio creduto in coscienza vero e non negoziabile. Questa frase mi ha molto impressionato, perché potrebbe benissimo essere messa in bocca ad un martire cristiano dei primi secoli cui fosse stata rivolta l’ingiunzione di sacrificare all’imperatore. E in effetti non possiamo stabilire a priori le conseguenze di un’affermazione del genere in un soggetto con responsabilità politiche. A volte, in determinate circostanze, già peraltro abbondantemente verificatesi nella storia, un atteggiamento simile potrebbe costare la vita al politico. E qualora alla sua base vi fosse la volontà di astenersi dal commettere un male, oppure la volontà di difendere un bene si avrebbe il caso tipico del martirio. Un caso che si è verificato per esempio con Thomas Becket, la cui volontà di difendere lo ius Ecclesiae e l’honor Dei (secondo le formule da lui usate) cui attentavano le leggi volute da Enrico II d’Inghilterra gli procurarono la morte.

Martirio non vi è, al contrario, in tutte le situazioni in cui un soggetto prende le armi a difesa di una causa. Non si dice questo in base ad una sorta di pacifismo radicale estraneo totalmente a chi scrive, ma per sottolineare il fatto che colui che innesca una lotta, indipendentemente dalla causa, si pone in una logica terrena che necessariamente spartisce con l’avversario la ragione. Infatti una causa giocata in un conflitto è una causa politica e nelle cause politiche appropriarsi della verità è il più grande peccato, perché invece di ridurre la portata dello scontro ne incrementa la crudeltà. Cioè in un conflitto, più ne aumenta l’intensità, più la verità diviene funzione del conflitto, e più lo diventa, più il conflitto si esaspera ulteriormente, perché l’essere dalla parte della verità legittima ogni comportamento, anche il più spietato. Dunque per evitare che la verità, assumendo il ruolo di fattore esasperante di una lotta, contraddica totalmente sé stessa, è necessario dividerla equamente con il nemico, che così diventa, ipso facto, justus hostis. Essa, dicevo, va spartita equamente nel senso che ne va concessa al nemico in quella misura tale da permettere di combatterlo senza odiarlo e di batterlo senza sacrificarne la dignità di uomo. Ma anche così la verità viene sottoposta ad una specie di torsione che ne sacrifica, sotto il segno di una pur parziale contraddizione vissuta nello scontro con il nemico giusto, la qualità di incorrotto criterio della vita degli uomini. Prendere le armi è un gesto che pone l’azione non nell’ambito del martirio, ma in una delle altre tre modalità di prassi.

La prima è quella dell’atteggiamento coerentistico, che non tiene conto di quanto appena detto e vuole mantenere la purezza della convinzione pur nella lotta. Ciò degenera immediatamente nella teologizzazione della lotta stessa, in cui precisamente per voler ritenere, secondo l’erratissima e pericolosissima definizione di Leonardo Bof, la propria parte come fautrice della “realizzazione della politica di Dio nella storia”71, ci si sente investiti di una missione redentrice che il più delle volte finisce nel terrorismo indiscriminato o, quando vittoriosa, nell’ l’istituzione di campi di concentramento per il nemico72.

Se ne ha esempio lampante in questo proclama tipico della politica di Dio. Ne riportiamo un estratto che possiede grande capacità esplicativa: “Purifica il tuo cuore e liberalo da ogni cosa terrena. Il tempo [...] dello spreco è finito. Il tempo del giudizio è arrivato. Dobbiamo quindi usare queste poche ore per chiedere perdono a Dio [...] Dopo comincerai a vivere una vita felice, il paradiso infinito. Ricorda sempre [...] che desidereresti la morte prima di incontrarla se solo conoscessi la ricompensa che esiste dopo la morte. [...] Ricorda [...] che se Dio ti sostiene, nessuno potrà sconfiggerti. [...] Continua a pregare: [...] O Dio aprimi tutte le porte. O Dio che rispondi alle preghiere e rispondi a coloro che ti invocano, ti prego di aiutarmi. Ti prego di perdonarmi. Ti prego di illuminare la mia via. Ti prego di alleggerire il peso che sento. Dio, ho fiducia in te. Dio, mi metto nelle tue mani. Ti prego, con la luce della tua fede che ha illuminato il mondo intero illuminando ogni oscurità su questa terra, di guidarmi finché non mi approverai. E quando lo farai, questa sarà la mia ultima meta. Non c’è altro Dio che Dio. Non c’è nessun Dio che sia il Dio del trono più alto, non c’è altro Dio che Dio, il Dio della terra e del cielo. Non c’è altro Dio che Dio e io sono un peccatore: siamo di Dio e a Dio torniamo”. Questa, che sembra una preghiera innocente, per quanto accorata, non è stata scritta da Policarpo prima di essere deposto sul rogo né da Tertulliano ai confratelli in carcere, ma è una sorta di antologia della “lettera di cinque pagine che gli agenti dell’FBI hanno trovato tra le cose abbandonate da Mohammed Atta prima di imbarcarsi sull’aereo che lo avrebbe portato a schiantarsi sulle Twin Towers”73.

