LA REPUBLIQUE PRÊTRE-Teodoro Klitsche de la Grange-Vol.27-   Stampa questo documento dal titolo: . Stampa

LA REPUBLIQUE PRÊTRE

Questo breve saggio è un capitolo di un più ampio lavoro sul “doppio Stato” di prossima pubblicazione. Lo si propone ai lettori con l’avvertenza che per “doppio Stato” deve intendersi il concreto assetto (e i rapporti) dei poteri “pubblici” e, a un tempo, la rappresentazione che il regime politico da di se.

1. A leggere la Costituzione vigente La Repubblica italiana dovrebb’essere una democrazia liberale, dato che sono garantiti sia i diritti fondamentali sia, ancorché non perfettamente, la distinzione dei poteri. In effetti, come prima visto, non è così o meglio, non lo è che in parte. Ciò non risulta solo dagli innumerevoli vulnera ai principi, né ai fortunati tentativi d’inceppare – almeno in parte – i meccanismi istituzionali di controllo, e, in genere, da quanto sopra descritto: ma anche da un costante e strumentale gioco di contrapposizione tra principi democratici e principi liberali, al fine di depotenziarli entrambi.

E’ noto che democrazia e liberalismo sono affatto differenti: la democrazia è un modo di partecipazione, organizzazione, legittimazione ed esercizio del potere: il liberalismo, almeno quello politico (e costituzionale), è una “tecnica” per limitare il potere, tramite un’idonea organizzazione (e contenimento) delle potestà pubbliche. Per cui può essere coniugato a qualsiasi forma politica: si può avere uno Stato monarchico – liberale, aristocratico–liberale, democratico-liberale; purché in ciascuna di queste, sia salvaguardata la distinzione dei poteri e i diritti fondamentali. Nella storia di solito il liberalismo si è legato prevalentemente alla democrazia: pur conservando quella distinzione di principi, la quale, chiara concettualmente (e praticamente) è spesso dimenticata nel sentire comune e anche, talvolta, in concezioni dottrinarie. In particolare è stato spesso trascurato quanto sosteneva Mazzini, che “sulla libertà non si costituisce nulla”: e il cui senso è che uno Stato liberale “puro” cioè avulso da un principio politico positivo (cioè di fondazione - costituzione – legittimazione dell’autorità) non è mai esistito; per l’(ovvia) considerazione che un’ideologia di limitazione del potere, lo presuppone. Ed è parimenti chiaro che qualsiasi forma abbia lo Stato cui “accede”, il liberalismo tende a contenerlo e limitarlo: fino al punto che, come pensavano controrivoluzionari come De Maistre e De Bonald, può arrivare a renderlo poco efficace, se non a distruggerlo. D’altro canto la democrazia senza liberalismo, può divenire (e generalmente è) dispotica: il famoso pamphlet di Benjamin Costant sulla libertà degli antichi contrapposta a quella dei moderni, ne da una chiara (e insuperata) spiegazione.

Resta il fatto che tali principi, se uniti, sono i fondamenti del costituzionalismo moderno e di un potere controllabile, per loro natura, sono distinti e conflittuali; da cui consegue la facilità di giocarli l’uno contro l’altro, anche perché tenerli insieme richiede una grande perizia e capacità di equilibrio, di cui non sempre governi (e popoli) sono dotati.

