L’IDEA DI “AUCTORITAS”: GENESI E SVILUPPO-JESUS FUEYO-(TRADUZIONE G. KLITSCHE DE LA GRANGE)
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L’idea di “auctoritas”: genesi e sviluppo*
La ricerca storica è giunta a chiarire sufficientemente la fondamentale distinzione tra auctoritas e potestas. Da un punto di vista teorico- e forse non solamente da questo punto di vista – è stata la confusione sistematica delle due nozioni e la sua definitiva risoluzione nel moderno concetto fondamentale di sovranità a causare l’inconsistenza filosofica di ogni teoria moderna dello Stato. Questa confusione non è solo uno sviamento accademico, ma è strettamente collegata al processo reale di configurazione dell’ordine politico moderno.
È una forzatura parlare di un’autoctonia dei concetti, dato che si tratta di due idee che sgorgano dal fondo vitale, dall’ ethos politico di un popolo, il cui modo di intendere la convivenza ha pesato tanto su tutta la tradizione e il pensiero politico dell’occidente. Si tratta effettivamente di concetti che esprimono il senso originale della convivenza come inteso dai romani. L’idea romana della libertas non è predicato metafisico dell’uomo, non ha nulla a che fare con la natura dell’uomo né esprime uno stato ontico in virtù del quale l’uomo si trovi particolarmente collocato all’interno del creato.
Indipendentemente da ciò che i romani pensavano su quest’argomento, il termine libertas non era legato ad alcun significato di questo tipo. La libertas enuncia per il romano una modalità dell’ esistenza politica, la modalità propria della convivenza romana come res publica. Si tratta di un’espressione, certamente ideologica, con la quale il romano cerca di definire né più né meno che il modo romano di comunità.
L’idea decisiva per intendere ogni concetto fondamentale della pubblicistica va ricondotta al fatto che la religione non determinava per il romano una comunità - una ecclesia spiritualis - nella quale un individuo si univa con gli altri dal profondo della propria personalità in un vincolo supremo, ma il centro originario del sentimento religioso era la comunità stessa1; la base della convivenza romana era il sentimento di una relazione vitale e fondante tra la civitas e gli dei. La religione e il culto romano significavano quindi una concezione sacra dell’esistenza politica e pertanto qualcosa di assolutamente romano, politicamente non adattabile al di fuori del modo di vita della comunità romana. La libertas è la partecipazione individuale in questa civitas così intesa e per questo è qualcosa che è dato all’uomo dalla civitas e non dalla natura.
In altro modo è impossibile, come mostra Wirszubski in una ricerca realmente esaustiva, capire una parola dal trattamento giuridico della schiavitù a Roma. La manomissione non è solamente un’estinzione del dominio che il dominus esercita sopra lo schiavo. Un atto con questo esclusivo contenuto non influenza la condizione giuridica dello schiavo, ma il concreto rapporto dominicale di cui è oggetto; fa di lui una res nullius ma non un essere libero, che invece presuppone per il romano di far parte della civitas romana. Per questo la manomissione che concede la libertà, la manomissione vindicta aut censu aut testamento è propriamente un atto politico di integrazione nella comunità che il dominus compie rispetto allo schiavo come organo della civitas2. Siccome la condizione di uomo libero per il romano deriva dalla civitas, è l’uso di questa libertà sempre rivolto verso il gruppo. Il romano concepisce la sua libertà come possibilità di svolgere la sua vita con gli altri e nello spiegamento della sua libertas, nelle proprie scelte di vita, per e con gli altri, ci sono la dignitas, l’ honos, concetti strettamente aristocratici che animano la costituzione materiale (real) romana su una base coscientemente opposta a quella dell’ideale greco della isonomia3. Agire nella vita pubblica, avere un ruolo rilevante all’interno della stessa, era per il romano dell’alta società l’unico obiettivo delle sue ambizioni; contenere la sfera della vita privata e forgiarsi uno “status”, conseguire un ruolo nella vita sociale per il pubblico riconoscimento, cosi era il modo romano di intendere la piena libertà. A questo riconoscimento si riferisce il termine honos, il quale traducendosi oggi con “onore” con l’associazione di indole morale connessa al termine, si svuota quasi interamente del suo significato latino4. E tale è precisamente l’insieme di sentimenti racchiusi all’interno del concetto auctoritas. L’auctoritas è un’idea che rileva sia nella vita privata sia in quella pubblica5. Il paterfamilias è sui juris, che significa che possiede “auctoritas”. È “auctor” della sua decisione. L’atto con il quale il tutore coopera con la sua presenza agli atti del minore sottoposto a tutela viene indicato dalle fonti come “auctoritas interpositio”; l’atto è giuridicamente imputabile al minore, però se il tutore non concorre- si tutoris auctoritas non interveniat-, non può essere imputato l’atto al minore, e considerato come suo. Per il concetto di auctoritas è di fondamentale importanza tenere presente quanto segue. Ogni imputazione giuridica è un’imputazione a una auctoritas o necessita dell’interposizione di una auctoritas qualificata. Il paterfamilias non rappresenta nessuno degli alieni juris sui quali ha potere e quanto questi acquisiscono, lo acquisiscono per lui, e non per un meccanismo di rappresentanza, ma perché nella comunità esistono solo come alieni juris e i loro atti nella misura in cui possono essere rilevanti lo sono relativamente all’autorità cui sono soggetti, auctoritas che costituisce l’unica cosa giuridicamente visibile agli altri. Solo il sui juris, che per qualunque ragione- impubertà, prodigalità, etc- non ha piena capacità di agire, necessita di un tutor, però l’azione di questo non è nemmeno costruita sul concetto di rappresentanza; affinché gli effetti ricadano su di lui, è necessario che celebri personalmente il negozio;la auctoritas interpositio concerne chi tiene facultas, potestas, colui che non ha auctoritas; si tratta, quindi, di un supporto “tecnico” che completa la situazione giuridica abilitandola al fine dei rapporti con gli altri6.
Il concetto pubblico di auctoritas si sviluppò sopra queste basi. Il sui juris appare aver le facoltà per relazionarsi giuridicamente con gli altri nell’ambito privato e per partecipare al governo della res publica. Però i romani non ritennero mai che quest’ultimo diritto potesse essere messo in gioco senz’altro come mera facoltà. La mentalità profondamente aristocratica che andava associata alla tradizione romana impose come criterio sociale che ogni decisione in quest’ordine fosse sottomessa, a un’auctoritas, ovvero, una persona pubblicamente riconosciuta per la sua dignitas. In questo modo, la libertas risultava non tanto il diritto ad agire nella vita pubblica per propria iniziativa quanto quello di scegliere un auctor la cui auctoritas è liberamente accettata7. Così si convertono gli optimates sotto la costituzione repubblicana negli unici partecipi attivi alla vita pubblica.
