Sulla filosofia morale e politica del XVIII secolo-Luis de Bonald-Vol.25-
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LOUIS DE BONALD
SULLA FILOSOFIA MORALE E POLITICA DEL XVIII SECOLO
(6 OTTOBRE 1805)
PRESENTAZIONE
Questo breve saggio di Louis de Bonald (ora in Mélanges Litteraires, politiques, philosophiques –Paris 1838) è presentato dal Behemoth per l’interesse che riveste nell’evoluzione della “teologia politica”. Infatti dopo il famoso saggio di Carl Schmitt (Politische Theologie, ora ne “Le categorie del politico”, Bologna 1972), il cui terzo capitolo si apre con la frase “Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”, è usuale, almeno per chi condivide il fecondo parallelismo tra teologia e Staatslehre, notare i nessi e le analogie tra visione dell’essere e forma dell’unità politica, tra concezione metafisico – teologica del mondo e rappresentazione della società e del potere. Meno frequentato, ma non meno importante, è un altro aspetto, che è quello principale in questo breve saggio di de Bonald, in cui è collegata la visione teologica non (solo) alla forma istituzionale (cioè allo Stato), ma alle concezioni dei movimenti politici. Si potrebbe, con un espressione limitativa, parlare a tale proposito di teologia “partitica”, in cui il grande controrivoluzionario individua ed espone quello che poi sarà ripetuto da Donoso Cortès nell’Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo: il rapporto “strutturale” tra la rappresentazione della Divinità di cristiani (teisti), deisti ed atei, e la concezione della società politica di monarchici (controrivoluzionari), liberali e democratici-radicali (giacobini) (quest’ultimi poi “sostituiti”, nel pensiero di Donoso Cortès, tributario alla mutata situazione politica, dai socialisti). Un’idea, quella del rapporto tra religione e, “rappresentazioni” della politica, (e comportamenti relativi) ripresa più volte e da più autori: da Gustave Le Bon a Augustin Cochin, fino, in modo più sfumato, da Pareto. A De Bonald il merito di avere aperto la strada con questo saggio. T. K. Le ricerche dei filosofi dell’antichità avevano generalmente la morale per oggetto: gli studi dei filosofi del XVIII sec. sono stati quasi esclusivamente indirizzati alle scienze fisiche. Gli antichi non potevano occuparsi dell’essere intelligente, della natura, dei suoi doveri e del suo fine, senza elevarsi alla contemplazione dell’essere sovranamente intelligente; e il più celebre dei loro saggi ci ha lasciato a un tempo un trattato sui doveri dell’uomo, e un trattato sulla natura degli dei. I moderni, intendo quelli del XVIII sec., fermi all’osservazione delle cose materiali, considerando tutto nell’universo, e l’uomo, e anche la morale, sotto dei rapporti materiali, non si trovano mai sulle vie che portano all’essere immateriale; e se qualcuno, più meditativo e curioso, vuole risalire attraverso il ragionamento fino alla ragione di tutte le esistenze corporee, non la cerca al di fuori dei corpi stessi, cui attribuisce, all’occorrenza, tutte le qualità degli enti spirituali: come l’eternità all’estensione, la sovranità al numero, e il pensiero al movimento: dato che la sensazione, dalla quale fanno derivare tutte le idee non è che un movimento eccitato negli organi, all’occasione, dagli oggetti esteriori. La filosofia dei moderni, seriamente approfondita, e ridotta alla sua più semplice espressione, è quindi l’arte di trascurare l’essere sovranamente intelligente, la divinità, nella formazione e conservazione dell’universo, nel governo della società, nella direzione stessa dell’uomo: e quelli che si oppongono a una dottrina così pericolosa, possono rispondere, attraverso questa definizione, al rimprovero che gli fanno i settari di non conoscerla, o perfino di non pigliarsela che con un essere di ragione; dopo avere, in mezzo secolo, cercato di diffondere i principi di questa filosofia o d’esaltare i benefici che ne derivano, sembra che si voglia cambiare la tesi, e negarla fino alla sua esistenza. Lo ripeto: la filosofia moderna non è altro che l’arte di spiegare tutto, di regolare tutto senza il concorso della Divinità. E di qui provengono queste formule derisorie, così spesso impiegate negli scritti dei filosofi dei nostri tempi, tutte le volte che vogliono contestare o indebolire la fede dovuta alle dottrine religiose e alle rivelazioni divine, senza compromettere la loro tranquillità o la libera circolazione dei loro scritti: umanamente o filosoficamente parlando; senza