Sotto il segno della forma-Luciano Pirrotta-Vol.31-   Stampa questo documento dal titolo: . Stampa

Luciano Pirrotta

Sotto il segno della forma

(Violenza e libertà nella concezione mishimiana)

Almeno tre sono i principali ostacoli che si frappongono ad una adeguata intellezione del sentire particolarissimo di Mishima e, conseguentemente, in ultima analisi, a qualsiasi tentativo di interpretazione unitaria della sua opera. Due sono esterni: la cristallizzazione ingeneratasi nella esegesi critica all’indomani del suo spettacolare suicidio (che ha finito per condizionare, polarizzandola, ogni attenzione sul tragico epilogo, sino a modellarne, a posteriori, la maggior parte delle ‘letture’) (1); la contraddittorietà – ed è il secondo – insita nell’intero iter letterario-esistenziale della persona, divisa dalla tensione antinomica fra mente e corpo, raziocinio e istinto, scrittura e azione diretta. Si potrebbe dire che questo irriducibile dualismo sia stato ‘deciso’ (risolto) da Mishima stesso attraverso il gesto cruento finale, e non solo metaforicamente, se la decisione autentica, per natura, implica la cesura netta (de-caedere) del nodo gordiano che pone termine al dilemma, così come l’atto del seppuku (il cosiddetto harakiri) esegue il taglio perfetto del centro vitale fisico – hara – secondo il magistero zen.

Ma su i citati punti – aporie dell’uomo e presunta autoespiazione mediante il sacrificio feroce di sé – si è parlato e scritto fin troppo, per tornare a discuterne qui ancora una volta. Mishima medesimo, del resto, era ben consapevole delle proprie oscillazioni, avendo manifestato durante gli anni di vita terminali crescente insofferenza per ciò che riguardava “letteratura” e “chiacchiere” intellettualistiche a fronte della riscoperta “coscienza del corpo”, atteggiamento rivelatore di un palese rifiuto di largo tratto del suo percorso e delle connesse aspirazioni coltivate per ampio arco di tempo.

E’ però nel terzo fattore di inciampo che – a nostro avviso – risiede, da parte dei critici contemporanei soprattutto occidentali (mentre ingloba ed è

radice dei due precedenti), la massima causa del fraintendimento, individuabile nella immensa distanza che separa – malgrado la china americanistica presa dal Giappone post-bellico – valori orientali tradizionali e ideali materialistici introdotti dai vincitori. Dei primi corre l’obbligo di sottolineare il culto scrupoloso della forma, lo ‘stile’, che le culture dell’Est asiatico hanno riservato alle varie casistiche e occasioni dell’umano agire. Sebbene l’odierno colosso industriale nipponico sia avviato gradualmente ad abbandonare le antiche abitudini a favore dei frenetici ritmi della city e dei miti del profitto, il sostrato plurisecolare che conferiva sostanza ai tanti momenti della quotidianità – l’atto del mangiare, di preparare il tè, di disporre i fiori nella casa, l’accoglienza degli ospiti, i rapporti familiari, la celebrazione degli eventi privati significativi (nascite, matrimoni, decessi) – continua a sussistere, sottoponendone le modalità di esecuzione a costanti dettami formali. Basterà ricordare, a titolo d’esempio, la minuziosa cura anticipata con cui molti orientali predispongono le proprie esequie per sollevare i parenti da fastidi e preoccupazioni connessi alle incombenze richieste dallo ‘spiacevole’ avvenimento. L’incomprensione degli Europei e dei loro contigui Statunitensi riguardo analoghi aspetti della sensibilità peculiare dei popoli del Sol Levante si colloca alla base della mancata spiegazione – al di là dei commenti di circostanza – delle ragioni effettive del suicidio di intellettuali pacati e sobri come i grandi scrittori Kawabata e Dazai che davvero non rientravano nel facile cliché del ‘fanatico’ affibbiato con altrettanta leggerezza a Mishima. Di certo nei suoi confronti il malinteso deve essere stato pressoché totale, quantopiù in lui, nemico della modernizzazione e del consumismo incalzanti, la liturgia della forma è stata esaltata in disparati risvolti. Mishima detesta in toto la società mercantile-affaristica e le sue conseguenze; Tokyo stessa ne è ormai esempio emblematico, col suo spettacolo di corruzione diffusa e di “amori pigmei”. Vi contrappone il sogno aristocratico del Giappone feudale, il culto del Tenno, la visione romantica di un’esistenza da esteta culminante