E cosi si concentra nel Senato l’auctoritas del popolo romano. Però precisamente nell’analisi costituzionale del senato repubblicano si fa esplicita la distinzione tra auctoritas e potestas, distinzione che, a grandi linee, abbiamo visto già aver luogo nel diritto privato. La potestas è il titolo che compete ad ogni magistratura; indica puramente e semplicemente l’insieme di facoltà pubbliche inerenti a un officium, il mandato conferito per il bene della res publica; non ha niente a che vedere con l’auctoritas. Ogni ideologia politica romana dell’epoca repubblicana, come viene esplicitata attraverso le opere di Cicerone, Pro Sestio, De Re Publica, De Legibus, si fonda nel riconoscimento dell’auctoritas nel Senato. Anche quando Cicerone entra in lizza come homo novus8 ed è contrario al criterio della aristocrazia ereditaria con la sua dignità di stirpe, pone tutto il peso dell’autorità sul senato. La descrizione della patrios politeia romana, scrive Wirszubski-civitas a maioribus nostris sapientissime constituta- è di per se stessa molto significativa: il senato è caratterizzato sempre come l’elemento dominante della costituzione. Nella concezione di Cicerone, la costituzione dello stato libero si fonda intorno e riposa sopra l’autorità del senato9. Orbene, tecnicamente il senato non ha potestas. Manca di funzioni che compia a titolo di imperium. Potestas e imperium l’hanno i magistrati come inerente all’officium che gli si è affidato; auctoritas l’hanno i senatori. Come funzione concreta riservata al senato vi sono solo due atti: la creatio del primo magistrato nei casi di interregnum e la auctoritas patrum- un quorum di votazione favorevole che si esige per le più alte nomine- che puntano significativamente non all’esercizio di una potestà, di una decisione, ma alla coscienza dell’origine del potere di cui il senato si sente portatore10. Alla stessa maniera il senatusconsultum non è né una legge né una dichiarazione che vincoli in Diritto. Trae origine dalla richiesta di consultazione di un magistrato, ed è per questo solo risposta di massima autorità, anche se l’uso la consacri come obbligatoria; però il Senato manca di iniziativa. Il Senato fu l’istituzionalizzazione del senso originario della comunità di vita romana, che si andò affermando attraverso la tradizione per cui ogni dignitas ne era come una depositaria. Risponde certamente a un profondo sentimento aristocratico che il più delle volte si risolve in un’ideologia contro la quale lottano le frange popolari della società romana in nome di una aspirazione assolutamente democratica. Però l’idea di auctoritas come incarnazione dell’originario sentimento della comunità e come pubblico riconoscimento di questo significato nel quale è riconosciuta, entra per questa via come il concetto chiave dell’idea occidentale di ordine politico. Il principio che esprime il sentimento originario della comunità, il principio che invoca la convivenza nel suo significato incontaminato e consacra il potere che consegue al pubblico riconoscimento come portatore di questo significato, nel quale la costituzione, la fondazione, il factum genetico dell’esistenza politica si fa presente come modello di vita, è ciò che la tradizione europea conosce come autorità.
L’auctoritas è integrata per due elementi che sono l’espressione primaria dell’esistenza politica. Allo stesso modo che la auctoritas privata esprime l’attributo del soggetto di svolgere la propria vita con gli altri in proprietà (come auctor), la auctoritas pubblica, primordialmente porta in se, l’idea che l’esistenza politica come modalità di convivenza rispetto alla comunità come auctor, non meramente nel senso, -certamente ovvio- di non essere alienata la decisione al di fuori del gruppo, ma fondamentalmente , come peculiarità della convivenza, come ordine originario, come principio concreto al quale il gruppo riconduce la propria unità. In questo modo si rende visibile nell’auctoritas il pathos di quell’idea basica di convivenza che è necessariamente implicata nella tradizione dell’origine dell’autorità, il senso reverenziale al fondato. Questa definizione all’origine è patente nella terminologia. Auctoritas è proprietà dell’auctor, auctoritas patrum, autorità che ci dà l’essere, auctoritas princeps, autorità che invoca il principio. La connessione tra auctoritas e princeps si rivela nel fatto che il princeps non è nell’epoca repubblicana un titolo che designa una magistratura, nè comporta un officium definito come un ambito di potestà; il termine designa il primato nella dignitas, il primo uomo di Roma, primus inter pares, il primo in auctoritas. È così certo, che comincia a usarsi nel senato, per designare il primo che esprime la sua opinione sulla deliberazione, dopo aver parlato i consoli in carica: princeps senatus11. In seguito si può vedere come Augusto, che instaurò il suo potere servendosi dell’ideologia tradizionale, fa riposare la sua preminenza sul primato della sua auctoritas e non sopra il complesso dei suoi poteri. È evidente che tutti questi termini sono legati da un’unità di significato che riporta all’origine. È chiaro che qui si fonde un energico sentimento aristocratico della vita con una finezza di concetti e di espressioni giuridiche, che nessun altro popolo ebbe al livello dei romani. Tutta questa struttura di concetti non è che la versione razionalizzata della forma concreta che il popolo romano ebbe dalla sua fondazione, dalla fondazione della città, come il grande mito politico a cui ogni ordine di convivenza va sentimentalmente legato. L’altro elemento della auctoritas, è il pubblico riconoscimento. Certamente l’auctoritas è un valore all’interno della comunità, non ha nulla a che vedere con una virtù naturale, né è nulla di carismatico, e neppure un valore in sé della persona. Autorità si ha solo nei confronti degli altri, o più esattamente è la dignitas in cui gli altri, come vox populi, concedono a uno di loro. L’esistenza politica è, per antonomasia, l’esistenza pubblica. Offentlichkeit ist das Wesenelement der Gemeinschaft. Was nicht offentlich, gehort nicht in die Geschichte, und nicht zur Gemeninschaft, hochstens zur Gesellschaft. Questa sicura osservazione di Alois Dempf12 è una generalizzazione del modo romano di intendere la convivenza , che successivamente incorporerà il cattolicesimo e che non comincerà a incrinarsi se non con la Riforma. Per capire ciò che per il romano significava questo riconoscimento pubblico, bisogna farsi carico del fatto che, a differenza dell’uomo moderno, non distingueva tra la sua verità e la verità pubblica. Istituzioni come la afectio maritalis mostrano che nella convivenza solo ciò che in modo manifesto e pubblico si fa valere, vale come tale. Il marito ripudia la moglie, semplicemente per una pubblica offesa all’afectio maritalis. Tutto il rigido formalismo delle forme e istituzioni giuridiche dell’epoca classica traducono questo senso eminentemente pubblico della vita. Così è anche la auctoritas, innanzitutto, la considerazione pubblica della preminenza nella vita comunitaria. Tuttora il termine autorità quando si parla di un’autorità scientifica, per esempio, è usato in questo senso. Però questa fama pubblica non ha nulla a che fare con un atto giuridico di riconoscimento nel senso moderno, con una conformità, per esempio, espressa plebiscitariamente. L’auctoritas non è un quantum di adesioni individuali, ma una considerazione in comune, un essere sentito come presenza sociale, una manifestazione spontanea della comunità come comunità e non una forma di consenso alla conformità dell’individuo come individuo. Quando Augusto dichiara la preminenza della sua auctoritas, e s’invoca come princeps, non invoca nessun atto di conferimento di facoltà, ciò che è proprio della potestas, ma il fatto pubblico di essere considerato, come tale, grande autorità. Solo dentro l’universo politico razionalista tali differenze arrivano a farsi impalpabili e non possiamo comprendere alla stregua della nostra mentalità razionalista che non si esige in questo caso che si dimostri il quantum effettivo e matematico di adesioni.
Il principato di Augusto è un’esperienza politica di grande interesse, non solo da un punto di vista strettamente storico, ma anche per la genealogia di alcuni dei concetti politici fondamentali della cultura occidentale13. Il nucleo ideologico della sua costruzione sta nell’intento portato avanti di instaurare un nuovo ordine politico, tuttavia mantenendo e addirittura valorizzando alcuni criteri tradizionali di giustificazione del potere. Fondamentalmente Augusto libera il concetto di auctoritas di ogni connessione formale con la struttura repubblicana del potere e riafferma il suo originario significato di pubblico riconoscimento della dignitas preminente in una persona. L’obiettivo cui mira questa manifestazione ideologica è chiaro: mettere in chiaro la compatibilità di un’auctoritas personale con gli ideali della res publica come libertà nell’ ordine. Il titolo di princeps, come indicato prima, esprime un’auctoritas magnificata e per questo non è un’innovazione di Augusto. Già era stato usato durante l’epoca repubblicana, precisamente per designare i più importanti nell’auctoritas. La deviazione ideologica sta nel fatto che, mentre l’auctoritas individuale del periodo repubblicano significa in ultima istanza la posizione sociale e la influenza politica guadagnata concorrendo e, per ciò stesso, variabile, la auctoritas del principe, tale come si costruisce sotto l’egida di Augusto, è permanente, si lega alla persona, e si colloca in un rango di significato politico spirituale assolutamente incomparabile a qualsiasi altra autorità. A questo livello l’auctoritas è augusta. La designazione o il titolo di Augusto marca significativamente il punto di arrivo del processo che deve condurre alla divinizzazione degli imperatori. Suppone che a differenza dell’auctoritas del periodo repubblicano, prodotto, come dice Lucrezio, del contendere nobilitate, l’auctoritas augusta è oltre ogni concorrenza, costituisce il principio della comunità come ordine libero e il vincolo politico si lega a questa singolare auctoritas come centro di determinazione.