Nella realtà il “doppio Stato”, – cioè la “forma” concreta del potere e l’ideologia della classe politica attuale - come detto, si serve del liberalismo per snaturare la democrazia e di questa per edulcorare quello. E, nella prassi (e nei risultati), nega – o meglio limita, anche se non conseguenzialmente – l’uno e l’altra. Per la negazione della democrazia è appena il caso di ricordare la continua elusione e manipolazione degli strumenti diretti di partecipazione democratica come le elezioni e i referendum; per quella del liberalismo, il depotenziamento delle istituzioni (e dei procedimenti) di controllo e garanzia. A seguire la weltanschauung dei politici del doppio Stato sarebbe così impossibile coniugare presidenzialismo (e autorità scelte direttamente dal popolo e responsabili verso lo stesso) ed habeas corpus. Il fatto che l’uno e l’altro stiano tranquillamente e fecondamente insieme da oltre due secoli nel più potente Stato del pianeta, è dubbio che non li lambisce: e, quando pensano agli USA (o si professano filo-americani), sembrano identificarli, essenzialmente, con HOLLYWOOD e la COCA-COLA (non li sfiora il sospetto che a fare grande e mantenere libera l’America siano state le istituzioni). E’ esemplare di tale tattica quanto succede in materia di giustizia. Se si vuole limitare e contenere (l’invadenza del) potere giudiziario, attraverso separazione delle carriere, modifiche della composizione del CSM, e così via, ci si batte con le armi liberali del “pouvoir neutre”, del giudiziario come potere “en quelque façon nul” da salvaguardare dai poteri politici di “parte”. Quando, di converso, si tratta di aumentare le garanzie per gli imputati, vengono subito messe avanti le esigenze della collettività e la sicurezza dei cittadini, e spesso un democraticismo “casareccio” in cui l’eguaglianza di fronte alla legge (e al pubblico ministero che l’impersona) viene esaltata a fronte della possibilità di plutocrati di sfruttare, attraverso dispendiose difese, le “scappatoie” di leggi “garantiste”. E così avviene, con ricorrente frequenza, in tutti i campi. Ai tentativi d’introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, si rispolverano gli argomenti contro il “cesarismo plebiscitario” e a favore della “centralità del Parlamento”, come se l’Italia pullulasse di Bonaparte, pronti al loro 18 brumaio personale (1).

2. In realtà a tale contrapposizione – in parte reale - la soluzione preferita dal “doppio Stato” è quella di ridurre e depotenziare l’uno e l’altro; e perciò non viene presa neppure in considerazione la soluzione opposta – adottata dai più grandi Stati occidentali – di far compiere ad ambedue un passo avanti e non indietro. Ovvero di risolvere – o attenuare – la contraddizione facendoli crescere entrambi: coniugare autorità elette e responsabili con forti istituzioni di controllo; poteri pubblici dotati di prestigio con garanzie efficaci. Senonchè istituzioni siffatte se le può permettere un potere autorevole, perché dotato di autorità e legittimità. Un’autorità solida non teme controlli (o meglio questi non turbano l’equilibrio istituzionale), perché la garanzia della stessa è nel consenso dei cittadini e nella legittimità dei governi. Ed è proprio questo il problema del “doppio Stato”. Perché difettando di autorità e di legittimità, non può altro che assicurarsi il potere con il potere. Privo di quelle, non può garantirsi un certo grado d’efficienza che riducendo i contro-poteri, e limitando le istituzioni di controllo: cioè sabotando i freni e alleggerendo i contrappesi.