in una morte intesa alla stregua di supremo atto estetico. Ma perché ciò avvenga è sempre lungo le coordinate della forma che i tratti salienti della

sua vicenda terrena verranno inflessibilmente declinati: dal suicidio rituale (seppuku) cadenzato nella successione delle fasi e nell’impiego dei mezzi (kappuku - incisione letale dello stomaco mediante la corta daga dritta yoroidoshi – seguito dal kaishaku, la recisione della testa compiuta da un assistente munito di spada lunga, la cosiddetta katana) (2), all’adozione della ideografia arcaica di contro al modificato sistema di grafia oggi usato in Giappone; dal recupero dei generi teatrali altamente stilizzati - nō e kabuki – all’adesione alle discipline elitarie del karate, dell’aikido, dello iai, del kendo (dopo l’abbandono delle pratiche di importazione spettacolari e meramente sportive del body building e della boxe). La profonda esigenza di euritmia che pervade la weltanschauung mishimiana traspare per intero nei “quattro fiumi” – letteratura, teatro, corpo, azione – che ne scandiscono l’itinerario biografico rivelando, nelle tipologie da lui privilegiate, la funzione loro assegnata di argine al deforme e all’informe che egli vedeva avanzare ovunque volgesse lo sguardo. Financo atmosfere e inquadrature dell’album Barakei (Supplizio con le rose) e gli scatti che lo ritraevano in veste di samurai o di San Sebastiano, commissionati ai famosi fotografi Eikoh Hosoe e Kishin Shinoyama, testimoniano con i chiaroscuri, i dettagli iconografici, le curvature e le torsioni plastiche, questa esigenza assoluta tenacemente agognata e inseguita. Ma predilezioni del genere comportano una serie di implicanze che rendono vieppiù remota la concezione dell’eccentrico autore, da sentimenti, mentalità, comportamenti caratterizzanti le attuali società globalizzate. Le predette opzioni richiedono infatti l’accettazione preventiva di caratteri rimossi e di fatto banditi dagli attuali ‘regimi del benessere’. Come potrebbero, essi, ammettere la quotidiana compresenza della morte quale è prevista nella pratica genuina (non in versione agonistica e mercificata tipica delle palestre ‘esotiche’ diffusesi in Europa ed U.S.A.) delle arti

marziali, se tutti gli sforzi sono diretti, attraverso la glorificazione della bellezza da rotocalco e il ‘restauro’ da lifting chirurgico, a rinviare quanto possibile il temuto incontro e gli odiati segni del procedere dell’età che ne sono gli inesorabili messaggeri? Come potrebbe una società che emargina gli anziani improduttivi trasferendoli dal nucleo familiare alle ‘case di riposo’ o di ‘lunga degenza’, nel vano tentativo di coniugare egoismo edonistico e pseudoumanitarismo, cogliere la sincera venerazione di cui sono fatti oggetto nelle discipline tradizionali di combattimento i superiori e i ‘maestri’ di età avanzata ritenuti depositari dell’esperienza e dei segreti della ‘scuola’? E quale spazio di ascolto troverebbe nelle odierne democrazie, astratte negatrici di ogni specie di violenza (anche se endemicamente produttrici e amministratrici di formule pianificate di distruzione, coartazione e sfruttamento) una visione ove quest’ultima, reputata ineluttabile, rivendicasse dignità e legittimità autonome? Tramite la forma conferita all’azione – azione violenta – Mishima scopre l’antidoto salvifico all’infezione logorroica (scritta e verbale) che affligge l’Occidente e la sua appendice asiatica colonizzata dai precetti e postulati yankee, ma pure sé medesimo, attratto dalla seduzione dei media, dai comforts, dallo status symbol dello scrittore di successo corroso dalla lebbra e dalle “termiti” delle parole, impegnato a estrarre le proprie miserie interiori e a lustrarle per darle poi in pasto al pubblico. Alla politica prudente delle trattative, della mediazione, del compromesso, Mishima oppone la ‘necessità’ della violenza; non quella scomposta e teppistica dei gruppuscoli studenteschi filomarxisti (coi quali, comunque, intrattenne dialogo) quanto quella improntata ad un ordine, una misura, interna più che esteriore, kosmos fronteggiante il caos identificato nella spirale di degradazione che avvolge e narcotizza il suo paese.