L’unico collegamento tra la premessa in queste parole e le conseguenze nell’uccisione di duemila e passa innocenti sta nell’accecamento prodotto della satanizzazione del nemico e dalla propria anticipata autoglorificazione politica, secondo l’idea di una forzata coerenza tra cielo e terra. Tutti i messianismi secolari del XIX-XX secolo hanno fatto ciò. Il nazismo ha avuto nei Werwolf i suoi Circoncellioni74; il comunismo li ha trovati nelle varie sue avanguardie più o meno terroristiche e nelle varie Volanti rosse, l’anarchismo nei famosi opuscoli di Nečaev e Bakunin nei quali si diceva: “Non riconosciamo altra attività fuorché l’opera dello sterminio” e nella concreta attività terroristica con cui il primo ambì a dare realizzazione ad una “missione [interpretata] come una guerra santa in cui il male doveva essere distrutto per purificare il mondo e preparare la strada al regno dei cieli sulla terra”75. Non bisogna in ultimo dimenticare il messianismo politico che gli Usa hanno ereditato dai Pilgrim Fathers, che oggi appare essere l’unico sopravvissuto insieme a quello dei suoi avversari islamico-fondamentalisti e i cui templi tristemente noti sono Guantanamo e Abu Gharib76.

La seconda modalità di prassi in cui ricade chi prende le armi è quella che abbiamo citato all’inizio del nostro ragionamento e che spartisce la verità con il nemico secondo la logica della responsabilità delle proprie azioni.

La terza è quella cinica e post-moderna nella quale le armi vengono imbracciate per favorire i guadagni delle multinazionali, senza responsabilità, senza etica. Gli effetti di tale logica non sono i più gravi storicamente parlando, anche perché il puro cinismo non esiste, ma i più irrecuperabili dal punto di vista umano.

Viceversa un caso a mio parere emblematico di martirio politico, in cui si assiste ad una tipica purificazione della causa e all’adesione cosciente ad una forma di testimonianza kenotica esemplare è stato quello di Bobby Sands e dei suoi nove compagni dell’Ira, morti a seguito di uno sciopero della fame in un carcere inglese nel 1981 per protestare contro le condizioni di detenzione e a favore dell’indipendenza e della dignità degli abitanti dell’Irlanda del Nord. Bobby Sands apparteneva ad un’organizzazione che aveva interpretato la propria lotta come una guerra di liberazione contro il nemico inglese, straniero e oppressore politico e religioso. Quindi, per principio, si suppone che non avesse disdegnato le armi, anche se non è detto che chi non disdegna per principio le armi poi le debba obbligatoriamente usare. In ogni caso in carcere egli si decide per una forma di lotta non violenta che pone, con un prolungato sciopero della fame, il proprio corpo, non l’altrui, al servizio della causa della libertà irlandese. Scontrandosi con l’ostinazione, il cinismo e l’arroganza delle autorità carcerarie e politiche inglesi, Bobby Sands decide di non mollare e si lascia morire, bagnando con il proprio sangue l’aspirazione alla libertà del proprio popolo77.

Ebbene, una causa così nobilitata diviene la causa di tutti, dei propri amici e dei propri nemici, di tutti gli uomini che ritengono il dono di sé un modello di vita più che eroico, perché ha dell’eroismo lo sprezzo del pericolo e la forza della volontà, ma a ciò aggiunge la capacità di comunicare un bene universale che eleva l’umanità di chiunque vi si accosti con animo non preconcetto, il bene dell’incommensurabilità della libertà individuale, collettiva e religiosa rispetto alla stessa vita che solo da tale libertà riceve senso e dignità. In tale bene, anche se non fosse inserito in un esplicito sfondo religioso, come lo era nel personaggio in questione, che combatteva anche per la libertà dei cattolici, si sente risuonare l’eco di una grazia superiore che unisce il suo destino a quello dei martiri della fede in virtù della capacità della prassi di evidenziare un chiaro riferimento cristologico. In Bobby Sands la politica lascia via via spazio ad un bene assoluto che è in sé e per sé cristiano, e la lotta per la causa del suo popolo al martirio a favore dell’uomo.

E’ nella possibilità sempre latente di questa purificazione che la politica trova la sua alta giustificazione, cioè nella possibilità di una spoliticizzazione non verso il basso di una mediazione neutralizzante rispetto al giusto e al buono, per dirla con Strauss (e con Schmitt), ma di un eguale processo che si elevi verso ciò che abbiamo chiamato un bene universale mediante il quale alla fine si giunga, quand’anche implicitamente ma comunque radicalmente, a confessare that Jesus is the Christ78. Un bene nei confronti del quale scompare ogni volontà di potenza e grazie al quale ciascuno può accedere alla propria liberazione. Un bene, infine, che non riconduce ad una politica governata da una libertà che esprime sovranità sull’altro, ma ad una scelta che, a partire dalla propria sovranità, la mette al servizio dell’altro e consuma nello splendore di una fiammata istantanea e universale ogni volontà di potenza, introducendo ogni uomo all’immagine chiara e anticipatrice dell’impolitico e definitivo Regno di Dio.

Qui la politica si purifica nella mistica. Ma ogni mistica ha un reditus, ogni percorso mistico ha una dimensione posteriormente effusiva79. Ciò che si effonde a partire dal martirio è l’immagine del Regno come possibilità, come sfondo e come criterio differenziale della politica. In effetti è laddove la politica si rende capace di abbandonare se stessa per avviarsi sulla strada della testimonianza assoluta e della purezza kenotica della convinzione che emerge la natura assoluta dello sfondo di significazione di ciò che è politico, cioè l’idea di un Regno definitivo di giustizia che come tale alla politica non è accessibile e che nondimeno rimane parte integrante del suo orizzonte. Solo nell’evocazione di tale sfondo la politica ritrova la sua vera identità penultima, il che equivale a dire il suo vero significato katéchontico. E’ nell’essere katéchon, cioè forza storica che trattiene il mistero dell’iniquità dalla sua finale manifestazione e si consegna alla Fine come una forza che deve essere spazzata via (secondo l’espressione 2Ts 2,6-7), cioè come forza che testimonia la sua missione fino alla propria consumazione, cioè ancora come forza che sullo sfondo della propria Fine, quale passo ad essa introduttivo, trova il proprio martirio, che si determina l’identità profonda destinale della politica. Ma tramite questo sfondo, inteso come criterio differenziale, si può recuperare anche il senso di una riserva escatologica critica e rivoluzionaria che la teologia politica sviluppata tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del secolo scorso ha cercato di approfondire80.

