NATURA E PRATICA-Martin Bertman-Vol.22-   Stampa questo documento dal titolo: . Stampa

Martin Bertman:

NATURA E PRATICA

DEL DIRITTO CIVILE

Per orientarci in un senso generale e con qualche utilità, si può discorrere in termini di tre attitudini politiche. Esse sono il miglioramento, la rivoluzione e la salvezza. Senza cercare ulte­riori affinamenti tra i rami di ognuna di queste costellazioni, situo il metro politico di riferimento di Hobbes all'interno del miglioramento a ragione della sua dottrina legale. L'Hobbes esortativo si rivela in tutti i suoi scritti sociali e politici: persino nell' "Introduzione" e fino alla sua primissima pubblicazione, la traduzione di Tucidide. Le osservazioni dello storico ateniese sulla fragilità della natura umana, con la sua avidità e il suo tendere all'avventurismo folle e vanaglorioso -libero da freni e portato alla brutalità in una situazione bellica -sono offerte da Hobbes ai suoi concittadini come un ammoni­mento. Con le sua voce profetica, la "Dedica" degli Elementi della Legge afferma: "si recherebbe un incomparabile beneficio al bene comune se ogni uomo recepisse le opinioni intorno alla legge e alla politica qui espresse". La "Dedica" del "De cive", in via implicita, si riferisce alla turbolenza del suo paese: "Sono stato molto guardingo in tutto il mio discorso nel non immi­schiarmi nelle leggi civili di alcuna nazione in particolare; in altri termini ho evitato di approdare sulla riva che questi tempi hanno tanto infestato con scogli e tempeste". A ciò, la "Prefazione per il lettore" aggiunge che l'opera è stata scritta principalmente "per stabilire la pace, e da uno a cui, per il giu­sto soffrire a causa delle presenti calamità del suo paese, si può con indulgenza concedere qualche libertà". L'agenda terapeutica del Leviatano è parimenti esplicita. Come fine dichiarato, Hobbes desiderava influenzare le univer­sità che, a loro volta, plasmano le menti dei ministri del culto che istruiscono la gente comune. La situazione corrente del suo paese non sembra lontana dal suo pensiero: alla fine della seconda parte di "Of Commonwealth", egli nota che una delle "punizioni naturali che deve naturalmente conseguire alla rottu­ra delle leggi naturali" è la catena consequenziale del "negli­gente governo dei principi con la ribellione; e la ribellione con i massacri". Perciò Hobbes offre il Leviatano a un principe vigi­lante in guisa di miglioramento politico. Il tutto con la fiducia di aver creato "una scienza della giustizia naturale che è la sola necessaria ai sovrani e ai loro principali ministri". Nell'assumere con serietà l'opinione di Fiatone circa la responsabilità terapeutica della filosofia verso la vita politica, Hobbes dichiara: "... né Fiatone, né altri filosofi fino ad ora hanno messo ordine o sufficientemente o probabilmente dimostrato tutti i teoremi della dottrina morale, che gli uomini possono apprendere di seguito, sia come governare e come obbedire; ho qualche spe­ranza che, un giorno o l'altro, questo mio scritto possa cadere nelle mani di un sovrano che lo valuterà egli medesimo... e con l'esercizio dell'intera sovranità, nel proteggere il pubblico inse­gnamento di esso e nel convertire questa verità della specula­zione nell'utilità della pratica." Questa intenzione al miglioramento ha un centro: si tratta della legge civile che, per Hobbes, è lo strumento proprio della salute politica. Il punto di Archimede, su cui poggia, è al di fuori del mondo naturale, nel senso della capacità umana di creare degli artifizi. A causa del suo genio, nel generare uno stato e, di conseguenza, necessariamente, un sistema legale, l'uomo si sol­leva dalla pericolosa e miserabile condizione naturale di guerra. La filosofia legale di Hobbes non può essere separata dalla sua filosofia politica; nel considerare l'origine dello stato in modo più marcatamente logico piuttosto che nel suo carattere storico, i doveri e gli obblighi del governante e del suddito possono esse­re progettati. La parola pubblica del sovrano o del diritto civile consiste nell'esprimere una guida equa e nel ricevere l'obbe-dienza promessa. La sua elaborazione di questi due aspetti della legge civile equivale alla filosofia del diritto di Hobbes, ponen­do di lato gli elementi tecnici relativi all'effettivo operare. Il diritto civile, occorre sottolinearlo, si fonda concettual­mente sulla considerazione di Hobbes secondo cui l'uomo non è sociale per natura; l'artificio della comunità è un palliativo necessario, nonostante un certo grado di "scomodità" della con­dizione civile. Ciò che Hobbes dice dello stato, egli lo afferma per la legge; si tratta di un artifizio per limitare e dirigere l'uo­mo. Tuttavia, benché la misura di Hobbes sia la fragilità umana, la sua speranza risiede sempre nella capacità dell'uomo di aiu­tare se stesso, a differenza, ad esempio, di Kant il quale parla della natura umana come di un "legno deforme" che deve atten­dere la trasformazione salvifica della natura per il fine raziona­le di uno stato morale. Per di più, siccome per Hobbes la natu­ra dell'uomo non è fondamentalmente trasformata da disposi­zioni sociali, a differenza di Hegel o Marx, la rivoluzione non è mai formalmente consentita, mai giustificata nello spirito del progresso o come progresso dello Spirito; al contrario, come abbiamo notato, in un significato di senso comune, Hobbes mette fermamente in guardia il sovrano dalla rivoluzione che è la conseguenza naturale del negligente governare. Perciò per Hobbes la guerra non è evolutiva; essa riflette o dovrebbe riflettere le condizioni sociali proprio perché la sua finalità di generare ordine e benessere necessariamente deve tenere conto delle circostanze. Per di più procura da sé la misu­ra certa della sua condizione sociale; essa misura nel