pretendere alterare la certezza delle scritture divine, ma cercando di spiegare attraverso dei mezzi naturali, ecc. ecc., e mille altri simili, che non sono altro che astuzie oratorie per negare o per combattere tutto quello che si ha l’aria di rispettare. La filosofia dei moderni è quindi essenzialmente atea, in tutta la potenza di questa espressione; atea nei principi, in alcuni, i quali negano ogni esistenza di un essere supremo; atea nelle conseguenze in altri, che negano la sua azione nel mondo, e la sua presenza in mezzo agli uomini. Questa distinzione fondamentale d’ateismo di principio, e d’ateismo di conseguenza, forma le due grandi divisioni della filosofia morale dei moderni, nell’ateismo propriamente detto, e nel deismo che non è, secondo Bossuet nella storia delle Variazioni, che un ateismo mascherato. Mi affretto a prevenire il lettore; sono lontano dal pensare che coloro i quali fanno professione di deismo siano atei. Dico solamente, ed è molto diverso, che il deismo conduce all’ateismo o piuttosto, con Bossuet, che è un ateismo simulato; travestito e non solamente agli occhi del pubblico, ma dei deisti stessi. Quindi che ci siano o no degli atei in buona fede, mi sembra certo che ci sono deisti senza malizia, i quali hanno ricevuto la loro dottrina tutta confezionata da qualche scrittore che riveriscono come un grande filosofo, perché essi ne ammirano la prosa e i versi, e si addormentano quieti nelle loro opinioni, senza troppo riflettere se sono giustificate attraverso la ragione, o segretamente ispirate dalle passioni. In fondo vi sono pochi uomini che tirano rigorosamente le conseguenze dai principi che professano, o dei quali si occupano; la maggior parte vive sui propri principi, un po’ come i dissipatori sui loro capitali. Gli inventori stessi di nuovi sistemi morali, limitati nella loro preveggenza, più limitati ancora dalla durata della vita, non possono giudicare i risultati della loro dottrina. L’esperienza è il segreto del tempo, e questo non lo rivela che alla società, la quale sopravvive all’uomo e ai suoi sistemi, e, nella sua lunga durata, raccoglie presto o tardi i frutti dell’albero che ha visto piantare: paragone preso dal grande libro della morale, che ci insegna a giudicare i dottori e le dottrine per i loro frutti: a fructibus eorum cognoscetis eos. Ritorno all’opinione di Bossuet sul deismo. La conclusione che trae è severa; ma essa è di Bossuet, cioè di uno dei più grandi e dei migliori spiriti apparsi fra gli uomini, e che si era esclusivamente concentrato sullo studio delle scienze morali; molto diverso dai nostri filosofi, i quali gravemente occupati di poesia, di romanzi, di scienze fisiche, o delle piacevolezze dell’arte, hanno fatto della morale uno svago per loro e un gioco per i lettori. Ma prima di giustificare la tesi di Bossuet, è necessario esporre in breve le diverse opinioni o credenze che dividono le opinioni sull’esistenza e la natura di un essere supremo, e sui suoi rapporti con la società umana. L’ateismo nega ogni esistenza di un essere intelligente superiore all’uomo: e, conseguente con se stesso, nega che una volontà suprema, un’azione onnipotente, una saggezza infinita, abbia dato esistenza all’universo, vita all’uomo, legge alla società. Dio per gli atei non è che la materia eterna, l’uomo non è che la materia organizzata (1), prodotto del caso, che deve finire nel nulla. All’estremità opposta del pensiero umano se, ci si può esprimere così, il vero teismo, o cristianesimo, insegna l’esistenza di un essere supremo, che ha fatto tutto per sua volontà, tutto regolato con la sua saggezza, e che, realmente presente all’universo, conserva ogni cosa attraverso la sua provvidenza, sia gli esseri corporali, dei quali il nostro spirito riconosce le immagini, che gli enti intellettuali, dei quali la nostra ragione concepisce le idee. Questa causa universale ha collocato gli esseri materiali in un ordine di leggi fisiche, oggetto di ricerche dell’uomo, soggetto permesso alle sue dispute: gli esseri intelligenti o socievoli, li ha regolati in un ordine di leggi morali fondamento di ogni società, oggetto (2) di conoscenza dell’uomo, e più ancora dei suoi sentimenti, e regola dei suoi doveri o freno alle sue passioni. L’insieme di queste leggi, fisiche e morali, costituisce la natura, che è, propriamente, la legislazione universale del supremo legislatore, il codice delle leggi divine che assicurano la conservazione degli esseri creati, e alle quali questi