Sotto un altro profilo, e più generale, tale carattere del “doppio Stato” deriva dall’essenza amministrativa dello stesso e, in particolare, dai connotati tipici del potere burocratico. Questo in se, come cennato, poggia e si fonda su un’autorità (politica), e sulla razionalità di statuizioni prese sulla base di norme legislative date; come conseguenza (logica) del fondarsi su quella, ha di non essere in grado di produrre una propria legittimità (se non in misura assai modesta). Se si pensa quindi il potere amministrativo-burocratico privo, da un lato del supporto dell’autorità, dall’altro di quello della legalità (in senso stretto) si ha il (tipo del) potere allo stato puro, che cerca di reggersi solo su se medesimo e sulla propria capacità di coazione: non supportato da un consenso a un’autorità legittima – e superiore; e neppure limitato da norme (ed istituzioni di controllo), ed esercitarlo in conformità alle regole. Che il fine di ogni potere – allo stato ideal-tipico – sia quello di svincolarsi da ogni condizionamento è naturale: ed è quanto il doppio Stato tende a fare – e in gran parte ha fatto, e che era stato avvertito, come tendenza ed esito possibile, nel pensiero moderno. Hegel, scrivendo della classe dei funzionari nel periodo della Restaurazione sosteneva “che essa non assuma la posizione isolata di un’aristocrazia, e che la cultura e la capacità non diventino mezzo di arbitrio e di dominazione, ciò è assicurato dalle istituzioni della sovranità dall’alto, e dai diritti delle corporazioni dal basso (2). Basta modificare (lievemente) tale passo di Hegel specificando il primo limite (la sovranità) come democratica, e sostituendo più incisivamente ai diritti delle corporazioni, i diritti (fondamentali) dei cittadini per avere la tendenza – e la situazione – seguita (e creata) dal “doppio Stato”: cioè un potere svincolato sia dalla sovranità che dall’(effettivo) rispetto dei diritti. Il giovane Marx criticando la filosofia del diritto hegeliano scriveva: “Il “formalismo di Stato”, ch’è la burocrazia, è lo “Stato come formalismo”, e Hegel l’ha descritta come un tale formalismo. In quanto questo “formalismo di Stato” si costituisce in potenza reale e diventa esso stesso il suo proprio contenuto materiale, s’intende da sé che la “burocrazia” è un tessuto d’illusioni pratiche ossia l’ “illusione dello Stato”. Lo spirito burocratico è fin nel midollo uno spirito gesuitico, teologico. I burocrati sono i gesuiti di Stato, i teologi di Stato. La burocrazia è la république prêtre” e proseguiva “Poiché la burocrazia è, secondo la sua essenza, lo “Stato come formalismo”, essa lo è anche secondo il suo scopo. Il reale scopo dello Stato appare dunque alla burocrazia come uno scopo contro lo Stato. Lo spirito della burocrazia è lo “spirito formale dello Stato”. Essa fa, dunque, dello “spirito formale dello Stato”, o reale aspiritualità dello Stato, un imperativo categorico. La burocrazia si pretende ultimo scopo dello Stato. Poiché la burocrazia fa dei suoi scopi “formali” il suo contenuto, essa viene ovunque a conflitto con gli scopi “reali”. Essa è dunque costretta a spacciare il formale per il contenuto e il contenuto per il formale. Gli scopi dello Stato si mutano in scopi burocratici, o gli scopi burocratici in scopi statali” per cui “la burocrazia è lo Stato immaginario accanto allo Stato reale, lo spiritualismo dello Stato… Lo spirito generale della burocrazia è il segreto, mistero custodito dentro di essa dalla gerarchia, e all’esterno in quanto essa è corporazione chiusa. Il palesarsi dello spirito dello Stato, e l’opinione pubblica, appaiono quindi alla burocrazia come un tradimento del suo mistero. L’autorità è perciò il principio della sua scienza e l’idolatria dell’autorità è il suo sentimento. Ma all’interno della burocrazia lo spiritualismo diventa un crasso materialismo, il materialismo dell’ubbidienza passiva, della fede nell’autorità, del meccanismo di un’attività formale fissa, di principi, di idee, di tradizioni fisse. In quanto al burocrate preso singolarmente, lo scopo dello Stato diventa il suo scopo privato, una caccia ai posti più alti, un far carriera” (3). Nell’insistenza di Marx a contrapporre “reale” a “formale” e “particolare” a “generale” si trova la critica allo spirito burocratico, che, se da servente si trasforma in libero, stravolge forme e scopi dello Stato, inaridendone la fonte. D’altra parte, come cennato sopra, nella rivoluzione borghese c’è uno spirito anti-burocratico e comunque tendente a collocare la classe dei funzionari nel posto appropriato, come potere subordinato. La cui formulazione (implicita ma) netta, è data dall’art. 2, Sezione II, del Capitolo IV della Costituzione del 1791, laddove è detto che “les administrateurs n’ont aucun caractère de reprèsentation” mentre il precedente art. 2, del titolo III stabiliva che “la Constitution est représentative: les représentants sont le corps lègislatif et le roi”: ossia ai funzionari si negava di essere rappresentanti (della Nazione) e, con ciò li si subordinava a chi impersona quella. La costituzione giacobina del 1793, dopo aver dichiarato che “la garanzia sociale consiste….(nell’) assicurare a ciascuno il godimento e la conservazione dei diritti….” (art. 23) aggiunge (art. 24) che questa “non può esistere se i limiti delle funzioni pubbliche non sono chiaramente stabiliti per legge, e se non è garantita la responsabilità di tutti i funzionari” (l’art. 31 prescriveva che “i delitti dei mandatari del popolo e dei suoi agenti non devono restare mai impuniti”). Nei discorsi di Saint-Just si può leggere: “Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti; chiunque abbia una carica non fa niente personalmente e prende dei collaboratori subordinati; il primo collaboratore ha a sua volta aiutanti, e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano. Dovete diminuire dovunque il numero degli impiegati, affinchè i capi lavorino e pensino” ed anche “gli uffici hanno preso il posto delle monarchie… il servizio pubblico, come è esercitato, non è virtù, è mestiere” (4). In un'altra occasione (5) dichiarava “c’è un'altra classe corruttrice, è la categoria dei funzionari”.