mentre crea o costruisce. Vi è, altresì, una misura naturale che sorge dal bisogno di abbandonare la condizione naturale della guerra e di mantenere la pace della comunità; la sua chiara condizione di confine è la tutela dell'individuo. Ciò non è, per Hobbes, un fat­tore morale ma piuttosto la condizione necessaria per la morale. Tuttavia la tutela dell'individuo ha la sua migliore possibilità nella pace, e questo è il fine dello stato. Tali leggi delle natura che creano la pace, non sono tuttavia la misura del diritto civi­le, come nella tradizione del diritto naturale, ma sono rese con­crete dal diritto civile. La separazione concettuale di Hobbes tra natura ed artifizio e tuttavia il trovare che entrambi siano neces­sari e interconnessi per descrivere la condizione civile, sono alla base degli errori o, perlomeno delle tensioni teoretiche presenti nelle sue dottrine politiche e legali. Ciò nonostante, la filosofia del diritto di Hobbes rispecchia il suo particolare umanesimo migliorativo che concepisce l'uomo in grado di creare la sua migliore condizione e di fissare la sua propria legge al fine di vivere bene. Questo è l'umanesimo di Protagora dell' "uomo come misura". In questo scritto, presenterò la filosofia del diritto di Hobbes in primo luogo discutendo il capitolo XXVI del Leviatano, "Intorno alle Leggi Civili", e lo scritto tardivo pubblicato postumo "Dialogo tra un filosofo e uno studente sulle leggi comuni d'Inghilterra". Per mettere a fuoco le questioni, prendiamo la definizione di Hobbes del diritto civile nel Leviatano. La definizione è tuttavia preceduta da due punti intorno ai fini. La prima è dell'impresa in se stessa: in primo luogo non concerne le leggi particolari o attuali degli stati. Hobbes afferma, "come hanno fatto Fiatone, Aristotele e Cicerone", che intende mostrare la natura della legge. La seconda considerazione offre in modo concreto la sua concezione della legge caratterizzata dai seguenti elementi: 1) si tratta di un comando, 2) da qualcuno cui è stata data l'autorità di comandare, 3) rivolto a qualcuno da cui ci si attende che ubbidirà al comando, 4) perché ha prima accettato l'autorità della persona che comanda. L'orientamento di Hobbes è per una teoria della legge come comando, ossia una versione del positivismo legale. Per mostra­re la natura di tale positivismo, sono utili alcuni confronti con H. L. A. Kart. Hart, il quale, a differenza di Hobbes, concepisce le leggi soprattutto in quanto regole e norme basate su abitudini all'obbedienza e non come comandi o espressioni della volontà del sovrano che dipendono dalle minacce. Perciò il positivismo di Hart, a differenza di quello di Hobbes, si fonda in misura maggiore su considerazioni sociologiche. Secondo il punto di vista di Hobbes, tanto più una teoria del diritto si basa sulla sociologia, tanto meno essa è scientifica: le leggi civili sono cer­tamente incise nelle circostanze, ma una teoria del diritto defi­nisce i concetti in maniera universale e necessaria. Come Hart, anche Hobbes si rende conto che, normalmente, le leggi basate sulle sole minacce non possono avere successo, ma, a differen­za di Hart, egli argomenta che, poiché la necessità della legge scaturisce dall'interesse personale e litigioso dell'uomo, la sua essenza è la minaccia. Sulla base dell'interesse individuale, in quanto caratteristica universale dell'uomo, la filosofia del dirit­to di Hobbes è priva di considerazioni verso la tradizione lega­le di un particolare paese, sia per quanto concerne la "common law", sia per la natura delle abituali reazioni dei suoi cittadini verso la legge civile. Occorre sottolineare che la teoria di Hobbes della legge in quanto comando si fonda su una visione dell'uomo (ossia non questo o quell'uomo, ma l'uomo in astratto, la qual cosa è il compito generale del teorico della politica, ciò che ho definito come il suo primo campo d'azione). Questo è l'aspetto meta-legale, per usare l'espressione di Warrender, sulla quale Hobbes fonda la sua richiesta di adoperare il diritto civile per controlla­re le inclinazioni aggressive, anti-sociali. Sia la pratica che la natura del diritto civile saranno presto chiare mentre ci volgia­mo ad esaminare la definizione di Hobbes del diritto civile. Egli afferma; "II diritto civile consiste, per ogni soggetto, in quelle regole che la comunità gli ha comandato, a mezzo della parola, dello scritto o altro sufficiente segno della volontà, da adopera­re per distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto, ossia ciò che è contrario da ciò che non è contrario alle regole". (Leviatano, XXVI, 312). In primo luogo, chi è soggetto a una comunità e quale è la condizione di soggetto? Un soggetto è uno che ha dato il suo consenso, ossia ha contrattato, sia apertamente sia tacitamente, di obbedire al sovrano in tutte le materie con l'eccezione di uccidere o danneggiare fisicamente se stesso o di accusare se stesso di un crimine (Leviatano, XXI, 269). I principi alla base di ciò sono importanti: (a) uno deve avere la capacità di consen­tire per essere un soggetto; come afferma Hobbes, "Non c'è alcun obbligo per ogni uomo che non sorga da qualche suo atto" (ibid., 268). Di conseguenza, i fanciulli, gli stolti e i pazzi non possono in modo proprio essere considerati soggetti ma piuttosto persone tutelate dalla comunità, (b) L'obbedienza di un contraente è un atto di volontà: "nell'atto della nostra sottomissione vi è sia la nostra obbligazione sia la nostra libertà" (ibid.). In ciò sono coinvolte la capacità di trasferire ad alcuno ciò che è nostro per disporne, ossia la nostra libertà, così che si è obbligati ad obbe­dirgli. Perciò il sovrano impersona la nostra volontà, poiché gli è stata conferita l'autorità di creare le leggi civili e le regole politiche che concretamente