Con tutto ciò, l’affanno di Augusto di fondare il nuovo principato all’interno del clima spirituale della tradizione repubblicana lo porta a mantenere la più attenta discriminazione tra i concetti di auctoritas e potestas. La distinzione risponde alla necessità dialettica di negare l’esistenza di una concentrazione di potere, che andrebbe contro ogni struttura della costituzione repubblicana nel suo insieme. Nella Res Gestae, che costituisce il grande documento della legittimità del nuovo ordine, Augusto assicura che, sebbene in auctoritas superasse chiunque, la sua potestas era uguale a quella degli altri magistrati: Post id tempus auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem mihilo amplius habui quam ceteri qui nihi quoque in magistratu conlegae fuerunt14. È impossibile, come indica E. Meyer, che un passaggio tanto distaccato di un documento della superiore trascendenza e che fu redatto con la massima attenzione, potesse includere una affermazione, una falsità che potesse essere posta in evidenza. Augusto impiega il termine auctoritas nel senso assolutamente tradizionale e si qualifica come princeps dentro questa tradizione, ovvero non designando una posizione ufficiale nell’organizzazione del potere, ciò che propriamente è magistratura, ma nella società romana, cioè come titolo privato15. Come l’il documento di Augusto va diretto a manifestare che ha mantenuto il suo principato all’interno della costituzionalità repubblicana, menziona che ha rifiutato titoli incompatibili con essa o almeno con la sua normalità, tali come quello di console vitalizio, dictator o dominus. Tutta l’enfasi si pone sopra l’auctoritas. Lo sviluppo di questo concetto, come dimostra Cochrane, si conclude, esplicitamente con l’intento di legittimare l’ordo novus come ricostruzione dell’ordine originario della comunità romana, come legittimità di origine. “Su questo punto, scrive l’autore citato, conviene notare due peculiarità. In primo luogo, l’imperatore ritiene che la sua posizione sia formalmente corretta; manifestazione, in effetti di imperium legitimum e così autentica soluzione al problema della leadership di uno stato libero. In secondo luogo, il suo titolo all’autorità è considerato come conseguenza di certe specifiche qualità di eccellenza in virtù delle quali intende personificare la quintessenza della virtù politica latina. Possiamo verificare qui che le qualità che l’imperatore rivendica sono virtus, clementia, justitia e pietas. In questa forma la lista rappresenta un’interessante modifica delle convenzionali virtù cardinali, evidentemente deliberata. Per esempio, l’uso di clementia, al posto di magnanimitas, mira forse a collegare il giovane Cesare con il suo precursore, associandolo a questo in ciò che era un particolare aspetto della tradizione giulia. Dall’altro lato cambiare prudentia con pietas è un lampo rivelatore di una caratteristica che, se non unica in Ottaviano, fu almeno di grande significazione per la sua carriera. Questa costituì la quarta e ultima colonna della saggezza politica augustea. Ciò che si evince è che la sua saggezza consiste non tanto in qualche capacità di prevedere il futuro quanto nella lealtà ai meccanismi collaudati del passato. In questo senso, ricorda la caratteristica che Virgilio attribuiva al pius Aeneas, precisa incarnazione di tale qualità. Riflette anche un conservatorismo analogo a quello di Livio. E in ciò esplicita quello che doveva essere peculiare e distintivo della Pax Augusta”16.
In questo modo la cultura politica dell’Occidente riceve, come legato romano, il concetto di auctoritas rigorosamente differenziato da quello di potestas, come nozione generale che punta al senso originario della convivenza, come simbolo che rende esistente l’espressione politica della legittimità di origine. Mentre la potestas definisce meramente l’ambito di potestà deferite alla magistratura, inclusa la suprema magistratura della comunità, l’auctoritas sgorga da un pathos individuale alieno al diritto e nel quale si fa sentire in modo permanente il fatto stesso del gruppo politico come concreta forma storica di convivenza. Costituisce per quello il centro ultimo di riferimento perché ogni significato politico, e in primo luogo la propria potestas, deve esservi ricondotto come lo stesso fondamento originario del gruppo.
Il Cristianesimo opera come un crogiuolo (fundante) di tutti questi significati oggettivi e li eleva su un piano assolutamente estraneo alla mentalità romana. La filosofia politico-cristiana della Bassa Antichità e tutta l’ulteriore tradizione del pensiero medievale e scolastico sono un lento lavoro di rielaborazione di questi concetti sulla nuova visione teologica e particolarmente sopra il nuovo significato metafisico - trascendentale dell’uomo. Siccome non si tratta solamente di una conversione sul piano della speculazione ma anche, e in modo non meno capitale, almeno per lo sviluppo della filosofia politica, di un complesso processo di integrazione di nuove forme di convivenza, di un intento secolarmente perseguito di istituzionalizzare una civitas cristiana, occorre che la storia di questi concetti, auctoritas e potestas, sia soggetta alle verifiche non solo della poderosa affermazione trascendentalista che la Rivelazione porta con sé, ma anche- e ancor di più a questo livello - al gioco ideologico delle forze che vogliono compiere questo riordino cristiano del mondo, giochi la cui futura conseguenza è, giustamente, la deteologizzazione dell’ambito esistenziale del politico e con essa la liquidazione del concetto di auctoritas, o più esattamente la sua risoluzione nell’artifizio tecnico della sovranità, concetto indiscriminato nel quale auctoritas e potestas finalmente confluiscono.
La storia di questo processo al cui decisivo significato per la nostra cultura corrisponde oggi un’attenzione crescente nella letteratura scientifica non può tracciarsi qui, se non nelle sue linee generali, fino al punto preciso in cui sia possibile fissare l’esatta filiazione di alcuni dei concetti più importanti con cui lavora la scienza giuridico - politica contemporanea; però costituisce senza alcun dubbio, uno dei capitoli più formativi di questa disciplina, non meramente per il suo interesse storico, ma, oggi soprattutto , per la urgente necessità di mettere a nudo nel suo originario significato quei concetti prima di costruire scientificamente con gli stessi la realtà politica contemporanea, il cui stile generale potrebbe risultare ai posteri incompatibile con essi.