Infatti il gesto del martirio è come tale eversivo verso le logiche del mondo. Nella sua purezza kenotica testimonia l’assolutamente altro. Ora, una teologia politica consapevole deve avere ben presenti le conseguenze politiche di tale gesto81. Cioè la possibilità che esso stravolga e metta in crisi le forme politiche consolidate e produca un loro rinnovamento. Ciò attraverso le energie spirituali, intellettuali e morali che il martirio sa e può mobilitare, cui un potere, per quanto forte nella sua legittimazione mondana, difficilmente può resistere. Questa è una forza che può essere giocata, come prima s’è detto, nella logica di un innocenza coerentistica e dare origine ad una ribellione effimera, per quanto radicale. Oppure può essere affidata alla responsabilità politica, che opera con coscienza del peculiare e paradossale rapporto fini-mezzi che agisce nella realtà mondana. In tal caso potranno essere adeguatamente e prudentemente orientate e impegnate nel mondo le forze che il martirio risveglia, proprio grazie alla consapevolezza della differenza tra il criterio e il luogo della sua applicazione. Grazie alla coscienza che il criterio, in virtù della sua stessa esistenza, distingue tra piani ontologici diversi e così facendo, però, li rende passibili di un rapporto fecondo, è possibile salvare il martirio dal campo della pura testimonianza già collocata nella trascendenza, salvando al contempo la politica da distruttive ambizioni all’immanentizzazione del Regno. Così l’energia liberata dal martire sarà messa a disposizione della responsabile costruzione di un progetto politico e di una forma alternativa a quelle esistenti che ritenti, dopo il loro fallimento, un possibile ancoraggio alla giustizia. Possibile ma, ancora una volta, destinato alla fine senza avere centrato il bersaglio, come tutti i katéchontes che nella storia hanno tragicamente svolto il loro compito lasciando a Dio il privilegio di portarlo a termine.

Massimo Maraviglia

1 Origene, In Johannem, II, 210, in R. Fisichella, s.v. Martirio, in R. Latourelle – R. Fisichella, Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi, 1990, pp. 669-682, qui p. 671.

2 Agostino, Enarrationes in psalmos, 34.

3 A. Louth, s.v. Martirio, in J.-Y. Lacoste, Dizionario critico di teologia, Borla-Città Nuova, Roma – Assisi, 2005, pp. 814-816, qui p. 814.

4 R. Fisichella, s.v. Martirio, cit., p. 670. A tale proposito bisogna registrare la differente opinione di M. Rizzi, Martirio cristiano e protagonismo civico: rileggendo Martyrodom & Rome di G.W. Bowersock, “Humanitas” 57 (2002), pp. 96-107, secondo il quale accanto al martirio inteso come versamento di sangue ve n’è uno che non lo esige necessariamente ma lo contempla solo come possibilità. Ciò comporta un rafforzamento della tesi del Bowersock del martirio come gesto di protagonismo sociale (ed ecclesiale), laddove proprio veniva a configurarsi la possibilità di un permanenza in vita del martire e della fruizione da parte sua della ricaduta in termini di autorità e prestigio intraecclesiale della disponibilità al sacrificio. Rizzi, di fronte a ciò, afferma anche l’esistenza di un martirio segreto, in cui il testimone raggiunge una perfezione ancor più grande, compiendo il suo gesto di estrema coerenza con le proprie idee, “sottraendosi ad ogni sguardo dell’uomo e, con ciò stesso, anche ad ogni pragmatica sociale” (p. 106). Ci si domanda tuttavia se, in questo caso, venendo meno la dimensione pubblica della testimonianza, non scompaia uno dei suoi caratteri costitutivi , e così la purificazione totale dell’atto del martirio non si trasformi in una sua nullificazione.

5 S. Tromp, De revelatione christiana, Roma, 1950, p. 348, in R. Fisichella, s.v Martirio, cit., p. 677.

6 Catechismo della Chiesa cattolica, 2473.

7 Ivi, 2474.

8 H. U. von Balthasar, Cordula ovverosia il caso serio, tr. it. di E. Giammancheri, Queriniana, Brescia, 1968, p. 24.

9 Ivi, p. 26.

10 Ivi, p. 27.

11 Ivi, p. 29.

12 “Quia tolerare mortem non est laudabile secundum se, sed solum secundum quod ordinatur ad aliquod bonum quod consistit in actu virtutis, puta ad fidem et dilectionem Dei”, Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 124, a. 3.

13 K. Rahner, Sulla teologia della morte. Con una digressione sul martirio, tr. it. di L. Marinconz, Morcelliana, Brescia, 1965, p. 82. Il tema qui trattato riguarda, mutatis mutandis, la medesima questione su cui si concentrerà la forte critica balthasariana al “cristianesimo anonimo” condotta in Cordula, cit., pp. 133-144. Rahner afferma che noi siamo vincolati all’ordine storico della salvezza per produrre una decisione che ci inserisca nell’ordine sovrannaturale, ma non lo sono Dio e la sua volontà salvifica universale. Così non è possibile escludere che un individuo, a prescindere dalla sua condizione fattuale e dalla sua lontananza dal cristianesimo storico, possa giungere in libera decisione ad un atto soprannaturale e così alla salvezza. Infatti l’ uomo “(se giunge liberamente alla decisione di se stesso) è sempre capace di una fides virtualis, vale a dire di un intimo atteggiamento di fronte a Dio, che moralmente è della stessa specie della vera e propria fede, e quindi , innalzato dalla grazia interna, può essere pure un atto salvifico e (se non viene rifiutato liberamente) come tale esiste” (K. Rahner, Sulla teologia cit., p. 86). Malgrado la pregnanza della critica balthasariana, il legame implicito che qui si sta tentando di esplicitare tra fides virtualis e martirio presente nel testo di Rahner, ne mina le fondamenta, tutte giocate sull’alternativa tra cristianesimo anonimo e assunzione martiriale della croce di Cristo