ci legano. Inoltre, siccome egli non è parte del contratto, non sarà lega­to da esso; pertanto i soggetti hanno vincolato le loro volontà per non ostacolare quella del sovrano, (e) L'importante conse­guenza di ciò è che la maggiore libertà dei soggetti dipende dal silenzio del diritto civile (ibid., 271). (d) Vi sono condizioni di confine al trasferimento di libertà del soggetto e all'autorizza­zione del sovrano. Hobbes presume che nessun uomo sano di mente agisca senza l'intenzione di recare beneficio a se stesso. Poiché un individuo entra nella condizione della società civile per lo scopo primario di tutelare la sua vita e, in via generale, per pro­teggersi da altre offese e per prosperare, un soggetto certamen­te non obbliga se medesimo, per via impossibile, a rinunciare alla propria vita o ai mezzi per proteggerla. Quale misura di libertà possa venire assunta per tutelare la vita e evitare le offese è cosa problematica. La questione deve essere approfondita. Qui noto semplicemente che Hobbes sotto­linea che "il fine dell'istituzione della sovranità è la pace dei soggetti tra loro e la loro difesa contro il nemico comune" (ibid., 268). Dal che e gli considera che "l'obbligazione di un uomo può a volte comportare, dietro comando del sovrano, di esegui­re un compito pericoloso o disonorevole, il che dipende non dalle parole della nostra sottomissione, ma dall'intenzione che deve essere compresa nel contesto del fine. Quando pertanto un rifiuto di obbedire frustra il fine per il quale la sovranità fu edi­ficata, non c'è libertà di rifiutare; in altri casi c'è" (ibid., 269). Ciò apre una possibilità di disobbedire sulla base del giudizio del cittadino il che sembra in conflitto con la devozione all'au­torità del sovrano. In ogni caso, dal punto di vista della capacità piuttosto che dell'intenzione, si correla, nelle parole di Hobbes, a quanto precede (e) "Si intende che l'obbligazione dei sogget­ti nei confronti del sovrano durerà per tutto il periodo, e non di più, che durerà il potere in base al quale il sovrano è in grado di proteggerli" (ibid., 272). Ancora una parola. L'attribuzione del consenso può essere assunta in maniera più stringente di quanto Hobbes faccia in apparenza. La tradizione platonica assume che l'essere infantile, stolto e pazzo sia, in un certo grado, la caratteristica di gran parte degli uomini e, con ciò, propone la politica elitaria del re filo­sofo. Nel proporre ciò essa di norma distingue, come fa Bramhall nella sua discussione con Hobbes, tra una volontà razionale e altri generi di volontà. Hobbes non effettua questa distinzione. L'esperienza e il calcolo prudente condurranno tutti gli uomini alla pace. Un emendamento platonico di Hobbes lo sposterebbe troppo verso una direzione paternalistica mentre una lettura liberale di (d) lo farebbe allontanare troppo dal suo con­servatorismo. Infatti se si da molto spazio al giudizio del sogget­to intorno al bene personale e al pericolo come cause specifiche di disobbedienza, si urta con l'enfasi di Hobbes intorno alla grande difficoltà umana del giudicare in modo equo; gli uomini, specialmente quando sono in questione i propri interessi, sono troppo spinti da emozioni vane e esaurienti che domandano una gratificazione immediata e, senza prudenza, perseguono un ristretto interesse personale. L'interpretazione troppo liberale dunque distrugge il posto assegnato da Hobbes all'equità del sovrano e alla ragione per ricercare una qualche uniformità nella legge civile. Essa sottovaluta il suo opporsi alla disobbedienza civile; pone l'enfasi sui "diritti" piuttosto che sui doveri. L'obbligazione contrattata del soggetto all'obbedienza ha dato vita ai principi dianzi descritti; il comando del sovrano ne crea altri. La relazione tra il soggetto e il sovrano è ovviamente stretta: prendendo a prestito l'immagine di Cartesio, la relazio­ne del sovrano con la comunità è più intima di quella del capi­tano con la sua nave. Il particolare e naturale essere umano (o esseri), come la persona artificiale che rappresenta la comunità può e sarà, naturalmente, cambiata, ma uno stato non può esi­stere senza un sovrano, ossia un individuo pubblico che crea le leggi e le fa osservare. Il principio primario della sovranità è logico e riguarda il comando, (a) "II sovrano è l'unico legisla­tore" (Leviatano, XXVI, 313). Strettamente correlato con que- sto (b): "Il sovrano di una comunità, si tratti di un'assemblea o di un solo uomo, non è soggetto alla legge civile" (ibid.). I principi primari della sovranità si fondano sull'esigenza di controllare le passioni che portano all'iniquità. Nello stato di natura, ove non esiste controllo, ogni uomo persegue i suoi inte­ressi nel pericolo generale per gli altri. Poiché, secondo Hobbes, la natura umana non cambia nella condizione civile, il compito implicito del governo è educativo, ossia deve dimostrare che, in generale e in misura preponderante, l'interesse dell'individuo si compie al meglio nel tutelare lo stato. Come mezzo fondamen­tale per questo fine, l'interesse personale (al di là della gratitu­dine e dell'onorare le promesse) richiede l’obbedienza alla legge civile. Malgrado ogni saggia politica nell'educare, il compito espli­cito del governo è di comandare; esso deve creare le leggi e farle rispettare, anche quando la lezione dell'interesse individuale non sia appresa. Secondo le parole di Hobbes, "Poiché le leggi della natura (come la giustizia, l'equità, la modestia, la pietà e, in sintesi, fare agli altri come essi vorrebbero che fosse loro fatto) di per sé, senza il terrore di qualche potere per farle osser­vare, sono all'opposto delle nostre passioni naturali che ci por­tano alla parzialità, all'orgoglio, alla vendetta e a cose simili. E i patti senza la spada sono solo parole del tutto prive