Qual è stato il modo cristiano di intendere la convivenza politica? Questa è la questione cui bisogna rispondere, in via preliminare rispetto alle altre. Ovviamente, è impossibile affrontare in questa sede, ab ovo, una problematica tanto delicata da ogni punto di vista e nella quale buona parte della dottrina è dominata da direttive di setta. Però, tutto sommato, e per determinare il nocciolo di significati a partire dei quali si sviluppa la storia teologico-politica dei concetti che si esaminano, può bastare quanto segue. La rivelazione cristiana è la rivelazione del nuovo statuto di relazioni tra Dio e l’uomo, che comporta la Redenzione con Cristo. Questo significa che con l’epos messianico si apre per l’uomo un nuovo orizzonte metafisico che ha come fine la salvezza in Dio. Con ciò si afferma l’uomo nella sua entità fino a un punto nel quale il suo essere specifico, la sua personalità e il suo destino, abbassano completamente ogni struttura sociale di convivenza. Il grande gesto storico del Cristianesimo è il riscatto e l’elevazione dell’uomo, in quanto persona, in cima all’ordine della natura, e in cima anche delle fissazioni obiettive di convivenza, delle strutture politico-sociali nelle quali svolge la propria vita. Dopo il Cristianesimo è impossibile, questo è il senso della polemica di Sant’Agostino e Varrone, racchiudere all’interno della comunità politica il destino della persona, in quanto essa di per se stessa è votata a una pienezza più in là del mondo. L’idea, poi, di una ragione religiosa sgorgante direttamente della comunità politica, fa una conversione considerevole, determinata dallo spiazzamento dell’uomo dalla relazione con il principio supremo. Sopra questa base si erige un’idea dell’essere in comune, che non è già politicamente costretta dentro l’angusto cerchio storico che le è dato in questo mondo, ma si espande illimitatamente fino ad abbracciare l’intera umanità nell’amore in Cristo dell’uomo per l’uomo. Questa comunità è il corpo mistico unito in Cristo, ecclesia, e la sua pienezza e il suo destino trascendente è il regno di Dio.
Con quest’affermazione trascendentale dell’uomo e della comunità in Dio, si produce inevitabilmente una svalutazione della comunità politica dal punto di vista del suo significato per l’uomo. Se questa svalutazione porta ad una considerazione in se peccaminosa dello Stato e delle istituzioni sociali di gerarchizzazione della vita nel mondo, si giunge meramente alla considerazione di tutto quest’ordine positivo come un rimedio nel mondo per la natura umana segnata dal peccato originale, o semplicemente se , come sembra più corretto, è il risultato della necessaria subordinazione di quell’ordine nei suoi contenuti e nelle sue strutture allo statuto ontologico dell’uomo fondato sulla redenzione, si tratta di un problema che non si può approfondire in questa sede. Di più, in ogni caso, è chiaro che lo stato e le istituzioni positive di organizzazione della convivenza umana nel mondo, possono essere forme di vita peccaminosa, ciò che per definizione è impossibile nell’immagine della società politica che si costruisce sopra la religio civilis.
Con questo è ovvio che il giusto ordine della società politica, la sua sorgente, il suo paradigma originario, la sua auctoritas in una parola, non trae la sua causa da se stessa, dal profondo seno della leggendaria tradizione originale, ma ha anche da trascendentalizzarsi e il suo principio si trova in Dio, origine di ogni cosa. La dominazione di Dio sul creato comporta per il Cristiano, non solo un nuovo ordine di cose, ma, per la prima volta, un ordine, una tessitura significativa della Storia17. È la storia come destino dell’umanità, il nuovo concetto del tempo come stadio fissato da Dio nel piano della salvezza18.
Tale è la base teologica - storica della dottrina Paolina per la quale ogni potere origina da Dio. Questa dottrina è il risultato del fascio di luce proiettato dalla Rivelazione sulla realtà politica, in due aspetti, critico e positivo. Per la visione critica è condizionante il dogma del peccato originale, poiché in questo modo la natura condannata dell’uomo fa propendere diabolicamente tutte le sue forme di vita verso il polo malvagio e costituisce un asse di un ordine che è come la controfigura del regno di Dio. Il peccato introduce un principio universale di disordine. Non est seulement- scrive G.Thils- l’homme et les sociétés humaines, mais le cosmos entier ressent le contre-coup de la tare originelle et gémit. Saint Paul a pronocé des paroles mystérieuses, dans Rom. VIII 19; e la critique ne pourra jamais dire, sans doute, si l’on doit entendre ce verset au sense litteral, ou bien si l’on est on présence d’une personnification de la nature inanimée, subhumaine plus exactement. Mais il reste que les exégètes ont généralement vu dans ce passage une affirmation non équivoqué de la solidarité qui existe entre le monde humaine et le monde subhumaine. La création visible est au service de l’homme afin que, assumée en lui, elle puisse glorifier Dieu; cette me^me création subit le contre-coup de l’esclavage peccamineux qui a marqué d’un sceau la première del creature viciables19. In un eccellente libro, G.Feuerer, offre una visione molto profonda di questo problema alla luce della dottrina di San Paolo e San Tommaso. “Il peccato originale , dice, può partire solo da Adamo e stendersi sull’umanità intera, perché in Adamo si ha radicalmente racchiusa questa umanità. Di conseguenza, in Adamo l’umanità si trova ritrasportata ai suoi albori, al suo intimo centro. Adamo si trova al centro dell’umanità e il suo peccato ha un ambito oggettivo - religioso, riflette l’ordine in cui è disposta l’umanità, è un peccato in quest’ordine. Nel peccato di Adamo si esprime una struttura oggettiva della vita, che se viene violata si converte in colpa e in castigo. Questa struttura non si produce in ogni ambito , ma in essa si riflette l’abisso spirituale di ogni obiettivo della vita”20. In questa determinazione oggettiva del peccato sotto la quale il cristiano comprende il mondo senza Cristo, il saeculum, appare l’ordine puramente politico, come forma sostanziale di quel mondo, il quale in ogni sua forma e ordinamento si presenta in blocco come il sistema del peccato21. Il mondo, nel senso del messianesimo giudaico e del cristianesimo primitivo, è più che un concetto cosmologico, un concetto politico e sociale compreso come configurazione storica. Sta a significare la società – pagano-gentile, il quadro istituzionale e le forme oggettive di vita generate nello stigma del peccato che trovano il loro simbolo satanico nella divinizzazione degli imperatori22.
Le fondamenta positive del concetto cristiano di ordine politico trovano la propria base nella teoria della Redenzione. La Redenzione significa il primato di Cristo sull’ universo; Instaurare omnia in Christo (San Paolo, Ephes. I 10), istaurare un nuovo ordine che deroghi l’ordine del peccato. Tale è l’instaurazione cristiana e il punto di incidenza della nuova auctoritas. Feuerer, il cristologo sopra citato, esprime l’idea in termini insuperabili. “ Redenzione significa, inoltre, la nuova messa in marcia della storia umana da parte di Dio. In questo nuovo inizio implica che l’uomo con forze divine si espande ora fino a (dominare) tutti i beni naturali e morali. Con esso si recuperano tutti i beni della natura come una necessità morale nella grazia, e con un’integrità che Dio mai avrebbe positivamente preteso dall’esistenza naturale a causa della sua durezza di cuore. Per questo è impossibile per un cristiano trascurare senza responsabilità la struttura naturale della famiglia, del popolo o dello Stato.”23. La redenzione significa, anche e in modo decisivo per la comprensione cristiana della realtà politica, una rivalorizzazione del potere da nuovi presupposti trascendentali. L’egemonia di Cristo su ogni realtà modifica il potere in un senso totalmente diverso. Tali sono le premesse cristologiche del celebre passaggio di San Paolo sull’origine divina del potere. Un ricercatore della teologia paolina tanto coscienzioso come M. Goguel esprime l’idea in questi termini: “Pour l’Apôtre, la cause pour laquelle le monde est mauvais lui est extérieure, elle ne consiste pas dans le caractère même de son être, mais dans le fait qu’il est soumis à des puissances mauvaises. Une trasformation de ce monde qui le rendra conforme à la volonté divine est donc concevable quand les puissances ostiles, ayant été anéanties, n’auront plus d’action sur lui”24. Il significato obiettivo implicito nella Redenzione dal punto di vista politico, sta nella trascendentalizzazione dell’idea di ordine. L’appello costante a Dio come suprema entità ordinatrice e all’ordine divino come paradigma di ogni ordine positivo, segnò per più di un millennio lo stile metafisico del pensiero politico. I termini polis, civitas e regnum adottati per designare anche l’ordine celestiale, il regno di dio, pongono in risalto l’intimo connubio che si stabilì trai due piani della realtà, l’intimità inscindibile tra il trascendentale e lo storico, l’aldilà e il saeculum, la civitas Dei e la civitas terrena. In questa immagine cristiana del mondo retto dalla sovranità di Cristo incontrò i suoi nuovi contenuti e la sua incardinazione la vecchia idea romana dell’auctoritas. Ogni potestà proviene da dio in quanto in Dio è perenne e integra l’assoluta auctoritas. Però quella stessa dualità, anche se retta da un unità del senso trascendentale, è positivamente dualità, dualità di strutture di convivenza, convivenza nella grazia e nella fede- comunione dei santi- e convivenza nell’ordine morale cristiano del mondo e dentro di lei nell’ordine di Cesare; da un lato, Ecclesia, dall’altro Imperium.
