ROMA E MACHIAVELLI-DANIELA COLI(T. KLITSCHE DE LA GRANGE)-Vol. 47-   Stampa questo documento dal titolo: . Stampa

Daniela Coli

Hobbes, Roma e Machiavelli nell’Inghilterra degli Stuart

Le Lettere, Firenze 2009, p.. 263, € 35,00.

I lettori di “Behemoth” ricorderanno che, nel numero 30 della rivista, era stata pubblicata la prima traduzione italiana, a cura di Vincenzo Valorani, di uno dei Tre Discorsi di Thomas Hobbes, quello sull’inizio degli Annali di Tacito. Dopo tante incertezze gli storici della filosofia del secolo scorso prevalentemente concludevano che i “Tre Discorsi”, pubblicati anonimi a Londra nel 1620, erano opera del filosofo di Malmesbury.

Come sostiene la Coli “I Tre Discorsi offrono testi finora inediti in Italia per esplorare il pensiero politico di Hobbes. L’analisi del Three Discourses, del Leviathan, del Behemoth e dei conflitti religiosi e politici dell’Inghilterra degli Stuart svela un «nuovo Hobbes», esperto di arcana imperii tra Londra, Roma e Venezia. Dal confronto con Machiavelli emerge la comune polemica anticattolica, l’ammirazione per Roma antica, la diversa concezione della politica e della sovranità”.

I “Tre Discorsi” sono preceduti da un saggio introduttivo di Daniela Coli sul pensiero di Hobbes e sulla sua interpretazione nell’ultimo secolo che, approfondito, occupa oltre la metà del volume e il cui principale argomento è il rapporto che Hobbes – e l’Inghilterra degli Stuart – avevano con Roma, il Papato e la Chiesa cattolica come istituzione “epigone” dell’Impero romano. Il tutto ricordando il viaggio che Hobbes e il suo protettore William Cavendish fecero in Italia, in particolare a Roma e Venezia dove pare avessero conosciuto Paolo Sarpi e Fulgenzo Micanzio: viaggio che poteva essere stato anche una missione di intelligence, dato il ruolo pubblico di Cavendish.

Scrive la Coli che “un’opera come i Three Discourses è destinata ad accendere polemiche, perché offre la possibilità di rileggere il Leviathan e di considerare l’importanza negli scritti del filosofo di Malmesbury della riflessione sulla storia di Roma, una città divenuta un mito e un modello utilizzato in molteplici prospettive politiche ed ideologiche nella storia moderna e contemporanea. Poiché su Hobbes ha aleggiato nel secondo dopoguerra l’ombra inquietante di essere stato un cinico costruttore del capitalismo inglese, se non un teorico ante litteram dell’imperialismo britannico e del totalitarismo, come arrivò a definirlo Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo, è comprensibile la cautela nell’accettare l’attribuzione all’autore del Leviathan dei Three Discourses, dove si loda Augusto per aver cessato le guerre civili romane e dato inizio all’Impero, pur criticandolo per aver posto fine alla libertà repubblicana”. Machiavelli è accostato ad Hobbes (tra l’altro) perché “le secolari guerre civili degli Stati europei per l’egemonia in Europa, hanno finito per coinvolger e spesso stravolgere non solo la storia di Roma, ma anche due autori come Hobbes e Machiavelli, il cui obiettivo politico principale era costruire uno Stato nazionale nei rispettivi paesi”. Ma questo obiettivo passava, per tutta l’Europa cristiano-occidentale, attraverso il ridimensionamento dei poteri della Chiesa, e del Papato in particolare “Per Sheehan, gli Stati nazionali territoriali moderni nati nel Cinquecento come monarchie assolute ebbero come rivale principale la Chiesa di Roma e, per questo, tesero a creare religioni nazionali. In questa interpretazione del problema della sovranità in Europa, Machiavelli, con la sua polemica contro la Chiesa di Roma per avere ostacolato l’unificazione italiana, può essere considerato il caposcuola del pensiero politico moderno”.

