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RISORGIMENTO E GUERRA CIVILE-T.Klitsche de la Grange-Vol.-49-
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RISORGIMENTO E GUERRA CIVILE*) 1. Il revival revisionista - 2. Il brigantaggio come guerra civile – 3. La circolare Ricasoli: minimizzare, depoliticizzare, criminalizzare il brigantaggio – 4. I criteri distintivi-identificativi della guerra civile – 5. I plebisciti e il brigantaggio – 6. Il conflitto di legittimità – 7. La storia dell’Italia e il carattere dell’unità – 8. Il nemico, il riconoscimento e l’integrazione – 9. Conclusione. 1. Un amico, proprietario di una bella (e storica) libreria di Roma mi ha raccontato che in questo anniversario quasi tutti i libri sul Risorgimento che vende sono quelli “revisionisti”. In particolare due, caratterizzati dalla critica all’annessione del Regno delle due Sicilie, pubblicati dai maggiori editori italiani, mentre, fino a un paio d’anni orsono, opere di taglio simile erano appannaggio dell’editoria di “nicchia”. Tale dato fa riflettere, al di là della prima spiegazione che viene alla mente: che dopo tanta agiografia e retorica risorgimentale, per avvertire una notizia che sia tale – cioè “nuova” – occorre rifarsi ai vinti del Risorgimento. E’ la rivincita mediatica del Cardinale Ruffo sulla Pimentel, di Francesco II° su Garibaldi, di Chiavone su Cialdini. Ma fornisce lo spunto per altre considerazioni, meno legate agli usi della società della comunicazione (e dello spettacolo); e che vado (brevemente) a fare, scusandomi se, essendo giurista e studioso di politica, non ho né metodo né capacità di storico. E quindi quello che sto per dire è naturalmente limitato nell’angolo visuale. Ciò che mi colpisce del Risorgimento – latamente inteso, cioè a partire dalla Rivoluzione francese al compiersi dell’unità – e, più in là, in un certo senso, fino ad oggi, è: - il fatto che si sia realizzato a prezzo di guerre civili sanguinose; fatto peraltro normale, perché quasi tutti gli Stati “nuovi” nascono da conflitti bellici; meno frequente che siano guerre civili.
- e che tali guerre siano state negate, minimizzate, e sostanzialmente rimosse dalla “biografia della nazione”. Operazione perseguita con un rigore, una determinazione, una costanza inconsueta in questo paese. E ciò pour cause. Scuole, istituzioni culturali, editoria, mezzi di comunicazione vi hanno contribuito. A me studente liceale presso il Pontificio Istituto S. Apollinare – che per comprensibili motivi avrebbe potuto non essere così propenso a minimizzare certi momenti (e movimenti) storici – non era agevole percepire che nel 1799 il mezzogiorno d’Italia si era liberato da solo (è stato l’unico caso nella storia dell’Italia moderna) dall’occupazione francese creando anche una figura “di successo” della storia e della politica contemporanea, cioè il moderno partigiano; che Giuseppe Bonaparte e Murat avevano sudato sette camice per sconfiggere il brigantaggio filoborbonico in particolare in Calabria (durato dal 1806 al 1810); che la repressione del brigantaggio successivo all’unità era durata circa dieci anni, aveva richiesto l’opera di quasi metà dell’esercito italiano ed era costato alle due parti diverse decine di migliaia di morti.
- Quindi, diversamente dal lessico impiegato (che ricorda quello contemporaneo sulle cosiddette operazioni di “polizia internazionale”) non si trattava di operazioni di polizia, di repressione di criminalità, come suggerito, in particolare, dalla parola “briganti”, ma di vere guerre civili (e partigiane). Delle quali avevano tutte le caratteristiche, comprese le peggiori.