non possono sottrarsi senza perire. Ma gli uni, ovvero gli esseri fisici, ne sono assoggettati come schiavi, e solo la forza può sottrarveli; mentre gli esseri intelligenti obbediscono alle loro leggi senza costrizione, sempre liberi di non sottomettersi. Così gli esseri fisici, lasciati a se stessi, obbediscono alle loro leggi, tali i corpi gravi, per esempio, alla legge di gravità; ma l’uomo, abbandonato a se stesso non obbedisce sempre alle leggi della morale e della ragione. Queste due dottrine, l’ateismo e il teismo, sono altrettanto opposte fra di loro nella disciplina dei costumi, che nelle credenze speculative. Il cristianesimo, o il puro teismo, è severo, inflessibile; regola l’uomo interamente: ne illumina i pensieri, ne ordina gli affetti, ne dirige le azioni; gli insegna la verità, gli comanda la virtù, gli consiglia la perfezione, e pone per il suo spirito e per i suoi sensi, non degli ostacoli che ne impediscono l’attività, ma limiti che ne dirigono il comportamento. Esso promette ricompense al fedele, castighi al malvagio; pene e ricompense eterne come il Dio vendicatore e remuneratore, infinite come la bellezza della virtù o la deformità del vizio. L’ateismo, che scambia una vaga audacia di pensiero per forza e illimitatezza della ragione, e l’indipendenza delle azioni per la loro libertà, nega la verità, nega la virtù, nega il bene, nega il male, nega ogni altro dovere eccetto quello della conservazione fisica. Dice all’uomo che i suoi interessi sono la sola regola delle sue azioni, le sue forze, la sola misura delle sue gioie, la paura delle leggi umane, l’unico limite ai suoi desideri; senza rimprovero, dato che non viene accusato; e innocente, dato che non è punito. La dottrina degli atei è quindi tutta negativa, o espressa in negazioni; la dottrina dei teisti, tutta positiva, o in affermazioni. La verità è quindi nell’una o nell’altra, e non può essere da nessun’altra parte. Perché la virtù, che è relativa, può trovarsi a eguale distanza tra due estremi opposti, mentre la verità, sempre assoluta, non è mai se non nell’uno o nell’altro estremo. Così l’amore per il prossimo che è una virtù, ha dei gradi: dalla carità che dona, si arriva fino all’eroismo che si sacrifica; il pudore , anch’esso una virtù, ha gradazioni diverse, come nella ragazza nubile, o nella donna sposata: ma la verità non ne ha, e una stessa proposizione non può essere più o meno vera, come un’azione è più o meno virtuosa. Questa proposizione, eminentemente filosofica, è troppo forte per degli uomini di una certa tempra di spirito e di carattere. La verità sembra loro un eccesso, come l’errore. Troppo saggi per fermarsi a questa, troppo deboli per elevarsi fino a quella, essi restano nel mezzo, e danno alla loro debolezza il nome di moderazione e di imparzialità: dimenticando che se bisogna essere imparziali fra gli uomini, non si può, in morale, restare indifferenti fra le opinioni. Anche Lacratelle, nella Storia della Rivoluzione, sorpreso di quel rapporto fra debolezza di carattere e imparzialità nelle opinioni, scrive con ragione: “E’ ben triste che siano quasi sempre degli uomini senza carattere, a fregiarsi del titolo d’imparziali”, titolo usurpato sicuramente; perché, nella lotta della verità contro l’errore, più colpevole della parzialità è la pretesa imparzialità degli indifferenti. In quello che noi stiamo per dire del teismo e dell’ateismo, la ragione intravede un mezzo per generalizzare le idee, e di ridurre a una più semplice espressione le opinioni opposte. Infatti ci si accorge che queste due dottrine, l’una positiva, l’altra negativa, l’una che afferma l’esistenza dell’essere supremo con tutti i suoi attributi, l’altra che la nega, si riducono in fondo alla presenza della Divinità, o alla sua assenza dall’universo; termini tra i quali non è più possibile all’intelletto di concepire un termine medio, come fra il si e il no, l’essere e il nulla. Così l’ateismo è l’assenza della Divinità; il teismo è la presenza (3): e notate come la presenza reale della Divinità tra gli uomini, o altrimenti la realizzazione esteriore dell’idea astratta della Divinità, è il dogma fondamentale del cristianesimo, in tutte le confessioni, che tutte credono a questa presenza corporale, manifestata una volta alla società 18 secoli fa, e delle quali la più numerosa e più anziana, crede che è permanente nella società, anche corporalmente, sebbene in un’altra forma. Così, teismo e ateismo, presenza o assenza della Divinità, formano i