Hobbes con la sua lunga polemica – cui è dedicata buona parte dei capitoli conclusivi del Leviathan – con il Bellarmino e con la potestas indirecta pontificia dallo stesso sostenuta, “è il fondatore dello Stato moderno per mantenere in vita una sovranità messa continuamente in discussione nell’Inghilterra del Cinquecento e Seicento da conflitti religiosi interni ed esterni”. La auctoritas spirituale del Papa, una volta convertitasi in potestas anche se solo indirecta, aveva il risultato di istituzionalizzare un dualismo di poteri che, come scrive Schmitt, era di chiaro ostacolo alle finalità del potere sovrano, quello di assicurare la pace, garantire la certezza dei rapporti sociali e l’applicazione del diritto, e di confondere le responsabilità, non riferibili ad un soggetto unico.

In questo senso, si potrebbe aggiungere che era più vicina al pensiero e alle convinzioni di Hobbes, la concezione romana della religio civilis, e poi, il pur diverso, cesaropapismo di Eusebio di Cesarea che il dualismo di Papa Gelasio , così influente nel pensiero medievale.

Fatto sta che l’Europa moderna, col suo sistema pluralistico (all’esterno) di Stati sovrani (e “blindati”, all’interno) si è potuto costituire solo in polemica – contrapposizione col potere del Papato e con i contenuti di potere “imperiale” presenti nello stesso.

Ma se la Roma “papista” è, secondo Hobbes, un nemico per gli Stati nazionali, quella antica, di converso, è un modello, così come per Machiavelli. “Nel Leviathan l’obiettivo di Hobbes è fondare la sovranità sul diritto e non sulla religione, come a Roma, e fondere «le due teste dell’aquila», per usare l’espressione di Rousseau, nella persona del sovrano che, come governatore della Chiesa d’Inghilterra, deve nominare i vescovi e intervenire nelle questioni religiose come un imperatore romano” e “Nel Discourse of Rome i Romani antichi sono indicati come esempio agli inglesi e lodati perché governati da un imperatore che era anche Pontifex maximus, come Augusto, l’eroe del Discourse upon the beginning of Tacitus” (p. 14-15). In effetti il principio quod principi placuit legis habet vigorem del Digesto è la massima di ogni monarchia assoluta ed è sicuramente quello che Hobbes attribuisce come connotato al potere sovrano, in particolare nel cap. XXVI del Leviathan, in cui è esposta la più diffusa trattazione del diritto che il filosofo di Malmesbury fa nell’opera principale. E si inserisce anche nel clima dell’epoca di Giacomo I (già anticipato da Enrico VIII ed Elisabetta I) teso ad assicurare la prevalenza dell’istituzione monarchica nello Stato, che finì con la dittatura di Cromwell. Ma all’epoca della pubblicazione dei Three Discourses non solo c’era interesse ed ammirazione per l’antica Roma, ma era in corso un tentativo da parte di Giacomo I di proporsi come artefice di una pacificazione della Cristianità, attraverso un riavvicinamento al Papato e alla Spagna. In questo senso l’incipit di Hobbes del Discorso su Roma è rivelatore “A Roma, che fu celebre fin dall’inizio per la sovranità, ovunque si volga lo sguardo due cose risaltano in particolare: le antichità e la magnificenza, che nessun’altra città può vantare. La continuità della sua sovranità, pur nella grande diversità delle forme – re, consoli, tribuni, dittatori, imperatori – non può che rivelare la presenza di un disegno divino” (p. 177) ma subito dopo, precisa (eprende le distanze) “Ma non possiamo non stupirci degli effetti negativi di una così buona causa - la conversione di Costantino – poiché l’ambizione dei vescovi di Roma fece di quest’azione il primo passo verso il potere della Chiesa e il rovesciamento dell’impero. Quanto sia stato fondato sulla donazione non saprei dire, né penso che il papato la difenda ancora, ma questo fu il momento a partire dal quale l’autorità dell’impero passò gradualmente alla Chiesa” e “Dopo l’acquisizione di questo potere illegittimo, i papi si sono presi la supremazia in tutti i campi, in tutti i regni del mondo, e coloro che prima erano sovrani sono diventati loro sudditi e vengono incoronati da quelli che un tempo erano loro a nominare” (p. 177-178); e prosegue nella descrizione della città, che si inframmezza con le considerazioni politiche (e storiche), e in cui si riconosce l’Hobbes (futuro) delle opere principali.