Anche questa dualità fu costruita sullo schema concettuale politico romano determinato da auctoritas e da potestas, però sviluppandolo nell’atmosfera trascendentalista di ogni concezione cristiana e riempendolo di nuova sostanza. Il maggior interesse, invece, è per noi in questo momento, non tanto nella fissazione concreta dei concetti su detta base, quanto nel processo di relativizzazione che questa stessa dualità per la sua stessa dialettica avrebbe compiuto25. L’inizio di questo processo dovrebbe risalire al XII secolo. La costruzione del dualismo risale a molto prima, alla famosa dottrina di Papa Gelasio, che sviluppa nelle sue epistole e commentari alla fine del V secolo26. Gelasio parte nel “Tratactus IV” da una precisazione tra lo status ex ante e lo status ex post delle relazioni tra i due poteri, prendendo come asse la venuta di Cristo. Prima di questo decisivo evento pariter reges exsisterent et pariter sacerdotes, quod sabctum Melchisedech fuisse sacra prodit historia27, malgrado per l’influenza satanica si producesse a volte la religio civilis che Gelasio considera come una diabolica sublimazione spirituale della tirannia: … ut pagani imperatores iidem se maximi pontifices dicerentur. In seguito Gelasio formula la dottrina dell’auctoritas universale di Cristo, Cristo come massimo re e sacerdote: Sed quum a verum ventum est eumdem regum atque pontificem, ultra sibi nec imperator pontificis nomen imposuit, nec pontifex regale fastigium vindicavit quamvisa enim membra ipsius, id est, veri regis atque pontificis, secundum partecipationem naturae magnificae utrumque in sacra generositate sumpsisse dicantur, ut simul regale genus et sacerdotale subsistant. L’auctoritas universale di Cristo non è né un’estensione spirituale dell’imperium né un’espansione politica del sacerdotium, ma che enim membra ipsius, id est, veri regis atque pontificis. Com’è possibile , da questo primato per definizione unitario, che possa passarsi alla struttura dualistica dell’ordine del mondo? La spiegazione di Gelasio è che Cristo, conoscendo la debolezza umana e preoccupandosi del bene del suo gregge, separò i due officia potestates. La costruzione del dualismo si incontra nell’ Epistola XII : Duo quippe sunt, imperator auguste, quibus principaliter mundus hic regitur: auctoritas sacrata pontificium et regalis potestas. La distinzione auctoritas-potestas si associa metodicamente con la distinzione sacerdotium-imperium. Gelasio riprende il concetto sacro dell’auctoritas e la fa giocare nella nuova concezione sacra dell’ordine, nella quale, per definizione, è sacra solamente la posizione del pontefice e quindi, a lui solo fa capo l’auctoritas.
L’istituzionalizzazione del Cristianesimo nelle sue strutture storiche di ordinamento doveva necessariamente essere legata al corso storico stesso, che con la caduta dell’impero aprì una crepa nell’ordine del mondo. Tutta l’opera storica e il pensiero successivo sono dominati dall’ideale della ricostruzione dell’impero nella sostanza spirituale della Christianitas, come Sacrum Imperium. La dottrina di Gelasio si scaglia contro gli eccessi del cesaro-papismo del Basso Impero che, fedele alla tradizione romana, vuole fare del Cristianesimo la religione ufficiale. Costantino ha usato ancora il titolo di pontifex maximus28. Sebbene la dottrina gelasiana fosse votata a esercitare un’influenza in sostanza decisiva nel pensiero medievale, si levava, di fatto, contro una corrente storica troppo forte perché si soffrisse di influenza effettiva sull’ordine politico. D’altro canto, gli avvenimenti storici spostarono verso oriente il centro di coesione imperiale e lì il cesaropapismo si accentuò ancora in modo più energico sotto le dissidenze e controversie teologiche. Giustiniano, sacratissimus imperator, formula nella celebre Novella VI una dottrina sulla dualità del sacerdotium-imperium che differisce sensibilmente da quella di Gelasio. Maxima quidem in omnibus sunt dona dei a superna collata clementia sacerdotium et imperium; illud quidem divinis ministrans, hoc autem humanis presidens ac diligentiam exhibens; ex uno eodemque principio utraque procedentia humanam esorna vita. Ideoque nihil sic erit studiosum imperatoribus, sicut sacerdotum honestas, cum utique et pro illis ipsis semper deo supplicent. Nam si hoc quidem inculpabile sit undique et apud deum fiducia plenum,imperium autem recte et competenter exornet traditam sibi rempublicam, erit consonantia quadam bona, omne quicquid utile est humano conferens generi29. La vecchia tradizione della religio civilis si fa patente agli inizi del Codex: Cunctos populos, quos clementine nostrae regit temperamentum, in tali volumus religione versari, quam divinum Petrum apostulum tradidisse Romanis religio usque ad nunc ab ipso insinua declarat30. Finalmente, si attribuisce la decisione sui dogmi e la disciplina ecclesiastica: Nos igitur maximam habemus sollicitudinem circa vera dei dogmata et circa sacerdotum honestatem31.
Le due concezioni sono, come fa notare Calasso, antitetiche, poiché mentre Giustiniano non vede che una Chiesa di Stato, Gelasio si attiene in modo ortodosso a una Chiesa universale, come guida e direzione spirituale del mondo32. Questa scissione dottrinale si è sempre più approfondita a seguito di circostanze e avvenimenti storici che la favorirono, dando forza a un nuovo ideale dell’Impero, a una renovatio Imperii33 la cui realizzazione,mai completamente raggiunta, riproduce sotto altre angolazioni la costruzione del dualismo dell’ordine sul quale ogni nostra cultura politica riposa.
L’evoluzione posteriore si ha sotto il segno dell’unità, reductio ad unum e il centro trascendente di quest’unità è la stessa sacra dottrina dell’auctoritas di Cristo. Cristo è caput omnis principatus et potestatis. Questo rende totalmente estraneo alla società medievale l’idea di un ordine politico puramente mondano; la sua figura cadrebbe in pieno dentro la caratterizzazione agostiniana della diabolica civitas terrena. Tuttavia questa unità della Christianitas nel mondo trova storicamente la sua realizzazione attraverso due direttrici di marcia: il Papato e l’Impero. Per noi contemporanei, non è difficile farci carico di questa alternativa dualistica alla quale rimase soggetta la costruzione dell’ordine di convivenza nel Medio Evo. Fino a un certo punto, la nostra congiuntura è simile. Da un lato siamo disposti ad ammettere che solo una ricostruzione delle forme di vita cristiane sopra le proprie premesse trascendentali può liberarci del caos di angoscia nel quale viviamo. Però, d’altra parte leghiamo le strutture di questo ordo novus al prestigio e alla tradizione colta dell’Occidente, e comprendiamo tale ricostruzione come una renovatio dell’Europa. La storia non risponde solamente all’impulso di grandi proiezioni del futuro, ma queste si legano e sviluppano sempre in alcun modo a presenze di forme precedenti idealizzate. Per l’uomo del XII secolo, la sintesi ideale tra la pienezza del futuro e la nostalgia del passato vissuta come sublime, si traduceva nell’espressione sacrum imperium, ugualmente che nella nostra attuale sintesi è un’Europa Cristiana. Però in queste formule vanno allacciati, sotto l’impulso artificiale di una ideologia, elementi in se perfettamente differenti: il messaggio atemporale di Cristo e forme concrete di vita storica, e tra i due solo può, forzosamente, realizzarsi una connessione limitata34.