fondamenti di tutte le dottrine irreligiose o religiose, o, se si preferisce, morali o immorali di tutte le epoche ; e non è possibile alla ragione di concepire una credenza intermedia, più che al linguaggio di esprimerla. Tuttavia, fra queste due dottrine estreme, opposte, si individua una terza opinione, timida, incerta, variabile che si crede saggia, perché ella è debole; imparziale, perché è indecisa, moderata, perché sta nel mezzo. Questa dottrina è il deismo, che porta perfino nella sua denominazione, il carattere inconseguente tipico delle sue opinioni. Perché non si è potuto designarla che attraverso la parola d’origine latina di deismo, che è assolutamente la stessa che la parola greca di teismo, ma esprime un’idea molto differente. In effetti il deismo riconosce un Dio come il teismo, o piuttosto lo nomina: ma il suo Dio, essere puramente astratto e ideale, è cieco, sordo e muto, vero idolo, che ha degli occhi per non vedere, delle orecchie per non sentire, delle mani per non agire, un’intelligenza senza parola o senza espressione al di fuori. Se il deismo qualche volta ammette un Dio creatore, esso nega il Dio conservatore, o la Provvidenza, e non gli attribuisce né influenza sugli avvenimenti del mondo, né rapporto reale e positivo con l’uomo. E, per rendere impossibile ogni rapporto fra Creatore e creatura, esagera anche la bassezza dell’uomo, se possibile, fino alla grandezza di Dio; ai suoi occhi ogni comunicazione reale di Dio all’uomo è una chimera, e ogni rivelazione positiva un’impostura. Se ritiene che l’anima sia immortale, questa immortalità è senza scopo e senza oggetto; perché come questa dottrina neutra e versatile non riconosce, in fondo, né il bene né il male assoluto, essa rigetta ogni pena infinita, anche quando ammette l’indefinito in ricompensa. Il deismo denota nelle cose pratiche la stessa incoerenza che nelle opinioni speculative. Esso vorrebbe un culto e punti di preghiera, dei templi, ma senza altari; una religione, senza sacrifici; della temperanza, e nessuna prescrizione; della virtù, senza perfezione; qualche precetto, ma nessun consiglio. Predica la fatalità, e vuole che crediamo al rimorso. Ugualmente colpito dalla severità del cristianesimo e dalla licenza dell’ateismo, vorrebbe rinforzare questo qui, indebolire quello là; ma non sa, in fondo, quello che deve togliere ad uno e aggiungere all’altro. Passando senza tregua dalla licenza alla severità e ritornando dalla severità alla licenza, disposto qualche volta a superare l’austerità cristiana nella disciplina dei costumi, e indignandosi perfino contro la sua facilità a perdonare gli errori dovuti alla debolezza umana, ma abbandonandosi, di converso, a tutta la licenza dell’ateismo nei principi delle leggi. Così condanna l’adulterio, e autorizza il divorzio. Ma dato che il deismo si trova fra due dottrine ugualmente forti e conseguenti a se stesse, cercando equilibrio e non potendolo trovare, ritorna ai punti di partenza e ora si riavvicina al cristianesimo, quando un governo attento frena il progredire delle sue opinioni, ovvero cade in tutti gli eccessi dell’ateismo, quando le circostanze lo riportano alla sua inclinazione naturale: dottrina tutta in declamazioni quando vuole edificare: tutta in sofismi e in sarcasmi quando vuole distruggere; che si tiene più che può lontana dalla precisione di un ragionamento stringente; zuccherosa e dissimulata fintanto che è contenuta; altezzosa e violenta quando trionfa; per sistema, nemica dei re, e per calcolo, chiama il popolo al potere, come un bambino incapace di governarsi da se stesso, e che la propria debolezza tiene in un’eterna minorità. Il teismo, l’ateismo e il deismo si dividono quindi la sfera più alta del pensiero umano, o piuttosto se la disputano. In effetti gli atei non si accordano più con i deisti che con i cristiani, come i cristiani combattono tanto i deisti come gli atei. Perché il deismo come ogni Stato debole tra due grandi potenze che si fanno guerra, non essendo in grado di far rispettare la sua neutralità, non ha che dei nemici e nessun alleato. Gli atei si considerano più filosofi dei deisti, perché sono più conseguenti, mentre i deisti si guardano come filosofi più saggi, perché essi sono più equilibrati; e come il fariseo nel Vangelo, confrontandosi al pubblicano, rendeva grazie a Dio della sua pretesa giustizia, il deista, confrontandosi all’ateo si inorgoglisce, nel suo cuore, della sua pretesa ragione. Non parlo degli indifferenti a ogni fede: truppa numerosa, ingrandita dai disertori di tutte le parti, e unicamente occupata di piaceri o di affari. Costoro, per servirmi di una espressione che i nostri disordini civili hanno messo in voga, sono il ventre della società. Attendono gli avvenimenti e subiranno la legge del vincitore. I cristiani non sono tutti d’accordo fra di loro su ogni questione; e del pari, se convengono sul dogma, disputano sull’autorità. Ma come accade nelle guerre civili, quando gli stranieri approfittano delle divisioni interne per invadere le frontiere, le divergenze dei cristiani fra di loro hanno favorito il progresso dell’ateismo e del deismo; e spesso il partito più debole ha fatto, troppo spesso, causa comune col nemico. Si sa che i ministri di qualche comunione cristiana sono da molto tempo accusati di inclinare al deismo; e Voltaire, scrivendo al Re di Prussia, gli disse: “Non si trova più a Ginevra che qualche furfante che crede ancora al “consustanziale”. Che non si sbagli nel frattempo, cercando, nel deismo, un’unità di sistema, un corpo di dottrina uniforme e comune a tutti i deisti. Non c’è unità e coerenza che nelle opinioni conseguenti, sia nel bene, che nel male; e i cristiani da una parte e gli atei dall’altra, sanno nettamente ciò che credono e ciò che non credono. Ma ciò non è dei deisti, che, piazzati fra due opinioni estreme, vogliono stare in un luogo equidistante, impossibile da determinare, e ondeggiano senza posa da un’opinione all’altra, più vicini a quella o questa, seguendo lo spirito, il carattere e le passioni di ciascun individuo (4). “Se pesate le loro ragioni”, diceva J.J. Rousseau, che non seppe mai quello che era, “essi non ne hanno che per distruggere, se contate le voci ciascuno è ridotto alla propria: loro si accordano solo per discutere”. I deisti vorrebbero invano, piazzati fra i cristiani che affermano e gli atei che negano, passare per scettici. J.J. Rousseau toglie loro questa triste risorsa e nota con ragione: “che il loro scetticismo apparente è mille volte più affermativo e più dogmatico del tono deciso dei loro avversari”. Queste varianti del deismo sono tali che due uomini che vogliano darsi una ragione delle loro opinioni non si trovano mai deisti allo stesso modo, e corroborano la tesi di quelli che oggigiorno sostengono, magari un po’ in ritardo, che non c’è mai stata una filosofia del XVIII secolo, ma solo dei filosofi isolati. Senza dubbio, lo ripeto, si cercherà invano, in una dottrina neutra e senza conseguenzialità, l’uniformità e la coerenza della fede o dell’incredulità che non può trovarsi se non in una dottrina tutta vera o tutta falsa; ma, fermandosi solo al principio fondamentale di questa, e senza tenere conto delle sfumature, ne risulta che il deismo, considerato in generale, ammette l’idea di un Dio, ma nega la sua parola, la sua azione, la sua presenza nel mondo, e sostiene che il suo grande essere è una pura astrazione, un essere di ragione, senza realtà e senza influenza: di guisa che, tra il cristianesimo che è la presenza della Divinità, e l’ateismo, che ne è l’assenza, il deismo ammette una presenza ideale, una presenza insensibile, una presenza, per rendere appieno il mio pensiero, che non è presente: contraddizione nei termini, e per conseguenza assurdità nell’idea: ed è questo che spiega l’affermazione di Bossuet, che il deismo non è che un ateismo mascherato. Ed è possibile a una sana filosofia dimostrare alla ragione la verità di questa proposizione. Nell’uomo, essere contingente e finito, le qualità, o gli attributi, non hanno niente di necessario e non sono che delle modificazioni, o modi di essere più contingenti dell’essere stesso. Così l’uomo può, senza cessare d’essere, essere indifferentemente buono o cattivo, stupido o spirituale, come può essere ricco o povero, bianco o nero. Ma in Dio, essere necessario e di conseguenza perfetto, gli attributi, che non possono essere che delle perfezioni, sono inseparabili dall’essere, e più necessari dell’essere stesso. Così, dire che Dio è, ma che non è tutto quello che può essere; dire che l’onnipotenza non agisce; che la saggezza infinita non regola; che l’ordine supremo non dispone; che l’onniscienza non prevede; che l’immensità non è presente dappertutto; significa affermare che Dio è e che non è, nello stesso momento; è negare il suo essere nel medesimo tempo in cui lo si afferma; più o meno, se possono proporsi paragoni in questa materia, come se lo si dicesse della materia come essa è, o come ci sembra