Pensare che Mishima abbia potuto credere, pur per un istante, all’efficacia pubblica del blitz compiuto con i quattro membri del Tatenokai, presso la caserma dello

Jeitai di Ichigaya, il giorno del suo martirio, significa fargli grave torto. L’appello nazionalistico ad una riscossa imperiale del Giappone contro la decadenza e la volgarità prodotta dall’americanizzazione, è solo la vernice di facciata, benché sentita, di una prova – l’ultima – condotta su se stessi alla luce dell’incontro col dolore, la morte, la violenza, l’”antagonista” richiamato nello Hagakure (3), riportati sotto l’egida della “coscienza del corpo” cui di nuovo, dopo duro travaglio, è stata conferita una ‘forma’. Nel bushido, codice teorico-pratico dei samurai, tecniche (waza), sequenze posturali codificate (kata), espedienti e risoluzioni inerenti lo scontro fisico, prevedono l’eventualità, non infrequente, che il guerriero scelga deliberatamente di darsi la morte, quando la situazione lo richieda; e tale risoluzione comporta, d’accapo, l’osservanza di un dettagliato cerimoniale. Se davvero violenza e morte costituiscono dispositivi del mondo senza i quali nulla accade – idea espressa da pensatori di svariate epoche e latitudini – è però nella ‘filosofia’ zen, animatrice delle arti marziali tradizionali, che i suddetti fattori vengono collocati in un contesto paradossale. Da assiduo praticante di alcune di esse, Mishima doveva ben essere edotto sul fatto che, per lo zen, violenza e morte sono parimenti finzioni, gioco perenne di apparire e scomparire di parvenze, cui soltanto gli stolti attribuiscono effettiva consistenza. Esse sono le maschere utilizzate dall’Unico perché la materia passiva divenga soggetto, condizione per riconoscersi parte della – e ricongiungersi alla – scaturigine primigenia, passando dallo stato di necessità al rango della libertà. Non a caso si dice che l’adepto della ‘via dell’arco’ (kyudo) colpisce il centro, scevro da tensione e sforzo, ad ‘occhi chiusi’, allorché realizza che arciere e bersaglio sono identici e coincidono esattamente.

Già da questi brevi cenni può intuirsi l’abisso che separa il modo di pensare e sentire peculiare del ‘mondo moderno’ dai princìpi cui, dopo un cammino accidentato e non del tutto concluso, approdò Yukio Mishima.

Errori, fraintendimenti, distorsioni, frutto dello scandaglio di tanti ‘addetti ai lavori’ nei suoi riguardi, trovano qui la loro causa prima e, in un elemento ancora, la sanzione definitiva: è il concetto di libertà l’ennesimo intralcio che mostra le immani distanze ostanti la piena comprensione nonché le origini dell’equivoco. Agli odierni abitatori delle metropoli il ‘progresso’ ha donato la pandemia delle piccole libertà plebee; libertà di guadagnare e consumare, di divertirsi e stordirsi, di esternare giudizi e pareri a pie’ sospinto su ogni cosa, di votare e di protestare: in realtà libertà da gregge, belante slogans suggeriti dai grandi santuari del potere e del mercato; libertà da panem et circenses, perfetto viatico al convogliamento nel serbatoio lobotomizzante del politically correct che rispecchia il pensiero unificato. Di codesta libertà Mishima non sapeva che farsene, avendo avvertito nel corso degli anni antecedenti l’epilogo drammatico, il richiamo di un diverso tipo di libertà: quella ‘libertà originaria’ (la tedesca urfreiheit) oggi sconosciuta ai più, che è coscienza della necessità e, in pari misura, amor fati; in essa rientra la scelta della morte quale opzione lucida e determinata, estrema verifica al riconoscimento del libero arbitrio del soggetto. L’idea di individualità, così come concepita dall’Umanesimo in qua, leitmotiv sotteso agli ‘immortali princìpi’ dell’Illuminismo rivoluzionario-borghese via via consolidatosi nell’accezione corrente, viene subordinata dal Mishima della stagione finale - che per tanti aspetti resta a pieno titolo figlio dell’Occidente e delle sue mitologie – alla condivisa identità del gruppo: libertà di non essere liberi, o meglio, rinuncia al ristretto io personale in nome di un superiore senso di unità e appartenenza (4). Alla libertà dei propri contemporanei, irretita e intessuta di servitù e alle loro alchimie politiche, commistione di velami pacifistici e affaristica avidità priva di scrupoli, egli oppone distinzioni nette, prese di campo categoriche; da un lato la collettività atomizzata, quantitativa, individualisticamente anonima; dall’altra la comunità, organica, qualitativa, differenziata; ovvero: da un