della forza di dare sicurezza all'uomo" (Leviatano, XVII, 223). Ma, insieme alla minaccia delle sanzioni in quanto condi­zione materiale per indurre all'obbedienza, si deve venire incon­tro alla condizione logica per creare le regole. In coerenza con la logica dell'autorità, lo stato ha bisogno di un solo sovrano e, nei fatti, senza un unico legislatore difficilmente si può evitare il conflitto. Certamente è possibile e in pratica necessario scin­dere la responsabilità a causa delle caratteristiche dell'ammini­strare. Ma, se una siffatta divisione coinvolge l'inscindibile autorità e non la provvisoria o istituzionale delega dei poteri da parte di un unico sovrano, chi, si domanda Hobbes, tra questi multipli sovrani limiterà il potere di ognuno? Se uno dice una Costituzione, chi interpreterà tale Costituzione? Il punto di Hobbes è che l'interprete, in via logica, deve essere il sovrano. A causa dell'esigenza logica di essere il solo creatore della legge, il sovrano deve porsi al di fuori del diritto civile, oppure in uno stato di natura. Ciò genera un ulteriore principio: (e) il sovrano o legislato­re è anche il solo o ultimo interprete oppure giudice della legge. Così Hobbes afferma: "Tutte le leggi, scritte o non scritte, hanno bisogno di essere interpretate... La conoscenza delle cause ulti­me delle leggi risiede nel legislatore. Per lui pertanto non vi può essere un nodo insolubile nella legge; se nel trovare i capi, o nel disfarlo; oppure nel creare i capi che vuole, come fece Alessandro con la sua spada nel nodo gordiano, a mezzo del potere legislativo, la qual cosa nessun altro interprete può fare" (ibid., 322). L'unità dei poteri legislativo, esecutivo e giurisdi-zionale dello stato impedisce il caos della legislazione giudizia­ria in competizione con gli atti legislativi del governo. Essa con­solida il potere dello stato in via logica e materiale. Fondamentalmente ciò contiene l'argomentazione di Hobbes contro la risposta di Coke a Giacomo I: "Quod Rex non debet esse sub nomine sed sub Deo et Lege" (12 Coke Reports, 63), oppure, come Coke e certamente tutti i giudici di massimo livel­lo affermarono tre anni più tardi, nel 1610, in semplice inglese: "il Re non ha prerogative se non quelle che la legge della terra consente" (12 Coke Reports, 74). Secondo Coke e, più tardi, nell'opposizione di Hale al Dialogo (cfr. Lord Chief Justice Hale intorno al Dialogo sulla Legge di Mr. Hobbes, stampato in Appendice 3 su "La storia della legge inglese" di sir William Holdsworth, voi. 5, pp. 500-513), viene preferito il primato della "common law". Acutamente nell'usare le sue proprie parole contro di lui, Hobbes, come se approvasse, cita Coke: "nessun uomo al di fuori della sua ragione privata può essere più saggio della legge che è la perfezione della ragione (I Coke Commentaries, 97 b). L'idea del legale di "common law" secondo cui la legislazione consuetudinaria o precedente è la suprema autorità legale, così come il ricorrere alla Costituzione, si oppone alla dottrina di Hobbes del solo potere del sovrano nel creare la legge e, di con­seguenza, nell'interpretarne le intenzioni. Una più generale e adeguata definizione di (e) è che la volontà del sovrano è sia uni­taria e suprema per il bene di un'autorità che razionalizza. Questo è il terreno primordiale del sistema legale. Kelsen cattu­ra la concezione di Hobbes quando afferma, "La norma base non è creata in un procedimento legislativo da una legge che crea un organo. Non è - come è la norma legale positiva - valida in quan­to creata in una certa maniera da un atto legislativo, ma è valida perché si suppone che lo sia; e se ne presuppone la validità per­ché senza tale presupposizione nessun atto umano potrebbe esse­re interpretato legale, specialmente come un atto che crea le norme" ("Teoria generale della legge e dello stato", pag. 15). Se la volontà del sovrano è la norma base, segue il ragiona­mento di Hobbes contro la "common law", "non è il durare nel tempo che crea l'autorità, ma la volontà del sovrano" (Leviatano,313). Così, in quelle circostanze in cui la consuetu-dine o le precedenti leggi non trovano opposizione, "la volontà del sovrano è resa significativa dal suo silenzio ... e il permane­re nel tempo non recherà alcun pregiudizio al suo diritto (ibid.), Inoltre una sentenza particolare, come altre azioni municipali dei delegati del sovrano, è valida "perché egli (il giudice) l'ha resa in grazia dell'autorità del sovrano, con cui essa diventa sen­tenza del sovrano" (ibid., 323). Tali considerazioni delineano il potere del sovrano di comandare. Le obbligazioni del sovrano sono meglio analizzate nel considerare la natura delle sue inten­zioni nel creare le leggi civili: la caratteristica della definizione di Hobbes del diritto civile che distingue il giusto dall'ingiusto. Prima di volgerci a questo importante e complesso aspetto del diritto civile, consideriamo brevemente la questione tecnica del comunicare il comando del sovrano, ciò che la definizione riferisce come il comando del sovrano al soggetto "a mezzo di parola, scritto o altro segno sufficiente della volontà". Hobbes sostiene che le leggi civili devono essere promulgate in modo chiaro e che nessuna si deve opporre all'altra. Il principio è che il sovrano deve comunicare in modo adeguato la sua volontà "perché un uomo non sa in altro modo come obbedire" (ibid., 312). In questo modo, e solo così, può sorgere una controversia legale contro il sovrano: ossia una legge può essere contestata in quanto fatta malamente e non sufficientemente promulgata. Di conseguenza, (a) le leggi civili devono essere rese disponibili in modo adeguato al soggetto e (b) "la legge non può mai essere contro la ragione" (ibid., 316), ossia in opposizione a se stessa; deve avere ciò che Aristotele