LA DEMOCRAZIA-HANS KELSEN-(T.Klitsche de la Grange)-Vol.48-   Stampa questo documento dal titolo: . Stampa

HANS KELSEN

LA DEMOCRAZIA

Bologna 2010, pp. 391, € 15,00.

(recensione di Teodoro Klitsche de la Grange)

Questo libro è una nuova edizione del volume già pubblicato dal Mulino da quasi un trentennio, ormai introvabile. Comprende tre soli testi: Essenza e valore della democrazia (1920, qui nella seconda edizione accresciuta del 1929), Il problema del parlamentarismo( 1925) e I fondamenti della democrazia (1955). Come scrive Barberis nell’introduzione “come anche questi testi a loro modo confermano, Kelsen resta anzitutto un giurista: ma un giurista che proviene dalle regioni di confine del giuridico, da discipline, come il diritto costituzionale e il diritto internazionale, esposte più di ogni altra alle tentazioni del politico. Nelle tre sezioni di questa introduzione si cercherà appunto di mostrare, prima, come la stessa teoria del diritto kelseniana – la Dottrina pura (Reine Rechtslehre) – abbia un implicito significato politico; poi, come tale significato diventi del tutto esplicito nei lavori sulla democrazia; infine, come l’attualità dell’opera di Kelsen non vada cercata né nei suoi aspetti teorico-giuridici né in quelli teorico-politici, ma forse proprio nell’integrazione di entrambi”. Le critiche più frequenti al Kelsen “politico” sono state, scrive Barberis , formulate da studiosi marxisti o di orientamento giusnaturalista – che originano critiche differenti: per i primi Kelsen è un liberal capitalista, per i secondi un socialista-statalista. A tali critiche occorre aggiungerne altre, forse dottrinariamente più penetranti e meno orientate politicamente: e cioè che la Reine Rechtslehre tende a trascurare l’aspetto dell’applicazione del diritto (Schmitt); che è una teoria statica e astratta del diritto (Hauriou); che lo stufenbau è solo il riflesso dell’organizzazione dello stato e la gerarchia delle norme di quella degli organi statali (Carré de Malberg). In realtà in tali critiche era, per diversi aspetti, individuato il principale “punto di crisi” della dottrina pura del diritto (e in qualche misura, della teoria kelseniana della democrazia). Nei limiti del presente scritto ricordiamo che, questo era stato ben percepito da Hauriou che scriveva “se questa filosofia del diritto evita la teoria del potere dominante dello Stato, non evita il dominio di un imperativo categorico che equivale ad un ordine sociale essenzialmente necessitante. Il primato della libertà è rimpiazzato da quello dell’ordine e dell’autorità… D’altronde, ci vien detto espressamente: non vi sono necessariamente diritti individuali dei sudditi opponibili allo Stato: di conseguenza non c’è necessariamente libertà. Il giogo di una tale filosofia sarebbe per il diritto peggio di quello teologico, La teologia cattolica pone il primato della libertà umana: l’ordine divino è proposto all’uomo per mezzo della grazia. Non si impone come una necessità costrittiva, mentre l’ordine del Panteismo idealista come concepito dai giuristi post-kantiani, s’impone all’uomo in questa forma”. Se paragoniamo questi giudizi di Hauriou, rivolti alla teoria kelseniana del diritto alle pagine kelseniane sulla concezione moderna della democrazia, l’impressione non cambia. Scrive Kelsen, dopo aver esposto alcune critiche degli avversari della democrazia che “Ma a questo punto, in cui ogni tentativo di giustificare la democrazia sembra irrimediabilmente compromesso, deve intervenire la sua difesa. La grande questione è, cioè, se esista una conoscenza della verità assoluta, una comprensione dei valori assoluti. Questa è la principale antitesi fra le filosofie del mondo e quelle della vita in cui si inserisce l’antitesi fra autocrazia e democrazia. La fiducia nell’esistenza della verità assoluta e di valori assoluti pone le basi di una concezione metafisica e, particolarmente, mistico-religiosa del mondo. Ma la negazione di questo principio, l’opinione che alla conoscenza umana siano accessibili soltanto verità relative, valori relativi e che, per conseguenza, ogni verità e ogni valore – così come l’individuo che li trova – debbano essere pronti, ad ogni istante, a ritirarsi per fare posto ad altri valori e ad altre verità, porta alla concezione del mondo del criticismo e del positivismo, intendendo con ciò quella direzione della filosofia e della scienza che parte dal positivismo, cioè dal dato, dal percettibile, dalla esperienza che può sempre cambiare e che cambia, incessantemente e che rifiuta quindi l’idea di un assoluto trascendente a questa esperienza. A questa opposizione delle filosofie del mondo corrisponde un’opposizione elle teorie dei valori, specialmente delle attitudini politiche fondamentali. Alla concezione del mondo metafisico-assolutista si ricollega un’attitudine autocratica, mentre alla concezione critico-relativista del mondo si ricollega un’attitudine democratica” e prosegue “Chi ritiene inaccessibili alla conoscenza umana la verità assoluta e i valori assoluti, non deve considerare come possibile soltanto la propria opinione, ma anche l’opinione altrui. Perciò il relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica suppone. La democrazia stima allo stesso modo la volontà politica di ognuno, come rispetta ugualmente ogni credo politico, ogni opinione politica di cui, anzi, la volontà politica è l’espressione… La relatività del valore, che una determinata confessione politica proclama, l’impossibilità di rivendicare per un programma politico, per un ideale politico, un valore assoluto – per quanto