14 Ivi, p. 96.

15 Ibidem.

16 In E. Castelli (cur.), La testimonianza, Cedam, Padova, 1972, pp. 35-61

17 Ivi, p. 43.

18 Ivi, p. 54.

19 Non si può qui non rimandare alle ricerche di Austin sul carattere performativo del linguaggio - cfr. sul tema il lavoro estremamente interessante di A. Sacco, L’ideale filosofico di J. L. Austin, decisioni e ri-orientamenti metodologici, in http://www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico/dodeca/asaustin/copertina.htm - e a quelle di J. Searle sugli atti linguistici, cfr. J. Searle, Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, tr. it. di G. R. Cardona, Bollati Boringhieri, Torino, 19922; cfr. anche M. Sbisà (cur.), Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, Feltrinelli, Milano, 1988.

20 Cfr. J. Habermas, Was heißt Universalpragmatik? in Vorstudien und Ergänzungen zur Theorie des kommunikativen Hendelns, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 19893, pp. 353-440, qui pp. 354-355, cit. in S. Petrucciani, Introduzione ad Habermas, Laterza, Roma-Bari, 200, p. 80, ma anche Vorlesungen zu einer sprachtheoretischen Grundlegung der Soziologie , in Vorstudien cit., pp. 11-126, qui pp. 110-111.

21 È l’esempio di Habermas in Teoria dell’agire comunicativo, tr. it. di P. Rinaudo, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 418.

22 “Definisco ideale una situazione linguistica in cui le comunicazioni non sono impedite non soltanto da interventi contingenti esterni, ma neppure da costrizioni che si originano dalla struttura stessa della comunicazione. La situazione linguistica ideale esclude la sistematia distorisione della comunicazione”: J. Habermas, Discorso e verità, in Agire comunicativo e logica delle scienze sociali, tr. it. di G. Bonazzi, Il Mulino, Bologna, pp. 319-343, qui p. 337.

23 Cfr. le condizioni ideali di validità dell’argomentazione in Discorso e verità cit., pp. 337-338.

24 Fornisco questo esempio letterario, in cui tale consapevolezza emerge seppur in un quadro ironico e precisamente nel quadro dell’effetto amaramente ironico che il narratore produce raccontando le vicende tragiche di un moribondo: “Ivan Il’jič vedeva che stava morendo, ed era in uno stato di disperazione continua. In fondo alla sua anima sapeva che stava morendo, ma non riusciva lo stesso ad abituarsi a quest’idea; non solo, non riusciva a capirla, non ci riusciva assolutamente. Il sillogismo elementare che aveva studiato nel manuale di Kizevetter: Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale, per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso. Un conto era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri; era stato il piccolo Vanja, con la mamma, il papà, Mitja e Volodja, i giocattoli, il cocchiere, la governante e poi Katen’ka, e tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi, dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza. Aveva mai sentito Caio l’odore del pallone di cuoio che il piccolo Vanja amava tanto? Aveva mai baciato la mano alla mamma, Caio, e aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai strepitato tanto per avere i pasticcini quando andava a scuola? E Caio era mai stato innamorato? E Caio sapeva forse presiedere un’udienza in tribunale?Caio è mortale, certo, è giusto che muoia. Ma per me, per me, piccolo Vanja, per me, Ivan Il’jič, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, per me è tutta un’altra cosa. Non può essere che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile”: Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’jič, tr. it. di G. Buttafava, Garzanti, Milano, 1981, p. 53.

25 Che Habermas critica perché la definizione di verità come corrispondenza del concetto alla realtà non permette di uscire da una “definizione circolare e tautologica: gli enunciati veri sono quelli che corrispondono alla realtà, ma la realtà non è altro che ciò che viene descritto dagli enunciati veri” (cfr. S. Petrucciani, Habermas, cit., p. 88). Salta agli occhi, tuttavia, che la seconda parte dell’affermazione è inesatta, perché la realtà eccede le possibilità di enunciazione del linguaggio. Se così non fosse ci sarebbe indubbiamente una circolarità tra linguaggio e realtà che permetterebbe di abbandonare la seconda. Con il risultato che il test di realtà risulterebbe alfine inutile e il concetto di verità, così come è stato formulato, perderebbe senso. In realtà qui è però in gioco la dimensione della riscattabilità discorsiva della pretesa di validità di un’affermazione. Già Habermas nota che non tutte le pretese di validità sono riscattabili discorsivamente, ma quella relativa alla sincerità si riscatta solo nel confronto tra parole e azioni (cfr. J. Habermas - N. Luhmann, Teoria della società o tecnologia sociale, tr. it. di R. Di Corato, Etas Compass, Milano, 1973, p. 88). Orbene qui si vuole insistere sul fatto che, essendo tutte le formulazioni argomentative degli atti linguistici, in essi l’aspetto pragmatico non si lascia esaurire sul piano puramente discorsivo o dibattimentale, bensì comporta anche la possibilità di vagliarne la felicità, intendendo con essa proprio il confronto tra l’impegno preso attraverso l’atto linguistico e il comportamento che ne deriva, ciò che J. L. Austin indicava con l’aspetto dell’ “essere in regola” dell’atto linguistico cioè del compiersi in una prassi ad esso coerente (cfr. J. L. Austin, Performativo e constativo, in M. Sbisà (cur.), Gli atti linguistici cit., pp. 49-60, qui pp. 50-51). Quindi tutte le pretese di validità e tutti gli argomenti a loro sostegno, come atti linguistici, si espongono a questo esame circa la felicità o l’infelicità. La tesi che qui si sostiene è che la testimonianza lo fa in modo peculiarmente esplicito: in ciò sta gran parte della sua forza persuasiva.