Montherlant in un suo dramma metteva in scena la guerra civile facendola così presentare: “io sono la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro il nemico. Io sono la Guerra Civile, io sono la buona guerra, quella dove si sa perché si uccide e chi si uccide: il lupo divora l’agnello, ma non lo odia; ma il lupo odia il lupo”. In effetti la guerra civile, con la sua assenza di regole, l’esasperazione, nel “triedro della guerra” di Clausewitz, del “cieco istinto” realizza il massimo dell’inimicizia. Quella che Aron chiama l’ostilità assoluta. Croce ravvedeva il carattere estremo della negazione del “nuovo” e della contrapposizione tra rivoluzionari e contro-rivoluzionari nel 1799: “L’odio terribile, l’odio della paura da una parte, e l’odio della conculcata libertà e dignità morale dall’altra, non bastano a spiegare la ferocia della lotta allora iniziata, se non si tiene presente che il giacobinismo (come tra i primi riconobbe il Tocqueville) era una religione, e che al contrasto la vecchia superstiziosa religione, col suo complemento di vecchia politica e di vecchia moralità, si raccendeva, e che dunque la guerra che si combatteva era della specie più feroce, guerra di religioni”. Ma questo carattere è nel contempo la negazione più radicale di quella che con il Risorgimento (con particolare riferimento ai fatti del 1860 e successivi) si voleva costituire: l’unità politica degli italiani in uno Stato nazionale. Perché per farla occorre non solo un’ “identità comune” ma ancor più un appezzabile grado di consenso condiviso (idem sentire de re publica), onde far si che l’unità così raggiunta non sia (e non appaia) il risultato di un atto di forza. Proprio ciò che viene negato dalla guerra civile che rivela la prevalenza – come mezzo per realizzare l’unità – della forza sul consenso. Sottraendo legittimità al nuovo Stato ed alla di esso classe dirigente. 2. Per ricordarne il carattere di confronti bellici, al di la di ogni minimizzazione e rimozione, è bene rammentare qualche dato: 1) Nel 1796 Bonaparte perse solo qualche centinaio di uomini nella battaglia di Lodi, vittoria che gli aprì le porte di Milano e la conquista di (quasi tutta) la Lombardia; tre anni dopo, ad Antrodoco, i francesi persero quasi duemila soldati in una battaglia con i briganti abruzzesi (e reatini). Nel giugno 1799 il Cardinal Ruffo arrivava davanti a Napoli alla testa dell’Armata sanfedista forte di 30-50.000 uomini, radunata in base ad una regolare commissio rilasciatagli, con i poteri di alter ego, da Ferdinando IV, re legittimo. Definirlo “brigantaggio” in tal caso è un torto che la propaganda fa alla verità (e al vocabolario). 2) Nel 1806, con la nuova occupazione francese, ricominciò la guerriglia. Così la descrive Colletta “Mentre il re stava in Calabria con molta parte dell’esercito, quelle stesse province e le altre del regno erano sempre mai travagliate dal brigantaggio; le provvigioni di guerra predate sul cammino, i soldati assaliti ed uccisi per fino intorno al campo… Gioacchino poi che vidde possibile ogni delitto a’ briganti, fece legge che un generale avesse potere supremo nelle Calabrie su di ogni cosa militare o civile per la distruzione del brigantaggio”. E se ne venne a capo solo nel 1810. 3) Nel 1860 alcuni dati, che riporto dal libro di Giordano Bruno Guerri “Il sangue del sud”, danno la misura dell’entità delle forze e delle dimensioni degli scontri: “Secondo Franco Molfese, autore della fondamentale Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, tra il 1861 e il 1865 sarebbero stati uccisi, negli scontri o con le esecuzioni, 5212 briganti. Carlo Alianello, lo scrittore lucano che fece del brigantaggio materia narrativa, ne conta poco meno del doppio (9860)”. Altre fonti calcolano – probabilmente e largamente esagerate – le perdite umane tra la popolazione in oltre duecentomila; tra i soldati oltre ventimila. Più sicuro è il dato delle forze addette alla repressione: oltre centoventimila soldati e carabinieri, più di ottantamila militi della Guardia Nazionale. Anche se, come guerre partigiane, erano combattute con colpi di mano, agguati e scaramucce, non mancarono scontri che impegnavano da una parte e dall’altra, parecchie centinaia o migliaia di uomini come a Bauco (gennaio 1861) sul fiume Sauro (nel novembre 1861) o a Calitri (agosto 1861). Se dal “quantitativo” si passa al “qualitativo”, in particolare giuridico, occorsero sia poteri che leggi eccezionali. Mahnés con Murat ebbe poteri d’emergenza; nel 1861 li ebbe Cialdini; nel 1863 fu promulgata la legge Pica, una vera legge per la guerra civile, con tanto di processi sommari, fucilazioni, lavori forzati a vita, condoni e immunità ai “pentiti”. 