chiamava "meta logon", essa non ha bisogno di una normatività extra legale, il "kata ton orthon logon" (Etica, VI, 13, 5, 1144 b 26-7). Peraltro, poiché Hobbes crede che la legge sia ostaggio del-l'interpretazione, questo fattore erode un poco dell'importanza e della domanda di una comunicazione adeguata. Il divario che pertanto si apre costituisce un aspetto, scomodo della politica. In una certa misura Hobbes chiude il divario facendo sì che il giu­dice presupponga l'equità della legge, ossia, l'intento o la volontà del sovrano è sempre a favore dell'equità. Ne consegue, in ciò che appare come un'inclinazione piuttosto liberale, che la lettera della legge è meno importante dell'equità. Per compren­dere la ragione artificiale della legge, la ragione naturale del giu­dice che persegue l'equità deve essere portata all'opera; Hobbes afferma, "In modo tale che la difficoltà che consegue alle nude parole della legge scritta può portarlo all'intenzione della legge, allo scopo di interpretare questa intenzione in modo migliore". Ciò nonostante, al fine di conservare la prerogativa unica del sovrano di giudicare ciò che è e ciò che non è equo, il sovrano può rovesciare la sentenza del suo delegato, del suo giudice designato. Qui si nota che Hobbes in maniera conservatrice bilancia l'attitudine liberale di concepire il giudice come inter- prete dell'equità. Hobbes, a riguardo, aggiunge, "benché non vi sia alcuna inadeguatezza capace di tutelare una sentenza contro la legge. In quanto ogni giudice di ciò che è giusto o ingiusto non è giudice di ciò che sia adatto o inadatto alla comunità" (ibid., 327). Il modo più netto di impostare la questione è quel­lo del punto di vista del giudice, ossia ciò che il sovrano conce­pisce come equo ha la forza della definizione; invece, dal punto di vista del sovrano ha la forza di un'obbligazione morale e di un'aspirazione prudente. In pratica, tuttavia, fintante che il sovrano non si pronunci contro l’interpretazione del giudice, si concede molta discrezionalità alla naturale comprensione del­l’equità da parte del giudice. La caratteristica della filosofia del diritto di Hobbes è di bilanciare le tendenze liberali e conserva-trici; perciò si deve evitare la tentazione di leggerlo "essenzial­mente" come liberale oppure conservatore. Egli deve essere compreso in termini di bilanciamento, ossia come Hobbes. Passiamo, ora, all'aspetto finale della definizione della legge civile nel Leviatano XXVI: il diritto civile come creatore della distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Qui dobbiamo affrontare direttamente la questione dell'equità. C'è un'ovvia tensione tra l'assunto formale che il sovrano, neh"ot­temperare al suo obbligo verso la comunità crei leggi eque e, d'altro canto, la valutazione di ogni individuo sull'equità attua­le o materiale di una legge specifica. Intorno alla comprensione dell'equità, che Hobbes pone al primo posto per un buon giudi­ce o interprete delle leggi, egli dopo tutto afferma che dipende "dalla bontà della ragione naturale di un uomo" (ibid., 328). La posizione naturale del giusto e dell'ingiusto si fonda sulla proposizione: "La legge di natura e la legge civile si contengo­no l'una e l'altra e hanno la stessa portata" (ibid., 314). L'equità, come legge di natura, è una disposizione alla pace. In quanto tali, rileva Hobbes, "nella condizione meramente naturale non sono leggi in modo proprio" (ibid.,). La trasformazione della condizione di natura in quella civile dipende precisamente dalla creazione di un sovrano che generi il giusto e l'ingiusto a mezzo della legge civile. Ne consegue che la concretezza del diritto civile è necessaria alla disposizione alla pace, "in foro interno", per conseguire il suo scopo, per divenire "in foro esterno" (1). Ma quale è il modello per il sovrano? Da un lato, assumen­do il sovrano di Hobbes come un Dio mortale, siamo tentati di accettare la proposizione che la volontà del sovrano è il model­lo sicuro dell'agire morale. D'altro canto, poiché il sovrano è, dopotutto, anche un uomo che perviene alla sua posizione anche per essere sfuggito ai pericoli dello stato di natura, egli è obbli­gato dalla legge naturale della gratitudine (e dagli altri elemen­ti che Hobbes assembla come "charity") a dirigere il suo vole­re, nel meglio che può, verso il fine della pace. Lo stato, che lo ha creato un Dio mortale nel non "legare stretto" la sua volontà mentre i suoi soggetti così sono vincolati, impone su di lui un'obbligazione morale. I vincoli morali certamente esistono per il sovrano benché egli sia in uno stato di natura. Tuttavia, devo sottolineare ciò, come il sovrano possa onorare Pobbliga-zione è cosa incerta. Egli, a differenza dei suoi soggetti che sono organizzati dal suo volere legale o pubblico, non ha sicuri rife­rimenti che lo guidino nel suo dovere; ha solo la sua coscienza. Perciò la moralità della legge non può essere formalmente messa in discussione dal cittadino, ancorché la sua equità sia un obbligo morale per il sovrano (2). Benché il sovrano sia nello stato di natura, la sua condizio­ne in esso è fondamentalmente diversa da quella, delineata nella prima parte del Leviatano, in cui tutti gli uomini sono in uno stato di natura. A differenza di questi, egli non è in guerra con ogni altro individuo. Inoltre, poiché egli è "la fonte di tutti gli onori" (Leviatano, XVIII, 235) e la sua prosperità è garantita, -essendo una sorta di Dio per i suoi soggetti - la sua naturale inclinazione all'ascensione e all'avidità deve essere stimata ragionevolmente soddisfatta dalla sua posizione. Così, molto più che per il suddito, è nell'interesse del sovrano conservare la pace e incrementare la prosperità del suo stato; essere re è la posizione più prossima alla felicità che un uomo possa conse­guire. Nella