Ad esempio nel descrivere la Curia “più in particolare, a proposito di questi prelati, è del tutto contrario ai comandamenti di Dio e diverso dall’esempio di Cristo e degli apostoli, competere con la giurisdizione o la sovranità temporale, quando il loro compito è solo di educare” (p. 201) (cfr. cap. XLII del Leviathan).

Del pari si vede chiaramente l’Hobbes della maturità nel “Discorso sulle leggi”, con una impostazione chiaramente decisionista ed orientata, per così dire, alla necessità pratica piuttosto che alla giustizia ideale“La natura di tutte le leggi, che riguardino Dio e la religione, che si tratti cioè di leggi divine o interessino la società e i comportamenti e siano così del tutto umane, è propriamente quella di consistere in regole chiare e precise, dalla cui applicazione siano individuati il giusto e l’ingiusto e distinti l’uno dall’altro. La conoscenza e la pratica delle leggi generano un doppio beneficio: pubblico, che è il bene generale e il governo dello Stato, e privato, che consiste nella vita tranquilla e pacifica di ogni singolo individuo. Così, il vero fine di tutte le leggi è di dare un assetto, istituire un ordine e un governo, la cui autorità siamo obbligati a obbedire piuttosto che a discutere; le leggi sono, per così dire, i principi che dovremmo servire, i capitani che dobbiamo seguire… Sono i baluardi e le difese del popolo, istituite per mantenerlo in pace e sicurezza, affinché nessun atto ingiusto possa essere compiuto contro di esso… Cosicché controllati dalla paura e dal terrore di esse, gli uomini possano tenere a freno la propria temerarietà e si possa mettere al sicuro da ogni violenza e oppressione la pace e l’innocenza”.

Anche nel Discorso su Tacito il realismo e gli interessi dell’Hobbes della maturità si vedono chiaramente.

Chiudendo, una notazione: Daniela Coli dedica un capitolo del suo saggio alle “armi e le leggi per Hobbes e Machiavelli”. Nel pensiero i quali la forza non è l’antitesi del diritto, ma ne è l’aspetto (complementare) necessario. È famosa la frase di Machiavelli “E principali fondamenti che abbino tutti li stati, così nuovi, come vecchi o misti, solo le buone leggi e le buone arme. E, perché non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene siano buone legge, io lascerò indrieto el ragionare delle leggi e parlerò delle arme” (p. 156) e l’esempio che il Segretario fiorentino fa di Firenze che per non voler usare la forza “lasciò distruggere Pistoia” (cap. XVII del Principe), contrapposto al “pietoso” Cesare Borgia che, con l’uso preventivo e mirato della forza, teneva l’ordine nei paesi conquistati. E che è del tutto in linea con quanto scrive Hobbes nel “Behemoth” che se Carlo I avesse mandato a morte a tempo debito un migliaio di pastori presbiteriani, avrebbe risparmiato all’Inghilterra i centomila morti della guerra civile. Diversamente da certi ideologi dell’umanitarismo pacifista, per cui dove ci sono le armi tace il diritto, i due grandi pensatori ritengono, realisticamente, che le une senza le altre siano inutili. E con un altro aspetto che va considerato: e cioè che non sono solo complementari, ma anche, per così dire, (limitatamente) alternative e sinergiche. Che è quanto sostiene Machiavelli nel XVIII capitolo del Principe “dovete adunque sapere come sono due generazioni di combattere: l’una con la legge, l’altra con la forza” e continua colla celebre interpretazione del mito di Chirone. Frase la quale si inserisce in quelle considerazione della legge e del diritto, iniziate con la tesi di Trasimano nella Repubblica che “la legge è l’utile (e quindi volontà) del più forte”. Concezione la quale avrebbe avuto fra quelli che l’avrebbero formulata in modo simile per descrivere la guerra, Clausewitz e Gentile, a conferma dell’analogia funzionale tra le une e le altre per creare una volontà decisiva e ordinatrice e la conseguente situazione d’ordine. Anche questa idea lontana dalle anime belle di chi pensa che gli uomini sono buoni e razionali, di guisa da trovare spontaneamente e senza coazione un ordine accettabile.

Pericolosa illusione, “furberia d’ipocrita o sogno d’uno sciocco”, come scriveva Mosca.



Pubblicazione del: 25-09-2010
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