La diffidenza dei rivoluzionari borghesi verso il potere amministrativo e la classe dei funzionari, da limitare e controllare attraverso le istituzioni di garanzia, la rappresentanza e la sovranità nazionale è ricambiata dal doppio Stato – colmo di “ethos” funzionaristico – del tutto specularmente e con la stessa moneta, attenuando principi ed istituti della democrazia e del liberalismo. Ché, se gli uni e gli altri non sono ulteriormente compressi lo si deve al fatto che, abile nell’eluderli e limitarli, la classe dirigente di questo, non è abbastanza forte – e neppure per la verità del tutto decisa – a stravolgerli completamente. Non foss’altro perché sono gli unici legami di (residua) legittimità: le uniche “idee” attualmente “spendibili” sul mercato politico, se è vero, come, in parte, è vero, quanto sosteneva Fukujama sulla “fine della Storia”: che coincide ed equivale con la vittoria della democrazia liberale, nello scorcio del XX secolo, sull’ultimo grande antagonista ideologico, il comunismo (e, nella prima metà del secolo, era stato debellato l’altro antagonista, il nazismo).

3. Oltre la elusione/contrapposizione con la democrazia ed il liberalismo, al “doppio Stato” difetta quella che Hauriou chiamava l’ “idea direttiva dell’opera” da realizzare. La quale non manca del tutto, ma nel “doppio Stato” viene da un lato attenuata, dall’altro confusa (e aggravata) con scopi e finalità non peculiari alla funzione tipica dello Stato.

Scriveva Hauriou che “uno Stato è un corpo costituito per la realizzazione di un certo numero d’idee, le più semplici delle quali sono raccolte nella seguente formula: “attività protettiva di una società nazionale svolta da un potere pubblico a base territoriale, che è separato dalla proprietà della terra e in tal modo lascia un grande margine di libertà ai sudditi” (6). Nel pensiero di Hauriou il ruolo dell’idea direttiva, nell’istituzione, è fondamentale: quando la definisce per l’istituzione-Stato, il primo termine che usa è per l’appunto, “l’attività protettiva”, ovvero quella stessa attività (e dovere) del Sovrano a fondamento, secondo Hobbes, dell’obbligazione politica. Nello Stato moderno l’attività protettiva è strettamente collegata alla tutela dei beni “temporali” da parte dello Stato, e, in pari misura, svincolata da altri “ambiti” rimessi ad altre istituzioni o alla coscienza e attività individuale.

Giustamente Hauriou definiva “l’idea direttiva” ciò che altri chiamano, con minore proprietà espressiva, scopo e funzione. Perché, come spiegava, lo scopo è un che di esterno all’istituzione, mentre questa le è interna (7). In realtà lo Stato moderno non è separabile da alcune connotazioni fondamentali, ne è qualcosa di così “tecnico” e strumentale da potersi piegare ad agni scopo e obiettivo, senza essere snaturato, sì da trasformarsi in una diversa forma politica: di cui la storia è piena. Il fatto che l’idea sia interna all’istituzione significa (anche) questo; che non è possibile dissociarla da quei connotati fondamentali, delineati dall’ “idea direttiva”. Uno Stato che dia poco o punto protezione, e, di converso, organizzi feste, processioni e vernissages sarà un’istituzione, anche commendevole, spiritualmente elevata, ludica, culturale ma non lo Stato come correntemente inteso nell’età moderna. Come all’idea di Stato è connaturale la protezione, così la distinzione tra scopi temporali e di altra natura, “spirituale” soprattutto. In effetti, lo Stato è frutto di un processo di secolarizzazione, il cui significato era di recidere i legami tra cielo e terra, limitandone l’azione ai beni “temporali”. Ma la distinzione/contrapposizione - primaria – tra potere “spirituale” e “temporale” – oggetto delle speculazioni dei teologi e dei filosofi del XVI e XVII secolo sopra cennate - non era, né è, limitata al fattore religioso, che l’ha condizionata e “generata” all’inizio. Era indirizzata, più in generale, contro ogni potere “spirituale”, che pretendesse di piegare ai propri fini l’attività dell’autorità politica. La rivendicazione della libertà di coscienza, per esempio, nata per superare i conflitti religiosi, e servita per risolverne tanti altri, ha questo duplice aspetto: se da un lato rende intangibile l’opinione individuale, per la stessa ragione “legittima” uno Stato che la salvaguardi, non pretendendo d’imporre verità pubbliche ai cittadini.