situazione di operare "in foro externo" per la pace, a differenza di coloro che sono in uno stato di natura, egli è in grado di operare in modo morale. L'interesse personale e il dovere convergono (3). In sintesi, il principio morale fondamentale è che il giusto e l'ingiusto sono misurati dalla pace. Ma, in modo più ristretto e a volte contro i fatti, il principio base dell'ordine legale assume che il sovrano sempre intenda la pace, e, per di più, le sue deci­sioni non possono essere contrastate. L'esperienza contesta che il sovrano miri sempre alla pace. Peraltro, secondo Hobbes, non c'è alternativa se non avere un sovrano che ha il potere intimi­datorio di creare le regole e indurre all'obbedienza. Hobbes deve convincere su due fronti; deve persuadere che perseguire la pace è nell'interesse personale del sovrano come del suddito. Perciò io leggo il Leviatano come il tentativo di Hobbes di migliorare il modo di ragionare di chi comanda e di coloro che obbediscono affinchè la comunità possa meglio conseguire il suo fine universale: la pace. Nel "Dialogo tra un filosofo e uno studente delle leggi comuni d'Inghilterra", che viene assunto come ultima opera di Hobbes sull'argomento, la tensione tra il comando legale attua­le e il fine del comando politico è ancora studiata. I testi di prova sono: (a) "Non è la saggezza ma l'autorità che crea una legge" (Dialogo, 55) e (b) "Dio crea i re per il popolo, non il popolo per ire" (Dialogo, 61). Prima di commentare i contenuti del "Dialogo", vi sono due questioni che devono essere accennate in termini della sua pre­sentazione delle opinioni di Hobbes. Scritto tardi, in ogni caso, come risulta dal riferimento interno non nella forma che lo conosciamo fino a tutto il 1662, il "Dialogo" venne pubblicato postumo nel 1681. Joseph Cropsey, nell'introduzione alla sua edizione, cita l'evidenza da Aubrey e dall'editore di Hobbes, Crooke, di offrire qualche retroterra del "Dialogo" e la sua autenticità come opera di Hobbes, su cui vi sono pochi dubbi. Hale si era effettivamente riferito ad esso mentre Hobbes era ancora in vita. Tuttavia il retroterra costituisce un pericolo per l'interpretazione: il dialogo prende le mosse dalla controversia tra Bacon e Coke, circa nel 1615. Ciò consente la possibilità che qualsiasi diversità tra la sua dottrina e il Capitolo XXVI del Leviatano si deva meno a un mutamento della posizione di Hobbes che alla difesa di Bacon. Un secondo pericolo dell'in-terpretazione risiede nella forma del dialogo. Si può sempre contestare che le opinioni espresse dal filosofo del "Dialogo", benché ovviamente in senso lato di Hobbes, non siano precisa­mente così. Come nel dialogo di Platone, ove, a causa della forma, c'è spazio per entrambe le ironie socratiche e platoniche, il "Dialogo" ha la complessità di una voce indiretta. Pur tuttavia, benché tali questioni gettino un'ombra di dub­bio interpretativo su ogni rilevato mutamento d'opinione o sup­posto tale nel "Dialogo", vale la pena di tenerlo in conto. Per prima cosa si tratta dell'opera di Hobbes. Inoltre, concretamen­te, si pone in conflitto diretto con il suo maggiore rivale teoreti­co, il fautore della "common law". In ciò si può vedere ancora una volta Hobbes come attore del miglioramento politico in quanto egli si oppone al drenaggio dell'autorità del sovrano da parte di coloro che sono a favore della "common law" poiché nel Leviatano egli concentra la sua opposizione contro le minac­ce all'autorità ad opera delle dottrine religiose settarie, nel difendere l'Erastianesimo. Con tali osservazioni preliminari ci volgiamo al "Dialogo", la cui posizione teoretica sarà qui deli­neata, trascurando le discussioni dettagliate intorno alle specifi­che leggi inglesi. Il "Dialogo" si apre con un'implicita discussione sulla mate­matica ove il filosofo corregge lo studente intorno all'idea che la legge sia meno razionale di ogni altra disciplina, matematica compresa. Ciò, immagino, rimanda a quanto Hobbes sostiene nel "De cive", ossia di aver creato una scienza della politica che comprende il diritto; in tal modo deve essere posto allo stesso livello di Euclide e Galileo. Ma Il "Dialogo" non è un trattato scientifico. Cropsey si interroga perché esso non faccia riferimento (diretto) allo stato di natura. Penso che ciò si debba al fatto che il metodo analiti­co o risolutivo che è discusso nel "De corpore" come parte di una ricerca scientifica sia sostituito nel "Dialogo" dall'esperien­za e dall'apprendimento come base della discussione. Come l'altro dialogo di Hobbes, "Behemoth" , che tratta della guerra civile inglese, anche questo dialogo sembra concepito per affrontare il contesto storico, e solo in modo tacito presupporre le migliori argomentazioni degli scritti scientifici di Hobbes. Solo prendendo le mosse da questo concreto vantaggio si può condurre un attacco strategico contro i fautori della "com­mon law". Essi sostengono che la "common law" sia autorevo­le e si basano sul principio conservatore che molte generazioni l'hanno creata ed accettata. Benché ciò sembri una risposta plausibile alla ragione dell'interesse personale, si tratta di un argomento limitato. Per di più non offre un'argomentazione alla ragionevolezza della "common law". Hobbes, naturalmente, insiste che l'interesse individuale distorce il giudizio, ma il per­manere nel tempo della legge non garantisce che essa non riflet­ta l'interesse proprio di una classe anche attraverso numerose generazioni. Certamente Hobbes nel "Behemoth" mette in rilie­vo la politica di classe. Inoltre ciò che configura una legge ragionevole e equa dipende dalla sua capacità di promuovere la pace nelle circostanze storiche concrete. Ma come la ragione si ponga in relazione alla legge, poiché trattasi di un elemento cruciale nel confronto tra