disposti al sacrificio per il suo trionfo e per quanto convinti se ne possa essere personalmente – costringe imperiosamente a respingere anche l’assolutismo politico, sia che si tratti di una casta di preti, di nobili o di guerrieri, sia di una classe che di un gruppo privilegiato qualsiasi. Chi, nella propria volontà e azione politiche, può invocare un’ispirazione divina, una luce soprannaturale, può avere il diritto di restare sordo alla voce degli uomini e di far prevalere la propria volontà come volontà del bene assoluto, anche contro un mondo di avversari increduli e ciechi”. Tuttavia la corrispondenza relativismo-democrazia e l’altra fideismo-assolutismo-autocrazia è quantomeno azzardata e contraddetta dalla realtà (e dalla logica) dei fatti. In primo luogo perché anche le democrazie hanno sistemi (“tavole” di valori) irrinunciabili, pena diventare altra cosa da qual che  sono , tant’è che li difendono con le   armi   (e le guerre).  Roosevelt e Churchill difendevano la democrazia angloamericana con estrema decisione, fino ad imporre ai vinti la resa incondizionata (e la democratizzazione forzata) e ad uccidere centinaia di migliaia di civili (non solo tedeschi o giapponesi) con i bombardamenti terroristici.  Noske difendeva la fragile democrazia di Weimar facendo passare per le armi gli spartakisti. In ogni Stato democratico c’è un nucleo di istituzioni, valori, regole che è immutabile e cioè “assoluto”,così come in ogni altra forma e tipo di Stato,  e per il quale non differisce da quelli. Certo delle democrazie è tipico legittimare –pena non esser più tali – al minimo l’esistenza di un’opposizione politica e la possibilità che diventi governo. Ma ciò non toglie che quello (e anche altro) sia necessario perché una democrazia sia tale; perciò, in tal senso, sia immutabile se si vuole conservare la forma (democratica) dello Stato. La mancata accettazione di questo da parte di un altro soggetto politico può essere motivo di guerra (anche civile): quel  “nucleo” e quei valori democratici  sono così assoluti da giustificare l’uccidere e l’essere uccisi. Di ciò da atto il curatore del volume che scrive “Quella di Kelsen, anzitutto, è una concezione relativistica della democrazia: una concezione che si candida come adeguata all’epoca del crepuscolo degli idoli e del politeismo dei valori” ma “Può darsi democrazia, dunque, solo in una situazione intermedia fra due estremi, costituiti rispettivamente dalla condivisione di valori oggettivi e assoluti, passibili di fede ma non di discussione, e dalla radicale incommensurabilità dei valori, fra i quali finisce per decidere la forza e non il dialogo. Ma se le cose stanno così, allora, la democrazia sarà possibile solo ove il relativismo etico non sia esso stesso assoluto, ma relativo: deve pur sempre esservi uno sfondo di valori comuni. O almeno un overlapping consensus, perché discutere e votare abbia un senso”. E qua torniamo alla concezione schmittiana della democrazia, che si fonda su un certo tasso d’omogeneità tra i cittadini. Più in generale quella equazione non tiene conto che mentre la conoscenza – in ispecie scientifica – vive ( e prospera) dal confronto (e superamente) di teorie ed ipotesi, e la verità, come scriveva Vico “proviene dalla ragione”) e che consiste, secondo il filosofo napoletano  nella conformità della mente all’ordine delle cose; mentre il certum proviene dall’autorità (il che non esclude la verità perché l’autorità cum ratione omnino pugnare non possit). Onde l’autorità (che per Vico non era soltanto quella politica, ma anche l’autorità della tradizione, del precedente e così via) è il fondamento della certezza, e quindi della convivenza umana. Una società può esistere senza una verità ufficiale ma non senza un’autorità che la organizzi e eserciti efficacemente  il comando, ottenendo obbedienza e creando certezza nei rapporti sociali. Questo è un presupposto necessario perché esista una comunità politica, e quindi anche la democrazia che è comunque un regime politico. Il relativismo si sposa bene con la ricerca della verità, e soprattutto con quella scientifica, che vive di ipotesi e verifiche d’ipotesi: ma non è merce se non relativamente spendibile nell’unità e nel mondo politico che richiede la decisione, definitiva e non più soggetta a discussione. Come scrive Schmitt nella Politiche Teologie “De Maistre dichiara buona l’autorità in quanto tale, per il solo fatto che sussiste: «ogni governo è buono una volta che è stabilito». La ragione consiste nel fatto che nella mera esistenza di un’autorità è presente una decisione e la decisione a sua volta è valida in sé, poiché proprio nelle cose più importanti conta più che si decida, che non come si decide”. Senza discussione, senza opposizione istituzionalizzata, un popolo può esistere come unità politica: ma non lo può senza autorità e senza decisione; del pari può esistere senza una verità ufficiale, ma non senza quelle. Al di là del disaccordo che possano suscitare alcune delle tesi di Kelsen, è comunque un libro di grande interesse. Il quale risente del momento storico in cui questi scritti furono (prevalentemente) concepiti, le difficoltà e poi la fine delle democrazie austro-tedesche tra le due guerre, strette tra i totalitarismi nazi-fascista e comunista, per cui alcune soluzioni kelseniane anche se discutibili, avevano ed hanno un indubbio carattere d’opportunità ad mala peiora vitanda. Quelli che il secolo scorso purtroppo non ci ha risparmiato. Teodoro Klitsche de la Grange



Pubblicazione del: 17-07-2011
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