La storia politica-universale del Medio Evo e con lei la storia della dogmatica dei concetti politici fondamentali, è il processo di lacerazione reciproca di Pontificato e Impero nella loro rivalità per l’auctoritas suprema, per l’egemonia spirituale sull’orbe cristiano. Questa storia si conclude con un rafforzamento progressivo degli ordini politici operanti su spazi concreti, e con la liquidazione dell’immagine politica del mondo come universum nella configurazione pluralista di Stati sovrani in concorrenza.
L’egemonia spirituale - che è ciò che propriamente costituisce il contenuto dell’auctoritas - si afferma identicamente dalle due posizioni. Nel XII secolo, Rufino elabora la dottrina che il Papa possiede una preminenza su ogni potere civile fondata sull’auctoritas che comprende tanto l’imperatore come i re, ai quali è unicamente attribuito l’officium amministrandi, in sostanza, la potestas35. Il papa che sopra la comunità ecclesiastica esercita auctoritas e potestas, esercita meramente autorità sull’ordine temporale. Questa preminenza è sottolineata come auctoritas superlativa, auctoritas summa. In realtà, comincia qui il processo di relativizzazione dei concetti che abbiamo esaminato. Un’auctoritas summa suppone qualche altra auctoritas non preminente, relativa. E così accade in effetti.” Tradizionalmente, almeno a partire dalla bassa epoca carolingia, alcuni titolari di tutta o parte della potestas ostentano ugualmente una certa auctoritas, come ad esempio, i vescovi, nonostante siano sottomessi al Papa, i semplici re, subordinati all’Imperatore. A che corrisponde quest’auctoritas? La dottrina del XII secolo per dare una risposta, ritenne opportuno studiare nel dettaglio la situazione di alcuni di questi organismi. Si accorse allora che questa auctoritas non era che una forma di potestas caratterizzata da due tratti: l’autonomia e la pienezza”36. Non fu solo una leggerezza terminologica a produrre la relativizzazione dei concetti, ma anche che, in qualche modo, si cercò di dare al primato spirituale dell’auctoritas un contenuto tangibile di effettività, presentando una potestas piena come corollario necessario di quella. L’affermazione di una auctoritas relativa portò alla conclusione logica che tale auctoritas - in sostanza, la plenitudo potestatis - avrebbe dovuto essere compresa nell’auctoritas superlativa37. In questo modo, attraverso un insieme di teorie padroneggianti gli argomenti più sottili, si andò disegnando un ampio movimento di penetrazione del primato spirituale legato al principio di ordine - che l’auctoritas non è un’altra cosa - nell’ambito materiale di esercizio del potere, sull’officium administrandi. Nella dottrina del XII secolo si afferma, per esempio, la facoltà del Papa di esercitare il potere imperiale o reale durante gli interregni per surrogarsi agli elettori negligenti che ritardano la designazione dell’Imperatore o per dirimere contrasti nell’elezione, per decidere la Crociata o si erige addirittura in judex ordinarius nelle cause delicate, quale guardiano della pace pubblica38. Però il contenuto specifico dell’auctoritas superlativa è un altro. Inerisce strettamente a quel significato del principio di ordine, di legittimità originaria e di suprema decisione, che lo stesso concetto romano di auctoritas raggiunse sotto il Principato. L’auctoritas pontificum comprende, secondo la Summa di Rufino, in primo luogo la consacrazione dell’autorità imperiale …. Sua auctoritate imperatorem regno consacrando confirmat… e in seguito il potere di giurisdizione sull’Imperatore, il potere di giudicarlo, senza che a sua volta possa essere giudicato da lui: et maxime quia apostolicus, cum sit major augusto non ab eo judicari, se deum iudicare debet39. L’affermazione del primato spirituale, la proiezione dell’auctoritas in plenitudo potestatis e la fissazione dei contenuti concreti della stessa auctoritas superlativa, riguardano direttamente e positivamente qualsiasi altra pretesa di egemonia suprema che ambisca a sollevarsi contro il pontificato. Però, d’altra parte, si produce una svalutazione di questa stessa egemonia, per la tendenza a porre sullo stesso piano, sottoposti direttamente all’auctoritas suprema, l’Impero e i re. Questa sembra essere l’origine della dottrina rex imperator est in regno suo40. Gregorio VII afferma il papato come unico principio egemonico della cristianità, come unica auctoritas universale sul popolo cristiano, e distrugge dalle fondamenta la costruzione ideologica dell’’ordine politico imperiale come qualcosa di per se stesso sacra. E ancora, per la prima volta, in un famoso testo, in cui Gregorio nel rifiutare indignato la pretesa di coloro che sostengono la preminenza di dignità dei re sui vescovi, scopre nell’origine stessa dei due poteri quello specificamente sacro: Sed forte putant, quod regla dignitas episopalem praecella. Ex earum principe colligere possunt, quantum a se utraque differunt. Illam quidem superbia humana repperit, hac divina pietas instituit. Illa vanam gloriam incessanter captat, hanc ad celeste vitam semper aspirat, e cita un testo di Sant’Ambrogio: Honor inquiens et sublimitas episcopalis nullis poterit comparationibus adaequari. Si regum fulgori compares et principium diademati longi erit inferius, quam si plombi metallum ad auri fulgorem compares41. In ciò Fiedrich Heer vede l’essenza del ribaltamento gregoriano. Fino alla disputa delle investiture, l’antica idea del Regno di Dio sembra inoppugnabile. Come guida della Cristianità, della Ecclesia, sembra l’imperatore a capo dell’occidente e l’ Impero come baluardo della cristianità. La disputa del secolo XI provoca la grande rottura; i gregoriani giungono ad affermare che la cristianità non inerisce necessariamente all’Impero, ma che l’Impero deve dimostrare la propria cristianità, appalesandola in ogni situazione. Non è, pertanto, un ordine politico istituito da Dio e di per se stesso sacro42. Privato in questa forma di una specifica superiorità carismatica, l’Imperium è puramente e semplicemente regnum; non c’è alcuna base per giustificare una distinzione di rango e significato, al di fuori del carattere puramente quantitativo della potestas. Più in là i canonisti che lavorano sulla dottrina di Innocenzo III radicalizzano la parità tra imperatore e i re. L’auctoritas superlativa è auctoritas piena, comprende anche la potestas, anche se di fatto il potere spirituale preferisce lasciare la executio al potere temporale. Addirittura s’insinua – Ugo di San Vittore - una dottrina secondo la quale la potestas civile origina da Dio, però attraverso il sacerdotium43
La auctoritas imperiale ha seguito dal canto suo un processo di totalizzazione analogo. Nel fondo è sempre l’antica aspirazione cesaropapista che la spinge. L’Impero romano è caduto, in definitiva, per la mancanza di una base d’integrazione spirituale, in difetto di un principio universalista antagonista al rigido quiritarismo della tradizione romana. La renovatio imperi può essere effettiva solo sotto le sembianze di un’indiscutibile egemonia spirituale che domini tutti i nuclei organizzati di potere sotto l’egida di un’auctoritas riconosciuta. L’affermazione della sacralità dell’Impero e la sua pretesa di missione era una necessità politico-ideologica vitale: unicamente sulla base di una istituzione divina, poteva mantenersi l’aspirazione al predominio universale44. Cathulfus, un vescovo inglese, formula la prima costruzione ideologica di un’auctoritas superlativa nell’Imperatore, riconosciuta a favore di Carlo Magno. L’imperatore sta nel posto di Dio; il vescovo di Roma, in secondo luogo, al posto di Cristo: Memor esto ergo semper, rex mi, Dei regis tui cum timore et amore, quod tu es in vice illius super omnia membra ejus custodire et regere, et rationem reddere in die judicii,etiam per te. Et episcopus est in secundo loco, in vice Christi tantum est45. Sedulio Scoto nella sua De Rectoribus Christiani, concepisce il corpo politico come regimine Ecclesiae e l’Imperatore come “Vicario di Dio”46. Un eccellente storico medievalista come Dawson descrive in questi termini il regno carolingio: “Il nuovo Impero era essenzialmente una istituzione teocratica. Esprimeva allo stesso tempo la nuova concezione della Cristianità come suprema unità sociale e il carattere sacro del governante come capo designato da Dio per il popolo cristiano. Le espressioni tradizionali che implicavano l’indole sacra o numinosa del potere imperiale - sacrum imperium, sancta majestas, divus Augustus e altre simili che l’Impero bizantino aveva conservato- acquisirono nuovo significato in Occidente… La legislazione di Carlo Magno, che ebbe tanta importanza per lo sviluppo dell’occidente, è l’espressione suprema di una concezione teocratica dell’autorità. È la legislazione di uno Stato-Chiesa unitario e comprende tutti gli aspetti della vita in comune del popolo cristiano, dall’economia e la politica sino alla liturgia, l’alta educazione e la predicazione47.