Hobbes e i fau­tori della "common law", deve essere ulteriormente analizzato. Nel "Dialogo" il filosofo evoca le seguenti parole di Coke "vera, evidente, innegabile": queste sono: "L'equità è una sorta di ragione perfetta che interpreta ed emenda la legge scritta, essen­do non scritta, e consistente in null'altro che la giusta ragione" (Dial., 54). Con ingegnosità, penso, il filosofo rileva una confu­sione implicita nelle parole del suo antagonista nel dichiarare: "Trovo che la mia ragione sia giunta a una sosta (riguardo alla citazione che certamente accetto); perché essa frustra tutte le leggi del mondo: in quanto su questa base ciascun uomo di qual­siasi legge può affermare che essa è contro la ragione e pertanto costruire la pretesa per la sua disobbedienza" (ibid.). Lo studente, cui si domanda di chiarire la questione, offre il significato di ragione per il legale di "common law" che è a sua volta rifiutata dal filosofo in quanto "parzialmente oscura e par­zialmente non vera". Ciò che si definisce oscuro è l'uso da parte dello studente dell'espressione "ragione legale". Questa, insieme all'espressione "ragione artificiale", sono un parlare assurdo in quanto, ad avviso del filosofo, la ragione è sempre naturale. Con questa asserzione retorica egli si oppone alla pretesa specialistica del legale della "common law" di essere il solo o, perlomeno, il più adeguato interprete della legge. Una pretesa incastonata nella mas­sima legale dello "stare decisis", ossia l'autorità del precedente. L'opposizione del filosofo è resa con maggiore forza da ciò che egli stima non vero, ossia, "Tale ragione legale è la summa ratio; e pertanto se tutte le ragioni che sono disperse in così nume­rose teste fossero unite in una, tuttavia egli non potrebbe creare una tale legge come è la Legge d'Inghilterra, perché in così nume­rose successioni di epoche essa è stata finita e rifinita da un nume­ro grandissimo di uomini gravi e dotti" (Dial., 55). La risposta del filosofo è che non chiunque ma solo il Re d'Inghilterra crea la legge, in altre parole, "non è la saggezza ma l'autorità che fa la legge" (ibid.). Da ciò il filosofo contesta che la corretta interpre-tazione deh""equità in quanto giusta ragione" non sia quella di Coke ma, piuttosto, la dottrina del "Leviatano". Il fatto che Hobbes consideri più adeguata la sua concezio­ne filosofica o scientifica della posizione politica, perlomeno in termini di metodo, rispetto alla concezione del contesto legale inglese propugnata dai fautori della "common law" viene indi­cato all'inizio di "Intorno al potere sovrano". Nel rispondere all'affermazione del legale che tutte le leggi umane sono a bene­ficio della pace e della giustizia, il filosofo domanda che sia la giustizia. Poiché si assume che l'autorità possa assicurare la pace, il quesito sulla natura della giustizia sonda la relazione tra le due. La risposta del legale, come indica il filosofo, è quella di Aristotele, ossia, "La giustizia è dare ad ogni uomo il suo" (Dial., 58). Con ciò Hobbes sottolinea che comprendere la legge dipende da un metodo filosofico o scientifico piuttosto che da uno studio sulle leggi particolari di uno stato, ad esempio le leggi dell'Inghilterra. Il filosofo sostiene questa posizione in modo retorico ma con molta forza: "Ecco voi legali quanto mirate al filosofo, ed è con ragione, perché la scienza più nobile e gene- rale, e la legge di tutto il mondo è la vera filosofia, di cui la "common law" d'Inghilterra è una piccolissima parte" (ibid.,). Occorre ricordare che l'equità è resa uguale, con perfetta ragione, alla legge da Coke, con cui, con grande enfasi, aveva concordato il filosofo. La perfetta ragione nella legge è neces­saria alla perfetta conoscenza o alla saggezza; nel ricordare le parole di Hobbes dalla Dedica del "De cive", ossia, "La cosid­detta saggezza in senso proprio altro non è che ciò, la perfetta conoscenza della verità in tutte le questioni di qualsiasi genere". Hobbes filosofo sembra conoscere perlomeno la perfetta verità della politica, se no come avrebbe potuto crearla in quanto scienza? Perciò egli è adatto in questo senso ad essere sovrano. E, poiché la ragione è naturale, anche nel creare l’artifizio della legge, è predisposto dalla natura ad essere un sovrano. Ma, se la verità conosciuta da Hobbes è che l'autorità e non la saggezza è suprema, allora l'autorità non si fonda sulla verità. Non riposa sull'artifizio ma sulla minaccia contro il bene di ognuno: sul potere. Questa è la posizione dei sofisti ed è anche la dottrina di Hobbes che l'uomo è la misura dei fatti politici poiché egli crea queste convenzioni. La verità dipende realmente dalla ragione; ma ciò che muove l'uomo, ed egli è l'autorità o l'autore delle sue azioni, non è la ragione ma la passione: sempre un'altra dottrina sofi­stica. Lo stato sorse per la passione dell'autotutela; non si tratta di una questione morale. Il fondamento della giustizia distribu­tiva è l'eguaglianza secondo natura di ogni uomo nel tutelare la propria vita; la qual cosa, a sua volta, in modo strumentale, rende necessaria l'autorità del sovrano. Questa conclusione, con il suo assunto centrale di agnostici­smo morale, è presentata nella "Prefazione" del "De cive": ... le ragioni più sicure atte a mostrare che non vi siano dottrine autentiche riguardanti il giusto o l'ingiusto, il bene e il male, al di là delle leggi costituite in ogni reame e governo; e che la que­stione se ogni futura azione si mostrerà giusta o ingiusta, buona o cattiva, deve essere demandata solo a coloro cui il potere supre­mo ha affidato l'interpretazione delle sue norme (De cive, 98). Tale agnosticismo morale, ossia la separazione tra verità e morale, significa che ciò che Hobbes sembra attribuire alla filo­sofia sia la superiorità teoretica, non