26 Ivi, p. 99.

27 D. Silvestri, La testimonianza, “Dialeghesthai”, www.mondodomani.org

28 W. Pannenberg, Questioni fondamentali di teologia sistematica, tr. it. di D. Pezzetta, Queriniana, Brescia, 1975, p. 230.

29 In modo conforme alla convinzione ricoeuriana che “il linguaggio non è in se stesso un mondo; è assoggettato ad un mondo e rinvia ad un mondo”: P. Ricoeur in O. Rossi, Introduzione alla filosofia di Ricoeur. Dal mito al linguaggio, Levante, Bari, 1984, appendice “A colloquio con Ricoeur”, p. 169.

30 Alludo al famoso passo del Faust I, 1223-1237, in cui il protagonista, poco prima dell’apparizione di Mefistofele, assistito dallo Spirito giunge a tradurre Gv 1,1 con la frase “In principio era l’azione” (“Im Anfang war die Tat”), istituendo una relazione concettualmente strettissima tra parola e azione.

31 L’idea di Gadamer della testimonianza come affermazione, nella quale il linguaggio esce dalla sua connotazione apofantica ossia dalla semplice “manifestation de son prope contenu”, acquisendo una diversa “variété de fonctions existentielles”, si colloca perfettamente in quanto s’è qui tentato di esporre (cfr. H.G. Gadamer, Témoignage et affirmation, in E. Castelli, La testimonianza cit., pp. 161-165, qui p. 161, cfr. anche supra nota 25.

32 Per il teologo svizzero il tema della croce evocato nell’inno kenotico di Fil 2,5-11 (“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù/ il quale pur essendo di natura divina,/ non considerò un tesoro geloso/ la sua uguaglianza con Dio;/ ma svuotò sé stesso (eautòn ekénosen, n.d.r.),/ assumendo la condizione di servo/ e divenendo simile agli uomini;/ apparso in forma umana,/ umiliò se stesso/ facendosi obbediente fino alla morte di croce...” istituisce un preciso rapporto di causa-effetto tra kenosi e crocifissione tanto che “tutta la sua [di Gesù Cristo, n.d.r.] esistenza fino alla croce è in quanto tale determinata in senso kenotico-funzionale”: H. U. von Balthasar, Mysterium Paschale, in J. Feiner - M. Löhrer, Mysterium salutis, vol. VI: L’evento Cristo, Queriniana, Brescia, 1971, pp. 171-412, qui p. 238. D’altronde, da un punto di vista meramente esegetico, Jeremias vede nella medesima locuzione “svuotò se stesso” un riferimento chiaro alla morte di Gesù attraverso Is 53,12: “Svuotò la sua vita nella morte”: cfr. G. Barbaglio, Le lettere di Paolo, vol. II, Borla, Roma, 19902, p. 569. Così viene istituito un legame strettissimo tra incarnazione e passione, esprimendo il concetto che la passione inizi quasi con l’incarnazione.

33 D. Silvestri, La testimonianza, cit.

34 V. Mathieu, Testimoniare attraverso l’assurdo, in E. Castelli (cur.), La testimonianza cit, pp. 167-171, qui p. 168.

35 Cfr. C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano, 19883, p. 101: “Il sistema dei nomi tappezza di specchi la stanza della miseria individuale, pei quali mille volti e sempre avanti infinitamente la stessa luce delle stesse cose in infiniti modi è riflessa”.

36 Con ciò intendo evidentemente escludere la possibilità che gli atti dannosi al prossimo possano essere considerati giovevoli ad una sua salvezza, da collocarsi su un altro piano ontologico: non puoi considerare l’uccisione di una persona un mezzo per salvarle l’anima (questo è il caso estremo, ovviamente).

37 Cfr. R. Cacitti, “Vae tibi saeculum”. Il contrasto tra regno e cosmo nelle visioni dei martiri paleocristiani d’ Africa, in P. Bettiolo - G. Filoramo (curr.), Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, Brescia, Morcelliana, 2002, pp. 163-192.

38 R. Cacitti, Furiosa turba. I fondamenti religiosi dell’eversione sociale, della dissidenza politica e della contestazione ecclesiale dei Circoncellioni d’Africa, Edizioni biblioteca francescana, Milano, 2006, p. 39.

39 Cfr. Ivi, p. 65.

40 Cfr. Ivi, p. 139.

41 Cfr. ivi, pp. 89-90.

42 In realtà su tale argomento, alludendo ad una forma di suicidio, mi dissocio da Cacitti il quale, precisando la dimensione mimetica in cui accadevano gli episodi in questione, conclude che “il rapporto fra Marculo e i Circoncellioni è dunque analogo a quello tra magister e discipuli. Per cui [...] pare del tutto improprio parlare, a proposito del costume [dei Circoncellioni] di gettarsi nel vuoto, di suicidio, dal momento che il gesto costituisce, a imitazione di quello di Marculo, una sorta di anticipazione del volo cosmico che, sulle ali degli angeli, consente al martire l’ingresso nel Regno dei Cieli”, ivi, p. 94.