Anche se i teologi riformati e cattolici sottolineavano (non tutti come è noto, ma tra gli altri Lutero, Calvino e Bossuet), l’istituzione divina dell’autorità temporale, (il cosidetto “potere costituente” di Dio), fondato sul celebre passo di S. Paolo “ommis auctoritas a deo”, e il carattere di rappresentanti di Dio delle autorità temporali, non era riconosciuto alle stesse né il perseguimento di fini “spirituali”, né generalmente di “invadere” la libertà di coscienza (8). L’istituzione divina dell’autorità secolare non legittimava la cura, da parte della medesima, di scopi diversi da quelli temporali.

Il fatto che tale concezione, sia nata sul terreno della libertà religiosa, che era allora il punto di generazione dei conflitti più virulenti, non significa che questa, la quale è stata la prima neutralizzazione operata dallo Stato (e dall’idea di Stato) sia l’unica, e soprattutto che non sia parte di un conflitto più esteso: quello tra potere temporale e spirituale, e di una soluzione anch’essa più generale; ovvero della concentrazione (ed auto-limitazione) delle funzioni dell’ (allora nascente) Stato moderno.

Quanto al conflitto, è chiaro che sostituendo al termine “Chiesa” un altro qualsiasi come ideologia, partito ed anche clubs, movimento e perfino critica abbiamo le forme più “moderne” della stessa contrapposizione. Quanto al secondo, e cioè la concentrazione (autolimitazione e neutralizzazione) degli scopi e funzioni statali, è insita nella “natura” dello Stato moderno, la cui caratteristica protettiva fondamentale è confermata dal monopolio della violenza legittima che ha acquisito. Questo non avrebbe senso razionale (e sarebbe solo un attributo – odioso quanto indispensabile – di una conquista “interna”), se non fosse strettamente collegato all’idea (ed al “dovere”) di protezione. Il fatto che la forma-Stato abbia ottenuto tale monopolio e non quello delle indulgenze, o della produzione agricola e/o industriale, o degli spettacoli, è la migliore conferma dell’idea direttiva di protezione. Non si capirebbe perché siano stati “espropriati” tutti i poteri (e le stesse facoltà individuali) di difesa collettiva, se questo non fosse costituito essenzialmente intorno a quella. Con la conseguenza che mentre scopi e finalità sono “esterni” all’idea di Stato, il dovere di protezione ne determina l’idea direttiva, e se questa è correttamente intesa, l’istituzione li assume solo in funzione – e per rendere effettivo – il dovere di protezione, intrinseco “all’idea direttiva”. Se uno Stato è informato, come la Repubblica italiana, ai principi democratico, personalista, lavorista, e così via; se ha tra i propri fini (costituzionali) quello di fornire istruzione, casa e sanità a tutti o se avesse invece come principi quello aristocratico, monistico o la conservazione e tutela della religione e dell’etica cattolica; e tra i fini quello di fornire a tutti i mezzi di locomozione, onde rendere effettivo l’art. 16 della Costituzione, o di assicurare i pubblici divertimenti; tutti questi, ed altri principi, scopi, funzioni, determinano l’attività dello Stato (e dei suoi organi) e tipo e forma dello stesso, che può assicurare - o agevolare – altrettanto la proprietà della casa, o la presenza alle cerimonie religiose, la salute dei cittadini, o i loro divertimenti. Ma perché sia uno Stato, in senso moderno, occorre che da una parte, il dovere di protezione sia osservato, e dall’altra, che mezzi, principi, scopi e funzioni più svariate non ostacolino, o peggio, prendano il sopravvento su quello. A comprovare la differenza essenziale tra l’idea direttiva e le varie funzioni, attività, scopi dello Stato ( in se rimessi alla volontà politica) c’è che quelle possono cambiare – e in genere mutano secondo i tempi e i luoghi, anche in relazione al confine “mobile” tra pubblico e privato (così il processo modesto di privatizzazione iniziato negli ultimi anni in Italia, è esattamente l’inverso di quanto compiuto negli anni ’30, e anche successivamente), ma il dovere di protezione – e il correlativo d’ubbidienza – non mutano. Questo è una costante: gli altri delle variabili, importanti quanto si voglia, ma che non toccano l’essenza dell’istituzione e dell’idea direttiva della stessa: sono meramente accidentali rispetto a quella: e in ciò consiste la differenza sostanziale (9).

Se però al posto della protezione, che costituisce il dovere primario dello Stato e il “baricentro” dello stesso, gli altri scopi prendono il sopravvento o anche un ruolo “paritario”, è la stessa essenza dell’istituzione che viene ad essere compromessa.