quella pratica. Tramite il sofisma di Hobbes possiamo riflettere sulla concezione di H..L.A. Hart del diritto positivo, ossia, "il semplice assunto che non è in alcun senso una verità necessaria che le leggi riprodu­cano o soddisfino richieste indubbie di moralità" (La concezio­ne del diritto, p. 181). Secondo Hobbes, a differenza di Hart, non vi sono "indubbie domande di moralità". Il diritto civile è certo in un misura che non può essere quello della morale giac­ché questo è artificiale. Inoltre secondo Hobbes, il nominalista, la verità è artificia­le in quanto concerne il linguaggio e non le cose. Il sovrano crea le leggi in termini di una certezza convenzionale nel definire, ad esempio, l'assassinio, il matrimonio, la proprietà. Certamente lo stesso Hart rileva che i concetti legali sono sui generis, ossia non possono essere logicamente equivalenti a concetti non lega­li. (Cfr. G.P. Baker, "Annullabilità e significato", in "legge, morale e società, saggi in onore di Hart" pag. 28). A causa del carattere costruttivo della legge e dell'incertez­za delle azioni morali al di fuori della legge, Hobbes può ulte­riormente argomentare che è fuorviante considerare che la rela­zione della legge con la morale comporti la misura di ogni sin­gola legge nei confronti di un postulato morale, come indica Hart. La comunità, attraverso le leggi civili, consente alla mora­le di esistere in foro externo. Così pare che, sotto l'obbligo morale di onorare il contratto civile, il cittadino debba prendere la legge, come una volta Hobbes disse della religione, come una pillola amara da non masticare ma da ingoiare intera. Peraltro, nel perseguire il solito bilanciamento tra teoria e circostanze, Hobbes consente di disobbedire al sovrano quando si chiedano molto gravi e manifeste azioni contro la pace, ossia, contro la condizione necessaria alla morale. Hobbes non insegna ai re di essere filosofi. Ma il suo model­lo, come quello di Simonide nello Hiero di Senofonte, insegna loro che il loro interesse personale e il loro dovere, o lo stabilire la pace, sono ah"incirca equivalenti. L'equità pertanto deve gui­dare la costruzione delle leggi: il loro edificare le verità sociali. Da questo punto di vista, la volontà del sovrano come chi impersona il popolo non può essere limitata nell'agire per il pro­prio interesse, che impedirebbe la stessa condizione ove l'auto­rità o il potere possano essere esercitati con efficacia per assicu­rare la pace. Il punto di Hobbes è abile. Il legale porta all'atten­zione del filosofo gli statuti con cui il re ha obbligato se stesso di non imporre mai dei tributi senza il consenso del parlamento. La risposta del legale segue la lode del filosofo verso la filosofia nel preferirla allo studio degli statuti ed egli illustra questa posizio­ne. Il filosofo offre la giusta comprensione che, malgrado le parole del re, un sovrano non può allontanarsi a tal punto dalla sua autorità; tali statuti sono dunque in opposizione alla volontà del popolo a mezzo della quale è stato istituito lo stato. Un punto che l'acuto Rousseau sembra aver appreso da Hobbes. Ciò crea un paradosso apparente. Al sovrano è affidata tutta l'autorità politica, che si fonda sul suo mantenere il potere per essere politicamente efficace, ma egli è vincolato dalle ragioni della pace; così il filosofo afferma: "Siccome Dio ha creato i re per il popolo e non il popolo per i re ... Può il re, che deve rispondere a Dio onnipotente della sicurezza del popolo, e a tal fine ha il potere di imporre tributi e disporre della forza armata, essere inibito nello svolgere il suo ufficio in virtù di questi atti del parlamento che avete citato? Se questa è la ragione, vi è anche ragione che il popolo sia abbandonato o lasciato nella libertà di uccidersi l'uno con l'altro fino all'ultimo uomo; se questa non è la ragione, allora voi avete assicurato che questo non è legge" (Dial., 61). Perciò la razionalità della legge non è semplicemente nella coerenza degli statuti, che sicuramente il legale può gestire, ma la coerenza degli statuti in termini della stessa ragion d'essere dello stato; questo è quanto la filosofia del diritto di Hobbes insegna e non essere in accordo con lui comporta impegnarlo sul livello più profondo della filosofia: sfidarlo sulle sue posizioni sofistiche. Può essere appropriato domandare a Hobbes perché egli non si è mai contraddetto anche quando assicura ogni autorità poli­tica al sovrano? Poiché in base alla sua saggezza, in quanto filo­sofo, egli trova che il Re d'Inghilterra non aveva alcuna autorità per abrogare il suo proprio potere; dunque era stato un sovrano negligente. Può il filosofo trovare altre leggi di tale sorta ove lo statuto non sia una legge in senso proprio poiché è in contrasto con la ragion d'essere della comunità, forse ve ne sono molti di tal sorta? E se così è, malgrado le parole al contrario, non è forse il filosofo o colui che usa la giusta ragione riguardo le cose poli­tiche, l'interprete ultimo delle leggi e perciò il vero sovrano? Non ha forse attribuito a se stesso, anziché al sovrano non filo­sofo, la ragione di comprendere in modo giusto la legge che è stata negata ai legali di "common law"? Ma allora si può affer­mare che il sovrano ha sempre la spada e che questa è il fonda­mento ultimo dell'autorità. Ma se il sovrano non ha la com­prensione della legge che il filosofo possiede e, a causa di ciò, è meno capace, forse alcune volte persino incapace, di garantire la pace, non ha il filosofo una buona ragione - non è forse un ter­reno morale? - di tentare di prendere la spada dalla sua mano? Martin A. Bertman (Traduzione dall'inglese a cura di Claudio Murerò)



Pubblicazione del: 21-03-2009
nella Categoria Filosofia Politica e del Diritto


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