43 V. Mathieu, Testimoniare attraverso l’assurdo cit., p. 169.

44 Sul senso cristiano del paradosso cfr. H. de Lubac, Nuovi paradossi, tr. it. di G. De Dominicis, Paoline, Alba, 1957: “Il paradosso può essere rappresentato come il rovescio di qualche cosa , il cui dritto sia la sintesi. Ma il dritto sempre ci sfugge. L’arazzo meraviglioso che ciascuno di noi contribuisce a tessere con la sua esistenza non può essere ancora abbracciato con lo sguardo. Per i fatti come per lo spirito, la sintesi non può essere che oggetto di continue ricerche: quamdiu vivimus, necesse habemus semper quarere. Il paradosso è appunto ricerca o attesa della sintesi. provvisoria espressione di una veduta sempre incompleta, orientata, tuttavia , verso la pienezza” (pp. 9-10). Tale accezione de paradosso, come espressione di una verità mai completamente dominabile e abbracciabile con lo sguardo, coincide pienamente con quella accolta in questo scritto.

45 Leggiamo a tal proposito, con un salto di più di un millennio e mezzo rispetto alle situazioni che abbiamo sin qui analizzato, le parole assai indicative, per consonanza di temi e di ispirazione, di padre Alejandro Mayol, scritte in memoria di padre Camillo Torres Restrepo, cattolico rivoluzionario colombiano ucciso mentre partecipava alla guerriglia contro i poteri costituiti del suo paese: “Profeta è l’uomo che vive in funzione di un futuro Assoluto. Un più in là di tutto che conosce quello che avviene nell’al di qua. È condannato a non essere contento. Sa che il vero Dio lo ha posto davanti all’uomo come Pastore della Storia e vuole che lo accompagni fino alla consumazione. Deve portare il presente fino al finale e fare in modo che ogni presente assomigli ogni volta di più a quello finale. Fare in maniera che si incarnino in ogni tempo i valori assoluti dei quali è testimone. La sua passione è il movimento degli esseri e delle cose verso l’ultimo obiettivo. Per questo il suo clima è il cambiamento. Il Profetismo è l’antidoto dell’immobilismo e dell’inerzia [...] Il Profeta [...] comprende che il fermento del movimento sta negli scontenti, nei poveri. Attraverso di essi passa il piano di Dio, essi sono i portatori della speranza, essi sono le guide del senso della Storia, in essi ha radice la spinta che muove il processo verso il Futuro Assoluto. Sono i possessori del Mistero del Dio vivente”: A. Mayol, Camillo, fratello mio, in G. Vaccari (cur.), Teologia della rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 1969, pp. 19-28, qui p. 22. Da tale prospettiva trascendente del Futuro Assoluto emerge una specifica prassi i cui effetti vanno constatati, senza ulteriori “modificazioni” e “compromessi”, nell’immanenza sociale e politica, con il riscatto senza condizioni né residui delle masse dei poveri e degli indigenti. Ciò fa dire a Isabel Torres de Restrepo, madre di Camillo, all’indomani dell’uccisione del figlio: “Sono una cristiana violenta, come lo fu Cristo, e ora sono più cristiana che mai. Mio figlio si sacrificò perché amava Cristo, perché amava tutti coloro che hanno fame e sete di giustizia”: ivi, p. 37.

46 Cfr. P. Contamine, La guerra nel Medioevo, tr. it. di T. Capra, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 95: “Fra quella povera gente (della crociata dei pezzenti, n.d.r.) venne reclutata la truppa dei Tafuri che, nella loro esaltazione, affrontavano i Turchi in prima linea, senza lancia né scudo, armati solo della loro forza fisica e di bastoni, terrorizzando l’avversario perché avevano fama di divorarne i cadaveri”.

47 Sulla vicenda di Müntzer cfr. E. Bloch, Thomas Müntzer, teologo della rivoluzione, tr. it. di S. Zecchi, Feltrinelli, Milano, 1981, ma anche T. Müntzer, Scritti politici, tr. it. di E. Campi, Claudiana, Torino, 2003.

48 M. Weber, La politica come professione in Id., Il lavoro intellettuale come professione, tr. it. di A. Giolitti, Einaudi, Torino, 1971, p. 109.

49 Ivi, p. 115.

50 Ivi, p. 116.

51 Ivi, p. 117.

52 Ivi, p. 119.

53 Ivi, p. 101.

54 In tal modo sembra ricomporsi quel pluralismo etico che si era affermato nelle pagine precedenti, un pluralismo che avrebbe dovuto contemplare modalità di giudizio differenti per differenti livelli dell’agire: religioso, politico, economico, privato etc. (cfr. ivi, p. 113: “Noi apparteniamo contemporaneamente a diversi ordini di vita, soggetti a leggi diverse tra loro”). Chiaramente questa impostazione pluralistica, non potendo a priori stabilire quali e quanti siano questi livelli od ordini di vita, quale sia il rapporto fra loro, come si possa dire bene il fine dell’azione buona concepita dalle etiche rispettive, e quale equivocità comporti l’uso di quel termine “bene” (da potersi stabilire esclusivamente a partire da un criterio univoco, cioè da un’etica generale), cade in inevitabili contraddizioni, che sul piano etico comportano l’impossibilità di stabilire un criterio d’azione e, di conseguenza, promuovono l’idea amorale che “tutto va bene”.

55 Il suo fondamento apparirà espresso con il termine “amore”, giocando, come avviene oggi sempre più spesso sulla confusione e indistinzione tra un erotica della bramosia e del possesso e un’ “agapica” della benevolenza e dell’autodonazione a tutto vantaggio della prima, ed escludendo altresì, nella logica sempre più spietata dell’individualismo liberale, ogni forma di philia non ridotta a legame privatistico, eticamente utilitaristico ed esistenzialmente non impegnativo.