che sia; che esistono dei corpi, ma che essi non hanno né forma, né estensione, né solidità. Credo di non aver mancato, nella discussione, ai riguardi dovuti alle persone che si vuole avvertire dell’errore in cui sono caduti; e che mostrandomi deciso fra le opinioni, ho saputo conservare l’imparzialità verso gli uomini. Sono lontano dal concludere dai principi speculativi dei deisti alla loro condotta pratica. Tuttavia si vedono spesso degli uomini prevenuti o poco illuminati, tirar le conclusioni dalla condotta ai principi, e opporre, ai difensori del cristianesimo, come un’obiezione vittoriosa, le virtù di molti deisti, e i vizi di un troppo grande numero di cristiani. La risposta è semplice e precisa. Gli uomini che professano una dottrina falsa, sono spesso migliori dei loro principi, per carattere, per riflessione, perfino, a loro insaputa, per la segreta influenza di una dottrina migliore, nella quale essi sono stati educati, e che è generalmente professata dai loro conoscenti. Quelli al contrario che seguono una dottrina perfetta, non sono mai, e non possono proprio essere così buoni come i loro principi. Pertanto le virtù dei deisti, e i vizi dei cristiani, sono negli uni e negli altri, una pratica inconseguenza ai loro rispettivi principi, rigorosamente interpretati; ed è precisamente questa inconseguenza a rendere più rimarchevole, e quasi straordinari, le virtù di questi e i vizi di quelli, allorquando si nota con tanta affettazione le virtù di qualche deista, e, con tanta amarezza, i vizi di qualche cristiano. Poiché, come abbiamo detto altrove, parlando dei popoli pagani comparati ai popoli cristiani, non si notano le virtù che in un ordine di cose imperfetto; come di converso, si sottolineano i vizi più facilmente quando è perfetto l’ordine stabilito. Gli storici dell’antichità hanno lodato con ragione la continenza di Scipione a riguardo di una giovane principessa promessa in matrimonio, che la sorte delle armi aveva fatto cadere nelle sue mani; ma chi sarebbe oggi lo scrittore giudizioso che oserebbe fare, di un episodio simile, un titolo di gloria a un generale cristiano, anche se fosse un libertino? Mi ostino a ripeterlo: un grande numero di filosofi deisti, o anche gli stessi atei, hanno dimostrato, nei tempi più difficili, virtù degne del nostro rispetto e della giusta ammirazione degli uomini. Ma se le virtù private onorano l’uomo, solo le virtù pubbliche possono conservare la società. Le virtù private attengono al temperamento, al carattere, alla posizione stessa degli individui; le virtù pubbliche riguardano i principi di religione e di governo accolti nello Stato; e quali che siano le virtù domestiche dei filosofi dei quali noi esaminiamo le opinioni, è certo e riconosciuto che la loro filosofia scalza tutti i principi dal fondamento, e che ha potentemente concorso al rivolgimento dell’ordine sociale, col quale la rivoluzione francese ha minacciato l’Europa. Gli ulteriori progressi di questa rivoluzione sono stati fermati, è vero; tuttavia essa ha arrecato, all’ordine interiore della società, voglio dire, ai principi religiosi e politici, una ferita che sanguinerà per molto tempo, e che forse non sarà suturata che attraverso mezzi così potenti come il disordine è stato terribile. Non si crederà a noi, anche quando porteremo le prove. Ma si crederà, può darsi, a Condorcet, sulla vita del più fervente apostolo del deismo. Il passo è curioso, e prova, insieme, la forza di questa filosofia a distruggere e la sua impotenza a ricostruire; la vanità delle sue congetture, e l’illusione delle sue speranze. “Mi sembra che sia possibile”, dice questo scrittore, “di adempiere innanzitutto agli obblighi eterni che il genere umano deve a Voltaire. Le circostanze attuali (la rivoluzione) ne forniscono una bella occasione. Non ha visto tutto ciò che ha fatto, ma ha fatto tutto ciò che noi vediamo. Gli osservatori illuminati, quelli che sapranno scrivere la storia, proveranno a quelli che sanno riflettere, che il primo autore di questa grande rivoluzione che sorprende l’Europa, e spande in ogni dove la speranza nel popolo e l’inquietudine nelle corti, è senza dubbio Voltaire. E’ lui che ha fatto cadere la prima e la più formidabile barriera del despotismo, il potere religioso e sacerdotale. Se non avesse demolito il giogo dei preti, giammai si sarebbe rotto quello dei tiranni. L’uno e l’altro pesano insieme sulle nostre teste, così strettamente uniti che, una volta distrutto il primo, il secondo lo