L’auctoritas suprema che in questo modo si afferma anche in monopolio da parte dell’Impero, ha un contenuto analogo a quello dell’auctoritas pontificum. L’auctoritas imperiale implica anche dal primo degli Ottoni la direzione della Chiesa. Anche il concetto di Ecclesia subisce l’impatto della polemica, e l’Impero lavora ideologicamente con la nozione di Christianitas come “Regno di Dio” e con la Civitas Dei terrena di Sant’Agostino, che favorisce, da un certo punto di vista, le sue pretese. Allo stesso modo dell’auctoritas superlativa, dal lato dell’Impero si afferma che è implicita nell’auctoritas imperiale la configurazione della legittimità dei re e quale ultima istanza di giurisdizione la facoltà di giudicare i re stessi48. Nello stesso modo che dal lato pontificio c’è un’interpenetrazione di auctoritas e potestas nel senso del rafforzamento dell’egemonia papale, dal lato dell’Impero si compie questa stessa connessione in maniera per certi versi differente. L’idea imperiale di Ottone I si sviluppa a partire da un imperiale regnum, dalla potestas effettiva sul gruppo tedesco tra le popolazioni romano-barbariche, e il riconoscimento di una superiorità non meramente spirituale. Als Koenig war der Fuehrer der Deutschen eigentlich immer nur Herr eines Stammes und konnte seine Fuehrerschaft nur auf die Hegemonie seines Stammes gruenden; als Kaiser (rex in imperio) hatte er die militaerische Gewalt ueber das Gesamtaufgebot aller Staemme, und das erst ermoeglichte ihm eine Wikliche Reichsfuehrung49. Solo che dopo quest’impero nazionale si proietta su scala universale, con una coscienza di missione sacra al servizio della Cristianità che comporta implicite prerogative legate a un’unità di ordine politico: legittimità di potere e ultima istanza di decisione. In ciò sta die Tragoedie des Heiligen Reiches (Heer). Esisteva una contraddizione insolubile tra la pretesa di un primato di effettiva direzione dell’ordine cristiano e i mezzi quasi puramente ideologici che si posero al servizio di quest’idea. Ci furono certamente le intenzioni di penetrare nell’ambito dell’effettivo esercizio della potestas, però la linea tattica tradizionale, tale come risulta dal corso degli eventi, fu la concessione sistematica di autonomia e di piena indipendenza dei regna, e non solo dei territori che sarebbero dovuti servire da nucleo di integrazione dei grandi Stati nazionali, ma anche di tutti i principati feudali. Les seigneurs, laics ou ecclésiastiques, individuals ou collectives ont accaparé le plus clair des attributs normaux de la potestas regalis. Mais, à l’inverse des autres rois, qui ont travaillé patiemment à reconstituer leur potestas, la plupart des empereurs ont cru preferable de se désinteresser de la puissance publique pour centrer tous les efforts sur l’autoritè suprême50.
Il risultato del doppio processo di liquidazione reciproca delle due pretese di egemonia spirituale, fu la distruzione dello schema unitario dell’universo politico e la costituzione degli Stati nazionali sovrani. Questo risultato nell’ordine istituzionale è accompagnato da un processo di dispersione della nozione spirituale di auctoritas e dal rafforzamento della potestas regia. Però non è semplicemente una radicalizzazione del potere come principio neutrale dell’ordine, ciò che concerne la posizione del concetto di sovranità come concetto chiave del mondo politico moderno. Il potere di per se stesso non dice nulla neanche qui. Anche nell’ambito del concetto di sovranità va connesso il potere a un significato oggettivo di ordine. Anche l’instaurazione moderna comporta un’invocazione di autorità. Però quest’invocazione manca già nel mondo moderno di un fondo unitario trascendentale e ha per legge assoluta la propria relatività.
Jesus Fueyo
(trad. di Guglielmo Klitsche de la Grange)
* Si ringrazia la sig.ra María Jesús Fueyo Munguía, erede del prof. Jesus Fueyo per aver autorizzato la traduzione e la pubblicazione di questo saggio, apparso su Estudios de Teoria Politica (1968), pubblicato anche in traduzione tedesca (AA.VV.) Epirrhosis. Festgabe für Carl Schmitt, Berlino 1968.
1 Cf. sobre esto, Franz Altheim: Römische Religionsgeschichte. V. für Kunst und Wissenschaft, Baden-Baden, ed. 1951.
2 Cf. Ch. Wirszubski: Libertas as a Political Idea at Rome during the Late Republic and Early Principate, Cambridge University Press, Cambridge, 1950, pag. 3.
3 Cf. Ch. Wirszubski, op. cit., pag. 13 e ss.; R. Hirzel: Themis, Dike und Verwandtes: ein Beitrag zur Geschichte der Rechtsidee bei den Griechen, Liepzig, 1907; G. Strohm: Demos und Monarch. Untersuchungen über die Auflösung der Demokratie, Kohlhammer, Stuttgart, 1922, pag. 15 e ss.
4 Ernst Meyer: Römischer Staat und Staatsgedanke, Artemise, V. , Zürich, 1948, pag. 250.
5 Cf. Fritz Furst: Die Bedeutung der auctoritas in privaten und öffentlichen Leben der römischen Republik, Diss. Marburgo, 1934; R. Heinze: Auctoritas en Hermes LX (1925), pag. 348-366; H. Wegehaupt: Die Bedeutung und Anwendung von dignitas. Schriften der republikanischen Zeit, Diss. Breslau, 1932.
6 Cf. R. Sohm: Instituciones de Derecho privado romano, t.e., W. Roces, ed. Revista de Derecho Privado, pag. 217 not.
7 Cf. Wirszubski, op. cit., pag. 34-35.
8 Cf. J. Vogt: Homo novus. Ein Typus der rômischen Republik, Stuttgart, 1926.
9 Cf. Wirszubski, op. cit. pag. 42.
10 Sobre esto, cf. Heinrich Siber: Römisches Verfassunsrecht, V. Moritz, Schauenbeurg in Lahr, 1952, pag. 138 e ss.
11 Cf. Ch. Seignobos: Antiquité romaine et Pré-Moyen Age, Colin, Paris, 1913, pag. 127.
12 Cf. Sacrum Imperium. Eschichte – und Staatsphilosophie des Mittelalters und der politischen Reinassance, Oldenbourg, Munich-Berlin, 1929, pag. 21.