4. La definizione (e distinzione) di Hauriou, e le conseguenze che ne discendono, è spesso, oltre che ignota, offuscata dalle diverse accezioni del termine Stato e dal significato che loro è attribuito dai più. S’intende che tali definizioni, il cui criterium differentiae è vario, sono generalmente legittime e condivisibili nel loro, specifico, campo: così definire lo Stato come una forma di potere, o un ordinamento giuridico è perfettamente accettabile dall’angolo visuale in cui ci si pone. Tuttavia una identificazione, in particolare, è, ad un tempo, valida quanto fuorviante: quando lo si fa coincidere, nel linguaggio corrente, con l’apparato del medesimo, ovvero il complesso degli organi, enti ed uffici che lo compongono, delle attività che espletano e del personale che li sovrintende. In realtà, se questo è “Stato”, non è l’idea di Stato, e tantomeno è l’unica “definizione” possibile di questo. Tuttavia nel linguaggio corrente, questa identità è quanto mai diffusa – anche perché riguarda l’aspetto più “visibile” – al punto da mettere totalmente in ombra ogni altra. E generare confusioni. Così coloro che si dichiarano anti-statalisti, in genere, si richiamano (sia pure con una certa confusione o inconsapevolezza) all’idea di Stato di Hauriou ed intendono per Stato, che vorrebbero limitare, le amministrazioni e la loro invadenza nel “sociale”; mentre coloro che sono “statalisti” (ma, in genere, non lo dichiarano), all’inverso giudicano positivamente lo Stato “tuttofare” ma non ne comprendono (o ne rifiutano, in tutto, o, per lo più, in parte), di solito, l’idea. Così gli statalisti “ideali” sono gli anti-statalisti “materiali” e viceversa. In effetti se ambedue le accezioni del termine sono legittime, non lo è la loro confusione: specie quando in un eccesso di identificazione, si giunge a quella dello Stato (o dell’istituzione) col funzionario pubblico (magari, di fatto cercando di applicare – di fatto se non di diritto - a favore di questi il principio “the King can do no wrong”, che (giustamente) pensato per il Sovrano, è un abbaglio , pericoloso quanto illegittimo, per l’amministratore).

5. In realtà confondere lo “Stato” con la pubblica amministrazione, e quindi, in particolare, con la burocrazia, significa confondere, oltre che “idea” e “materia”, fini e mezzi. Le amministrazioni sono infatti i mezzi di cui lo Stato si avvale per adempiere il compito di cui “all’idea direttiva” ed agli scopi fissati: per le amministrazioni (e le burocrazie) il fine è assolvere il compito dell’istituzione, come voluto nell’idea direttiva e negli scopi specifici.

Invertire questo rapporto significa porre il fine al posto dei mezzi e questi in luogo di quello. D’altra parte il sostituire “all’idea direttiva” fini e scopi diversi è, come cennato, snaturare l’essenza dello stato. Hegel, scrivendo del rapporto tra Chiesa e Stato, ricordava come, se quella prende il sopravvento su questo, intende lo Stato come una “meccanica armatura di legno…se, quindi, come fine a se stessa, e lo Stato soltanto come un semplice mezzo” (10). Questa “meccanica armatura di legno” è il modo d’intendere lo Stato di tutti coloro che non ne colgono la natura essenziale, e si servono dell’apparato (e in un certo senso, della stessa “idea”) per scopi affatto estranei a quella.

Nel “doppio Stato”, da un lato tale funzione precipua dell’istituzione è, come detto, attenuata, dall’altra confusa con altre idee (e scopi, e attività). Che così divenga scarsamente “protettivo” è cosa ripetuta spesso; che confonda i fini normali e il compito principale con altri va (brevemente) approfondito.

Lo Stato (e il concetto del medesimo) ha come idea direttiva la protezione dell’esistenza comunitaria: di fronte a tale compito, la stessa garanzia dei diritti individuali è collocata in secondo piano. Basti ricordare, all’uopo, che nelle situazioni d’emergenza, lo stesso diritto alla vita dei cittadini può essere sacrificato per salvare l’esistenza collettiva. A maggior ragione quindi sono posti in second’ordine quegli altri scopi, che pur meritevoli di tutela, sono comunque secondari rispetto al fine primario mancando il quale non possono essere salvaguardati e/o conseguiti. In questa limitazione (autolimitazione) e graduazione dei compiti si trova uno dei caratteri essenziali dello Stato moderno, se non il principale. Dove tale graduazione non sia osservata e concretamente perseguita la stessa esistenza dell’istituzione e della comunità è posta in forse. Ai bizantini decadenti del XV° secolo parve preferibile conservare la propria autonomia religiosa sotto i Turchi che salvare la propria esistenza politica con l’aiuto della cristianità occidentale, condizionato alla sottomissione all’Autorità papale: in quel caso la decisione per l’esistenza non fu presa, e le si preferì l’indipendenza spirituale a prezzo dell’asservimento politico.