canto schiavi illusi di essere liberi, dall’altra liberi che, attraverso il sacrificio delle anguste costellazioni del singolo, si sono dati una ‘forma’. Che poi Hiraoka/Mishima sia riuscito, coerentemente ed effettivamente a porre in essere quanto propugnato, sul piano esistenziale e nella poliedrica attività di public figure, è altra questione . Che la sua fosse un’aspirazione confusa e velleitaria verso dimensioni tramontate ed irrecuperabili, è abbastanza probabile. Che la ‘Società degli Scudi’ da lui fondata, con le divise kitsch dai bottoni dorati creazione di un rinomato stilista, le parate militari, i lanci paracadutistici, la guida di carri armati, sia stata la facies esibizionistica celante all’interno aporie mai risolte, non è da escludere. Comunque si orienti il giudizio su un uomo che ha esperito per l’intera vita la straziante lacerazione fra immanenza e trascendenza, tra umani appetiti e aspirazioni di purezza assoluta, culminata nel gesto supremo del seppuku (che testimonia inequivocabilmente a favore di quale delle due polarità si risolvesse infine la lotta), resta indubitabile l’obbligo di un’attenta disamina delle problematiche qui appena accennate in rapide notazioni. Risolto o meno, il conflitto evidenziatosi nella vicenda umana e letteraria di Mishima riposa su un dualismo di valori in lui coesistenti. Senza l’accurata indagine delle idealità aristocratico-guerriere che ne impregnarono contegno e pensieri durante l’ultimo quarto dell’esistenza e soprattutto senza l’immedesimazione integrale in quell’universo arcaico e nei suoi superstiti riverberi sul Giappone di fine millennio, gli studiosi, per quanto esperti e specialisti in materia, continueranno a precludersi a priori la facoltà di penetrare davvero complessità e particolarità dell’enigma Mishima (5).

Luciano Pirrotta

N O T E

1.

Non sfuggono a simile rischio neppure analisi apparentemente molto sottili come nel caso della Yourcenar (cfr.Id., Mishima ou la vision du vide, Paris, Gallimard, 1980; tr. it., Milano, Guanda, 1982).

2.

Dovrebbe essere compito dell’assistente, oltre che vibrare il fendente che spicca d’un sol colpo la testa dal busto, posizionarsi anche in maniera adeguata a poter sorreggere quest’ultima perché non rotoli successivamente a terra, la qualcosa sarebbe giudicata molto disdicevole.

3.

L’Hagakure, autentica summa dell’etica samuraica, è l’opera che raccoglie in undici volumi i precetti del maestro Jōchō Yamamoto (1659-1719), trascritti dal discepolo Tsuramoto Tashiro. Mishima ne tradusse e interpretò in rielaborazione personale i primi tre tomi facendone una sorta di testamento spirituale (cfr. l’ediz. italiana intitolata La via del samurai, Milano, Bompiani, 1983); recentemente nella nostra lingua ne è apparsa una nuova versione antologizzata (Yamamoto Tsunetomo, Il codice segreto dei samurai (Hagakure), Milano-Trento, Luni Ed., 2000).

4.

Per l’approfondimento della nozione mishimiana di libertà, autocoscienza, identità, si rimanda al suo testo fondamentale Taiyo to tetsu (Tokyo, 1965, a puntate sulla rivista Hihyō; tr. it., Milano, Guanda, 1982). La polemica antiamericana, nazionalistica, antimoderna, oltre alla messa a punto dei concetti di azione, vita e morte, impegno politico, piacere-dolore, hanno ampio spazio nei saggi Wakaki samurai no tame no seishin kōva (1968), Kōdōgaku nyūmon (1969) raccolti in traduzione italiana sotto il titolo Lezioni spirituali per giovani samurai e altri scritti, Milano, SE Ed., 1987. Riferimenti alle problematiche testé citate sono presenti nel lavoro di G. Fino, Mishima e la restaurazione della cultura integrale (Ed. Sannô-Kai, Padova, 1980) e nel nostro articolo, Mishima –Il corpo e la vertigine (in: L. Pirrotta, La conoscenza ribelle, Roma, Atanòr, 1994) cui ci permettiamo di rinviare.

5.

Di “segreto” “portato con sé” parla F. Saba Sardi nella prefazione all’edizione italiana dell’Hagakure mishimiano (cfr. La via…, pp.9 sgg.) e di “segreto impenetrabile” M. Yourcenar (Mishima ou la vision…; tr. it., p.8).



Pubblicazione del: 20-03-2009
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