56 C. Schmitt, Il concetto di politico, in Id., Le categorie del politico, tr. it. di P.Schiera, pp. 102-165, qui pp. 108-109.

57 L. Strauss, Note su “Il concetto di politico” in Carl Schmitt, in C. Schmitt, Parlamentarismo e democrazia, tr. it. di C. Marco e A. Rosselli, Marco Editore, Lungro di Cosenza, 1998, pp. 177-206, qui pp. 200-201.

58 M. Maraviglia, La penultima guerra. Il “katéchon” nella dottrina dell’ordine politico di C. Schmitt, LED, Milano, 2006, pp. 22-37.

59 R. Racinaro, Esistenza e decisione in Carl Schmitt, “Il Centauro” 16 (1986), pp. 140-173, qui p. 152.

60 L. Strauss, Note su “Il concetto di politico” di Carl Schmitt, cit., p. 205.

61 J. Donoso Cortés, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo, il socialismo, tr. it. di G. Allegra, Rusconi, Milano, 1972, pp. 232-233.

62 Tradotta con il titolo Parlamentarismo e democrazia, cit.

63 Cfr. ivi, pp. 19-42.

64 Ivi, p. 42.

65 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, tr. it. di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano, 1984, p. 277: “[...] Un popolo che esiste come unità politica rispetto all’esistenza naturale di un qualsiasi gruppo di uomini che vivano insieme ha una specie di essere più alta e sviluppata, più intensa”.

66 Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra, tr. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano, 1990.

67 Cfr. supra, nota 25.

68 Cfr. per un’analisi approfondita di questi argomenti, C. Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del poitico cit., pp. 28-86, qui pp. 34-59.

69 C. Schmitt, Dottrina della costituzione cit., p. 277.

70 Nel suo fondamentale Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia, 1990.

71 L. Bof, Martirio. Tentativo di una riflessione sistematica, “Concilium” 3 (1983), pp. 30-40, qui p. 37.

72 Come dice M. Rizzi nel suo Martirio cristiano e protagonismo civico cit., p. 107, (da dove abbiamo tratto il brano).

73 Ibidem.

74 Cfr. A. Rose, Werwolf 1944-1945. Eine Dokumentation, Motorbuch Verlag, Stuttgart, 1980.

75 G. Woodcock, L’anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, tr. it. di E. Vaccari, Feltrinelli, Milano, 19712, p. 151 e p. 152.

76 Sul tema cfr. E. Gentile, La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza, Roma-Bari, 2006, laddove in particolare si dice, a proposito del nazionalismo americano: “Se il nazionalismo è l’ideologia moderna che afferma il primato della nazione sovrana nel proprio Stato, e la sublima come un’entità perenne, circonfusa di sacralità, alla quale la comunità dei cittadini deve devozione e fedeltà, gli americani non possono non essere definiti nazionalisti, sia pure con proprie peculiarità storiche e culturali, definite come ‘americanismo’. Una di queste peculiarità è la componente religiosa del nazionalismo americano, che affonda le radici nel puritanesimo e ne porta tuttora l’eredità nei suoi miti fondamentali, dal mito del popolo eletto al mito della ‘nazione innocente’ e del ‘destino manifesto’. L’America, osservò nel 1922 lo scrittore cattolico inglese Gilbert K. Chesterton, è ‘una nazione con l’anima di una Chiesa’, perché ‘è l’unica nazione nel mondo che è fondata su un credo, esposto con dogmatica, teologica lucidità nella Dichiarazione di indipendenza’” (p. 191). Ebbene, tale credo, con le sue certezze teologico-politiche e con la sua vocazione alla guerra santa contro il nemico di turno è speculare a quello dei suoi ultimi avversari. C’è un legame profondo, infatti, tra due puritanesimi, quello protestante cristiano e quello islamico wahabita, la cui radice era già stata chiaramente individuata da O. Spengler nel suo Tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, tr. it. di J. Evola, Guanda, Parma, 19912, al capitolo significativamente intitolato Pitagora, Maometto e Cromwell. Particolarmente illuminante risulta nello scritto in questione l’idea secondo cui “le grandi figure intorno a Maometto, un Abu Bekr, un Omar, sono assolutamente simili ai capi puritani della rivoluzione inglese, quali John Pym e Hampdem, e questa affinità del modo di sentire e dell’attitudine ci apparirebbe persino maggiore se sapessimo qualcosa di più circa gli Hanifi, i puritani arabi che precedettero Maometto e che poi lo fiancheggiarono. Essi tutti avevano la coscienza di una grande missione che faceva disprezzar loro la vita e i beni; credenti nella predestinazione, essi erano convinti di esser gli eletti da Dio. Il grandioso slancio biblico nei Parlamenti e negli accampamenti degli Indipendenti che ancor nel diciannovesimo secolo lasciò in molte famiglie inglesi la fede che gli Inglesi discendessero dalle dieci tribù sperdute di Israele, che essi formassero un popolo di santi predestinato a guidare il mondo, un tale slancio ha anche animato l’emigrazione in America iniziatasi nel 1620 con i Padri Pellegrini; esso ha creato ciò che oggi possiamo chiamare la religione americana e coltivato tutto quanto gli Inglesi ancora posseggono in fatto di una politica senza scrupoli, la quale ha un fondamento religioso, ossia la certezza della predestinazione” (pp. 1099-1100).