Ora, laddove “all’idea direttiva” siano sostituiti o affiancati (e non subordinati) obiettivi diversi, è lo stesso Stato, come cennato, ad esserne snaturato.

Se la politica - e lo Stato - hanno come fine di proteggere i componenti della comunità dai nemici esterni e dalle violenze interne, l’una (e l’altro) vengono meno a questo se le si attribuiscono come fine primario quello di un’altra attività umana. Per esempio, se per aumentare il reddito nazionale si rinuncia alle spese per la difesa, col risultato di perdere l’indipendenza.

Così del pari, una politica che invece di evitare il peggio vada alla ricerca ed all’attuazione del “bene”, variamente identificato in uno o molti obiettivi, è, in genere, una politica fallimentare, o almeno una politica che tradisce le proprie finalità specifiche, e non è più tale. Insuccesso che ha come conseguenza, non limitata alla perdita del potere, il tradimento dello scopo della politica e dello Stato, cioè della protezione. Il tentativo in questo secolo di realizzare l’utopia “scientifica” del marxismo - leninismo, non si è risolto solo in un crollo per implosione - e cioè nella perdita del potere da parte di (quasi) tutti i partiti comunisti per effetto di una crisi interna - ma in una straordinaria perversione dei fini della politica (e dello Stato moderno). Consumatosi in sterminii di massa, per cui lo Stato, invece di essere il protettore delle comunità, organizzava il terrore collettivo, in base al quale (e al fine di realizzare l’utopia) pretendeva obbedienza.

Lo Stato moderno, a ben vedere è, di converso, organizzato in funzione della massima machiavellica di prendere “il meno tristo per buono”; perchè la funzione dello Stato è concepita essenzialmente in negativo, almeno rispetto alle altre attività umane. Non si pretende dall’istituzione che promuova il meglio nell’arte, nell’economia o nella morale, né, soprattutto, di conseguire degli obiettivi utopici o millenaristici.

In fondo il totalitarismo di questo secolo, sotto tale profilo, è il massimo della politicizzazione proprio perché estendeva le funzioni e i mezzi della politica a fini diversi e spropositati (“l’uomo nuovo”, “la società senza classi”, il “Reich di mille anni”), e nel far ciò, piegava a questi, e governava con i mezzi della politica, quasi ogni ambito dell’esistenza umana. Negando così la funzione “normale” dello Stato e della politica: la tutela dell’esistenza; anzi, è la comunità (e l’istituzione) a diventare il mezzo per scopi più “elevati”. E che, proprio nel totalitarismo, in questa estensione illimitata della “politica” ad ogni ambito, vi sia la negazione dell’idea di Stato – o la sua attenuazione – è provato dal fatto che ambedue le ideologie totalitarie del XX secolo, la portavano (teoricamente), in se. Il comunismo lo considerava come una forma momentanea, destinata a deperire ed estinguersi nella società senza classi, risultato dello sviluppo del socialismo (e “fine della storia”). Il nazismo anch’esso “attenuava” lo Stato (e l’idea di Stato), non solo con l’armamentario bio-ideologico della razza, ma come (implicitamente) notato da Schmitt, nel fare del movimento il principale soggetto attivo della politica (11); così togliendo allo Stato il carattere di punto principale, di baricentro (istituzionale) dell’unità politica. Appartiene poi al magazzino inesauribile dell’eterogenesi dei fini, osservare come da queste negazioni, totali o parziali, e stravolgimenti dell’idea di Stato, siano nate le forme di potere più oppressive e invadenti della storia: lo statalismo pratico è figlio dell’anti-statalismo teorico. Il doppio Stato con il suo perseguimento di scopi diversi e il trascurare la funzione protettiva è la versione edulcorata, anomica (e anemica) di quello totale, che non conoscendo limiti alle proprie attività, le politicizza tutte, col risultato di tradire – in minore o maggiore misura – la principale. Nel garantire poco la protezione, tutela, altrettanto poco, anche la libertà: cioè i due caposaldi della definizione di Hauriou da cui siamo partiti. Nel pretendere il perseguimento di scopi e promuovere attività che meglio sarebbe affidare alla società civile, il doppio Stato confonde “temporale” e “spirituale”, funzioni pubbliche e private, fine e mezzi, potere ed autorità, potestates directae e potestates indirectae: è, insomma, la vera republique prêtre stigmatizzata da Marx.

Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE (1)In realtà contro la democrazia c’è un lungo armamentario di argomentazioni: tutto è buono per impedire al corpo elettorale di esprimersi. Tra gli argomenti più improbabili, c’è quello del costo delle elezioni, di cui ci si serve, in particolare, contro gli scioglimenti delle Camere ed in occasione delle amministrative non “turnate”. Il fatto che tali costi siano modesti, e connaturali alla democrazia non turba certi critici: che se fossero coerenti e seri, dovrebbero sostenere la monarchia e l’aristocrazia ereditarie, dove i parti tengono luogo – per la successione al potere – delle elezioni, con indubbi risparmi. (2)Lineamenti di filosofia del diritto, prgrf. 297. (3)V. Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, con introduzione di U. Cerroni, Roma 1983, pp. 68-69. (4)Rapporto del 19 vendemmiaio dell’anno II nel volume “I giacobini” Firenze 1978, p. 83. (5)Rapporto del 23 ventoso dell’anno II, op. cit., p. 87. (6)v. M. Hauriou, Teoria dell’istituzione e della fondazione, p. 15; nel Prècis de droit constitutionnel, scriveva: “la forme de l’institution, qui est son élément durable, consiste en un système d’équilibres de pouvoirs et de consentements construit autour d’une idée” e proseguiva “De ce point de vue, non seulement les idées mènent le monde, mais elles le soutiennent et le font durer. A côté des courants d’idées et d’opinion, qui sont souvent des formes de changement, se trouvent les idées d’entreprises, qui sont des forces de durée Les institutions reposent tellement sur la force des idèes, que certains peuples et certaines races sont incapables de posséder des institutions, parce que les idées n’ont pas sur eux une action suffisante”. (7)Hauriou scriveva: “Una seconda differenza, connessa alla prima, è che nell’idea direttiva è insito un piano d’azione e di organizzazione che oltrepassa notevolmente la nozione di scopo. Quando si dice, a proposito dell’idea dello Stato, che è quella di un’attività protettiva della società civile nazionale, l’idea di attività ridesta quella di una certa organizzazione e di un certo programma d’azione; se si parlasse di scopo dello Stato, lo si farebbe consistere nella protezione della società civile nazionale, il che susciterebbe solo l’idea di un risultato: la differenza tra programma d’azione e risultato corrisponde bene a quella che c’è tra l’idea direttiva e lo scopo” v. M. Hauriou, Teoria cit., p. 16. (8)A leggere la “Cleri gallicani de ecclesiastica potestate declaratio” secondo molti redatta da Bossuet , è chiaro che accanto alla negazione della potestas indirecta pontificia, c’è la riserva a favore del potere ecclesiastico, di ogni questione attinente ai “bona spiritualia”; parimenti Lutero salvaguarda “il foro interiore” (sia dal potere temporale che da quello ecclesiastico): scrivendo “nessuno può o deve dare ordini all’anima dato che non ha il potere di indicare la strada del cielo. Ciò, nessun uomo lo può fare, ma solo Iddio. Quindi, nelle cose che riguardano la salvezza delle anime, non bisogna insegnare né accettare nient’altro che la parola di Dio”, (v. M. Lutero, Oeuvres, Tomo IV, “Sull’autorità temporale” Ginevra, 1960 p. 32ss. (9)Basti all’uopo notare che assumere come fine p. es. l’istruzione pubblica significa apprestare mezzi, personale, e regole perché tutti i cittadini possano usufruire del servizio. Il che richiede che tali attività siano “protette” prima che esercitate dall’apparato statale e dal diritto; tutti: scopi, funzioni, principi, presuppongono la protezione e i poteri d’imperio connessi. (10)v. Hegel op. ult. cit. trad. it., ristampa, Bari 1974 p. 260. (11)v. Staat, bewegung, volk, trad. it. ne I principi politici del nazionalsocialismo, Firenze 1935 pp. 185-190.



Pubblicazione del: 21-03-2009
nella Categoria Dottrina dello Stato e Diritto Costituzionale


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