dovrebbe essere subito dopo. Lo spirito umano non si arresta più nella indipendenza che nella servitù. Ed è Voltaire che l’ha liberato, abituandolo a giudicare, sotto ogni profilo, chi l’asserviva. E’ Voltaire che ha reso popolare la ragione, e se il popolo non avesse imparato a pensare, non si sarebbe mai servito della propria forza. E’ il pensiero dei saggi a proporre le rivoluzioni politiche, ma è sempre il braccio popolare che le esegue. E’ vero che la forza del popolo può, in seguito, diventare pericolosa per esso stesso, e dopo avergli insegnato a farne uso, occorre fargli apprendere a sottomettersi alla legge. Ma tale opera posteriore, malgrado difficile, non è tuttavia, press’a poco, così lunga e penosa dell’altra”. I fatti dispensano da ogni commento, e mi affretto a passare alla filosofia politica. La filosofia politica europea si divide in altrettante opinioni, come quella religiosa. Questi partiti, sia politici che morali, sono tra di loro negli stessi rapporti, perché politica e morale sono la medesima cosa, applicate l’una al generale, l’altra al particolare, di guisa che la politica, correttamente intesa, dev’essere la morale degli stati, e la morale, rigorosamente osservata, la politica degli individui. Queste differenti opinioni politiche hanno avuto, nei nostri disordini, applicazione pubblica, peraltro recente. La democrazia, propriamente detta, rifiuta decisamente, nella società politica, ogni unità visibile e stabile del potere, e non vede il sovrano che nei sudditi, ossia nel popolo: come l’ateismo non crede alla causa unica e prima dell’universo, e non lo vede che negli effetti, ovvero nella materia. Nel sistema di questi, la materia ha fatto tutto; nel sistema di quelli, il popolo ha il diritto di fare tutto; di guisa che si potrebbe chiamare i democratici, gli atei della politica; e gli atei, gli arrabbiati o i giacobini della religione. All’estremo opposto è il puro monarchismo, che esige un capo unico, inamovibile, realmente presente alla società, mediante la sua volontà legislatrice e la sua azione ordinatrice ed esecutiva; vera Provvidenza visibile, che regola l’intero ordine esteriore della società. Cambiate i nomi, ed avrete il teismo ovvero il cristianesimo, con i suoi dogmi sull’esistenza della Divinità, la sua volontà sovrana e la sua azione reale e realmente presente nel mondo. Gli imparziali, moderati, i costituzionali dell’89, si collocano tra i democratici ed i monarchici, come i deisti tra gli atei ed i cristiani: ed era per questo che si dette, con ragione, il nome di democrazia regia alla costituzione che avevano inventato. Volevano un re; ma un re senza volontà di decisione definitiva, senza possibilità di azione indipendente; e come diceva ai polacchi Mably, il dottore di tale partito, un re che ricevesse gli onori rispettosi, ma che non avesse se non un ombra di autorità. In questi tratti, si può riconoscere il Dio ideale e astratto del deismo, senza volontà, privo di azione, di presenza e di realtà. Così questa costituzione politica non era che una democrazia mascherata; come il deismo non è altro che un ateismo mascherato; e come il re dei costituzionali potrebbe (e gli eventi l’hanno provato) sparire dallo Stato senza lasciarvi un vuoto, il Dio del deismo potrebbe, senza che nessuno se ne accorgesse, eclissarsi dall’universo. E’, in un caso e nell’altro, un essere di cui si conserva il nome, per un residuo d’abitudine, in cima agli editti o alle preghiere, ma che è, in fondo, completamente inutile sia per il governo del mondo che per la direzione della società. Questa identità nei principi delle due società, religiosa e politica, si fonda sulla perfetta analogia che l’Ordinatore supremo ha verso uno dei due ordini di leggi che devono reggere l’uomo interiore e l’uomo sensibile. Certamente è difficile disconoscere l’esattezza di questo parallelismo, se si ricorda come i deisti, o filosofi moderni, hanno potentemente influito sulla costituzione dell’89, come gli atei su quella del ‘93; e che, generalmente, la parte cristiana e cattolica della Francia si è mantenuta fedele ai principi monarchici, per una predisposizione dovuta ai propri principi religiosi, che gli avversari tacciavano di pregiudizio e fanatismo. La Costituzione religiosa ha perfino seguito in Francia, nei diversi periodi della rivoluzione, le differenti fasi della costituzione politica. Così la costituzione demo-monarchica dell’89 partorì la costituzione presbitero-cattolica, chiamata la costituzione