13 Su quanto segue si può consultare lo splendido libro di Ch. Norris Cohrane: Cristianismo y Cultura clàsica, t. e., J. Carner, F. C. E. México, 1949; M. Rostovitzeff: Historia social y econòmica del Impero romano, t. e., L. Lopez-Ballesteros, Espasa-Calpe, Madrid, 1937, T. I., pag. 94 e ss.; H. Dessau: Geschichte der römischen Kaiserzeit, T.I., Berlin, 1924: M. Hammond: The Augustan Principate in Theory and Practice suring the Julio-Claudian Period. Harvard University Press. Cambridge, Mass. 1933; Max Weber: Die sozialem Gründe des Untergangs der entiken Kultur, en Gesammelte Aufsätze zur Sozial und Wirtschaftgeschichte, Mohr, Tubinga, 1924, pag. 289-311; W Weber: Princeps, Studien zur Geschichtudes Prinzipats, Stuttgart-Berlin, 1936; M. grant: From Imperium to auctoritas. A historical Study of Aes coinage in the Roma Empire, Cambridge, 1946.
14 Res Gestae, 34, 3 cit., Wirszubki, op. cit., pag. 109.
15 Meyer, op. cit., pag. 343; Siber, op. cit., pag. 272.
16 Op. cit., pag. 114.
17 Cf. sul punto, K. Löwith: Weltgeschichte und Heilsgeschehen, Europa V., Zürich-Vienna, 1952; O Cullmann: Christus un die Zeit, 2ª ed. Evangelischer V. Zollikon-Zürich, 1948; O. Bauhofer: Das Geheimnis der Zeiten, Christians Sinndeutung der Geschichte, Kösel, Munich, 1935; R. L. P. Milburn: Early Christians Interpretations of History, Black, Londres, 1956; W. Kamlah: Christentum und Geschichtlichkeit, Kohlhammer, Stuttgart, Colonia, 2ª ed., 1951.
18 Dempf, op. cit., pag. 73.
19 G. Thils: Théologie des réalités terrestres, Desclée de Brouwe, Paris, 1946, pagg. 100-101.
20 G. Feuerer: Adán y Cristo, t.e.; X Zubiri, Barna, 1944, pag. 14.
21 E. Troeltsch: Die Soziallehren der christilichen Kirchen und Gruppe, t. it., G. Sanna: La Nuova Italia, Firenze, 2ª ed. T.I., pagg. 123 e ss.
22 Troeltsch, op. cit., T.I., pagg. 198-199. Però in generale la letteratura protestante carica in eccesso questo lato negativo e omette la rivalorizzazione positiva attraverso Cristo, per aderire alla dottrina luterana dei “due Regni”. È la linea chiaramente percepibile sugli studi come quelli di O. Cullmann: Christus und due Zeit. Die urchristliche Zeit, und Geschichtsauffassung, Zollikon, Zürich, 1948; H. Gollwitzer: Die christliche Gemeinde in der politischen Welt, Mohr, Tubinga, 1954; K. Barth: Christingemeinde und Bürgergemeinde, Kohlhammer, Stuttgart, 1946; H Berkhof: Kirche und Kaiser, Evangelischer V. Zollikon, Zürich, 1947.
23 Op. cit., pagg. 211-212.
24 M. Goguel: Le caractère et le rôle de l’élement cosmologique dans le dotériologie paulinienne, en Revue d’Histoire et de Philosophie religieuse, 1935, pag. 339. O Cullmann, nonostante il suo punto di vista protestante, giunge ad una conclusione simile, op. cit.
25 Cf. Robert Holtzmann: Der Weltherrschaftsgedanke des mittelalterlichen Kaisertum und die Souveränitä der europäischen Staaten, Wissenschaftlichen Buchgemeinschaft, Darmstadt – Tubinga, 1953.
26 Cf. Walter Ullmann: The Growth of Papal Government in the Middle Ages. A study in the idological relation of clerical to lay power, Methuen, Londra, 1955.
27 Per i testi, v. R.W. Carlyle e A. J. Carlyle: A History of Mediaevale Political Theory in the West, 4ª ed. Blackwood, Edimburgo-Londra, 1950, T.I., pagg. 190 e ss.
28 Cf. S. L. Greenslade: Church and State from Constantine to Theodosius, CSM Press. Ltd. Londres, 1954, pagg. 12 e ss.
29 Cit. Calasso: Medioevo del Diritto, cit., pag. 140.
30 Ib., pag. 141.
31 Ib., ib.
32 Ib., ib.
33 Sul significato di renovatio cf. E. Kantorowicz: Kaiser Friedrich II, Berlin, 1929-1930, pagg. 176 e ss.; F. Heer: Die Tragödie des Heiligen Reiches, Kohlhammer, Viena-Zürich, 1952, pagg. 134 e ss.; P. E. Schramm: Kaiser, Rom und Renovatio, 2 vol. Berlin, 1929; Werner Kaegi: Himmlische und irdische Bürgerschaft Königtum als geistliches Ritterleben, en Chronica Mundi, Johannes V., Einsiedeln, 1954, pagg. 7-29; W. Ullmann: The Growth of Papal Government in the Middle Ages, cit., pagg. 112 e ss.
34 Cf. Klemens Brockmoller: Christentum am Morgen des Atomzeitalters, Knecht, Frankfurt a. M., 1954; pagg. 76-77.
35 Cf. Mochi Onory: Fonti canonistiche dell’idea moderna dello Stato, cit., pag. 256.
36 Cf. M. David: La souveraineté et les limites juridiques du pouvoir monarchique du IXe siècle, cit., pag. 35.
37 Ib., pagg. 36 e ss.
38 Ib., pag. 52.
39 Cit., ib., pag. 47.
40 Cf. Mochi Onory, op. cit., pag. 50; Von der Heydte: Die Gebutsstunde des souveränrn Staates, cit., pagg. 58 e ss. V. anche il mio lavoro «El sentido del Derecho y el Estado moderno», en «Anuario de Filosofia del Derecho», cit., pagg. 377 e ss.
41 Cf. Carlyle-Carlyle: op. cit., T. IV, pag. 188, che trascrive il testo cit.
42 F. Herr: Die Tragödie des Heiligen Reiches, cit., pag. 145.
43 Cf. David, op. cit., pag. 50. Su Hugo de San Victor, v. Dempf: Sacrum Imperium, cit., pagg. 243 e ss.: W. A. Schneider: Geschichte und Geschitsphilosophie bei Hugo v. St. Viktor, Munster i. W., 1933.
44 Cf. Herr, op. cit., pag. 146.
45 Carlyle-Carlyle, op. cit., R. I., pag. 215. Cf. Rudolph Wahl: Karl der Grosse. Der Vater Europas, Fischer, Hamburgo, nueva ed., 1954, pagg. 32 e ss.
46 Carlyle-Carlyle, op. cit., T. I., pag. 259.
47 Christopher Dawson: La religión y el origen de la cultura occidental, t. e. M. E. Vela, ed. Sudamericana, B. Aires, 1953, pag. 93.
48 Cf. David, op. cit., pag. 54.
49 Heinrich Mitteis: Der Staat des hohen Mittelalters, Böhlaus, Weimar, 4ª ed., 1953, pag. 120.
50 David: op. cit., pag. 56.
Pubblicazione del: 24-10-2010
nella Categoria Dottrina dello Stato e Diritto Costituzionale
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