77 Sembra che il card. Hume abbia disapprovato la sua vicenda, definendola una sorta di suicidio e dando implicitamente ragione a M. Thatcher, primo ministro inglese responsabile politica della morte dei militanti irlandesi. Al contrario ci sembra del tutto condivisibile l’idea che ebbe Sands di se stesso, cioè quella di un martire. Egli “scriveva poesie, in una, scritta dopo la condanna a 14 anni, si dice pronto a ‘percorrere la via solitaria/ come quella del Calvario. / e portare la Croce degli Irlandesi’, come Cristo. Al cardinale Hume, che ne aveva deplorato il suicidio, un suo biografo ribatte: ‘Gesù Cristo avrebbe potuto salvarsi la vita quando venne portato dinanzi a Pilato, ma non lo fece. Dovremmo quindi concludere che il fondatore del cristianesimo commise suicidio?’: S. Ginzberg, Bobby Sands che si lasciò morire di fame, “l'Unità”, 4 maggio 2006. Quella di Sands insomma non fu un orgoglioso atto di ascetismo autolesionista e negatore della bontà della vita creata assimilabile all’endura dei Catari, ma una testimonianza a favore del prossimo, per la giustizia, l’umanità, la libertà. Essa si esprime con la rinuncia volontaria al nutrimento nel momento in cui un causa più grande richiede il sacrificio del proprio corpo. E ciò non perché il corpo sia cosa cattiva, ma perché così va impiegato, utilizzato, reso fruttifero per celebrare la dignità del vivere. Bobby Sands ha cantato con la sua morte un inno alla vita degna, che i suoi aguzzini stavano negando: questo è martirio, non suicidio (talora i cardinali, restando prigionieri delle logiche troppo miserevolmente umane della chiesa ufficiale, perdono serenità e lucidità di giudizio). Del militante irlandese restano i diari, una lettura istruttiva e commovente per chiunque cerchi un senso nobile della politica e una visione alta e fiera della vita umana. Cfr. B. Sands, Un giorno della mia vita. L’inferno del carcere e il dramma dell’Irlanda in lotta, tr. it. di S. Calamati, Feltrinelli, Milano, 20052, ma anche M. Ruzzu, Martiri per l’Irlanda. Bobby Sands e gli scioperi della fame, Frilli, Genova, 2004.

78 Non a caso cito questa locuzione paradigmatica, che Schmitt inserisce al vertice del “cristallo di Hobbes” come supremo punto d’appoggio anche delle comunità politiche (cfr. C. Schmitt Il concetto di politico, in Id., La categorie del politico, tr. it. di P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 102-165, qui pp. 150-151). Ma, accedendo a ciò cui comunque non può rinunciare, il politico lascia spazio all’impolitico, il conflitto alla pace, la ratio responsabile e prudente della prassi nell’agorà alla logica oblativa ed entusiasta che introduce al Regno.

79 Sul tema cfr. H. C. De Lima Vaz, Mistica e politica. Esperienza mistica e filosofia nella tradizione occidentale, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 2003, pp. 74-77.

80 Cfr. soprattutto J. B. Metz, Sulla teologia del mondo, tr. it. di G. Ruggeri, Queriniana, Brescia, 19712, pp. 113-114: “Il discorso sulla teologia politica cerca di richiamare alla teologia attuale la coscienza del continuo processo che si svolge tra il messaggio escatologico di Gesù e la realtà politica e sociale. esso sottolinea che la salvezza annunciata da Gesù, non già in senso naturale e cosmologico, bensì socio-politico, è costantemente in relazione al mondo: come elemento critico e liberante di questo mondo sociale e del suo processo storico. Le promesse escatologiche della tradizione biblica [...] spingono sempre di più alla responsabilità sociale. Certo queste promesse non possono mai essere identificate con alcuno stato sociale in qualunque maniera noi vogliamo descrivere e determinare quest’ultimo. La storia conosce abbastanza siffatte identificazioni e politicizzazioni dirette della promessa cristiana. In esse viene tuttavia abbandonata quella ‘riserva escatologica’, grazie alla quale ogni stato storicamente raggiunto della società manifesta la sua provvisorietà [...]. Questa riserva [...] ci porta non già ad un rapporto negatore, bensì ad un rapporto critico-dialettico nei confronti del presente storico. Le promesse a cui esso si riferisce non sono un orizzonte vuoto di religiosa attesa, non sono un’idea puramente regolatrice, ma un imperativo critico e liberante per il nostro presente, pungolo e compito a rendere operanti queste promesse e perciò ad ‘avverarle’, nelle condizioni storiche presenti; la loro verità infatti deve essere ‘fatta’”.

81 Cfr. J. Moltmann Religione, rivoluzione, futuro, tr. it. di G. Moretto, Queriniana, Brescia, 1971, p. 62: “Diviene subito chiaro che una teologia politica [...] deve risvegliare la coscienza politica di ogni teologia. Ci può ben infatti essere una teologia politicamente cosciente, per lo meno alla stessa maniera che c’è una teologia politicamente incosciente e ingenua. Ma sulla terra non si trova una teologia a-politica. Evidentemente non ci deve essere neppure in cielo se Paolo parla di cittadini del cielo e l’Apocalisse di città di Dio. Così come nel primo illuminismo la teologia, ad opera della critica storica, è diventata una teologia storicamente e criticamente cosciente, ora, in questo secondo illuminismo dei nostri giorni, deve, ad opera della critica sociale, politica e psicologica, raggiungere un nuovo stadio di coscientizzazione”. Lo stesso concetto esprime Metz quando parla di un “abbandono dell’innocenza sociale, politica e storica” da parte della teologia attraverso la teologia politica: cfr. J. B. Metz, Sul concetto della nuova teologia politica 1967-1997, tr. it. di F. C. Pieri, Queriniana, Brescia, 1998, soprattutto pp. 177-180.



Pubblicazione del: 03-03-2009
nella Categoria Filosofia Politica e del Diritto


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