civile del clero. L’anarchia demagogica del 93 volle cancellare la religione cristiana, e ci condusse, o poco ci è mancato, all’ateismo, attraverso il culto della Dea Ragione. Quella specie di governo misto di democrazia e monarchia, il direttorio, volle del pari istituire una religione a metà tra l’ateismo ed il cristianesimo. Il deismo era pronto ma i governanti, convinti del vuoto e dell’inanità di questa dottrina, vollero, per fare una sorta di religione pubblica, o meglio popolare, conferirle più consistenza; e proclamarono con grande strepito la religione detta naturale, sotto il nome pomposo di teofilantropia. A una religione occorre un sacrificio, che ne è il carattere essenziale; e, in mezzo a uomini abituati al sacrificio sostanziale della religione cristiana, osarono rinnovare quello della religione naturale, l’offerta cioè di fiori e frutti. Le loro conoscenze non arrivavano fino a sapere che la religione detta naturale non è altro che la religione, privata e domestica, dei primi uomini, che praticavano il puro teismo in famiglia, prima di ogni evoluzione pubblica o politica della società umana; per cui è contraddittorio nei termini, e assurdo nelle idee, dare una religione domestica a fondamento o per compagna a una comunità politica. Ciò nonostante, per paura che non si disprezzasse il fondo deistico della loro invenzione, esposero gli apostoli del deismo, Voltaire e Rousseau, coronati di fiori alla venerazione dei fedeli nei templi decadari. Un popolo cristiano non è sovrano, ma ragionevole si; e perfino sotto gli occhi dei fondatori, e malgrado il loro potere, il popolo a Parigi, fece giustizia di questa empia farsa, e il ridicolo con cui fu accolta alla sua nascita l’accompagnò fino alla tomba (6). Le analogie da noi evidenziate, ove ammesse, e i fatti ci indirizzano sulla via delle previsioni, e il passato può illuminarci sul futuro. Lo spirito democratico finisce in Europa con i governi repubblicani, e il principio monarchico rinasce in ogni dove, perché l’unità del potere, elemento fondamentale di ogni società, sopravvive alle rivoluzioni, come gli elementi dei corpi resistono alle decomposizioni chimiche. E’ conforme quindi alla logica delle cose, e quindi alla ragione, prevedere che i principi dell’ateismo e del deismo s’indeboliranno, e che gli spiriti, stanchi d’errori torneranno alla religione cristiana, solo mezzo sicuro per gli Stati di tranquillità, forza e prosperità, perché solo essa è la ragione del potere dei re e dei doveri dei popoli. (traduzione di Federica Klitsche de la Grange)
NOTE
1) Deus, mare; ego, fluvius; Deus, terra; ego, gleba; ecc. diceva un celebre ateo. 2) Tradidit mundum disputationi eorum. Ecclesiaste. 3) Il termine presente, che i Latini scrivevano praesens, da prae e sensus, cioè, davanti i sensi, esprime una presenza non ideale o astratta, ma reale e sensibile. Questa parola nel contempo non conviene che all’essere intelligente, che, come dice Malebranche, si rende sensibile senza essere solido. Così non si dirà di un cane che sia presente in un pozzo, anche se ci si trovi. E’ questo valore della parola presente e il contrasto che forma con lo stato d’invisibilità di un corpo fisico, che fa tutto il merito di questi due bei versi di Racine in Britannicus: “E che dietro un velo, invisibile e presente, sento di questo grande corpo l’anima tutta potente”. Questi due versi potrebbero, con un’applicazione non del tutto propria, ma molto bella e giusta, esprimere la presenza della Divinità nel grande corpo della Chiesa cristiana, sotto il velo dell’Eucarestia. 4) Non è sempre stato così; da Ginevra e dalla scuola ginevrina, hanno visto la luce eccellenti opere contro ateismo e deismo. E’ giunta l’ora che gli uomini illuminati e veramente cristiani di tutte le confessioni, sentano la necessità di unirsi contro il nemico comune; per riguadagnare il terreno perso a causa delle divisioni. 5) Si può applicare al deismo quanto J.J. Rousseau scrive del luteranesimo, che chiama la più incoerente delle religioni, perché sta a metà tra cattolicesimo e calvinismo e vuole conservare i dogmi dell’uno e dell’altro. 6) L’interesse di qualche influente personaggio a sostenere una tale commedia, ha forse preservato della distruzione gli edifici dl culto cattolico dove i commedianti mettevano in scena, ogni decade, le loro burlesche rappresentazioni.
Pubblicazione del: 21-03-2009
nella Categoria Filosofia Politica e del Diritto
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