3. Un documento estremamente interessante per la costruzione di un’immagine non politica ma (meramente) criminale del brigantaggio è la circolare Ricasoli (all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri) del 24 agosto 1861. Ne riportiamo qualche passo dal libro “Brigantaggio e risorgimento” di Giovanni De Matteo, che la cita (in parte). Ricasoli inizia con la constatazione di una “regolarità” storico-politica “In ogni luogo, dove per forza di rivoluzioni si venne a cambiar forma di governo e la dinastia regnante sempre rimase superstite per un tempo più o meno lungo, un lievito dell’antico e perturbare gli ordini nuovi non si poté eliminare dal corpo della nazione se non a prezzo di lotte fratricide e di sangue”; tuttavia nessuno “osò negare il diritto della repressione nei governi costituiti e consultati dalla gran maggioranza della Nazione, né considerò la resistenza armata al suo volere se non come una ribellione alla sovranità nazionale, benché questa ribellione avesse eserciti ordinati, generali valorosi ed esperti, possedesse città e territorio dove esercitava dominio, e fossero necessarie domar la guerra, regolare gli scontri in giornata campale”. Quindi ancorché vi sia una chiara rivendicazione e organizzazione politica degli insorti, compete comunque al “governo costituito” il diritto di reprimerli. Subito dopo però il brigantaggio meridionale diviene l’eccezione “Voi non potete non aver notato l’immensa differenza che passa fra il brigantaggio napoletano e i fatti sovracennati. Non si può a quello far neppure l’onore di paragonarlo con questi: i partigiani di Don Carlos, i seguaci degli Stuardi, i Vandeisti, i quali finalmente combatterono per un principio, si terrebbero per ingiuriati se venissero posti in comparazione coi volgari assassini che si gettano su varii luoghi di alcune provincie napolitane per amore unicamente di saccheggio e rapina. Invano domandereste loro un programma politico, invano cerchereste fra i nomi di coloro che li conducono, quando hanno alcuno che li conduca, un nome che pure lontanamente si potesse paragonare con quelli di Cabrera o di Larochejacquelin o anche solamente del Curato Merno di Stafflet o Charette… Questa assoluta mancanza di colore politico, la quale risulta dal complesso dei fatti e dei procedimenti dei briganti napolitani, è anche luminosa attestata dalle corrispondenze ufficiali dei consoli e vice consoli inglesi nelle provincie meridionali”. Ma della neutralità dei funzionari inglesi, di un governo cioè che aveva aiutato la spedizione di Garibaldi, c’era da dubitare. Ciononostante Ricasoli minimizza il brigantaggio citando l’autorità di un funzionario di S. M. britannica “mi permetto di richiamare l’attenzione della S.V. specialmente sul dispaccio del signor Bomharn 8 giugno, che specificamente dice: «Le bande dei malfattori non sono numerose e quanto sembra, ma sono diffuse per tutto, per tutto si parla dei loro atti feroci, spogliando viaggiatori, casali, tagliando i fili elettrici e talvolta incendiando i raccolti. L’antica bandiera borbonica è stata in alcuni luoghi rialzata, ma certo è che il movimento non è per nulla politico. …Il brigantaggio napoletano pertanto può ben essere uno strumento in mano della reazione che lo nutre, lo promuove e lo paga per tenere agitato il paese, mantenere vive folli speranze e ingannare l’opinione pubblica d’Europa, ma quanto sarebbe falso di prenderlo come una protesta armata contro il nuovo ordine di cose” (Crocco e la sua banda - pare duemila briganti - sono così sistemati, a parole). Ma dov’è – si chiede Ricasoli - il vero brigantaggio? “Il vero brigantaggio esiste nelle provincie che sono intorno a Napoli, ha per base la linea del confine pontificio, tiene le sue forze principali nella catena del Matese, e di là poi si getta su quelle due provincie e, in quelle di Avellino, di Benevento, e di Napoli, distendendosi lungo l’Appennino sino a Salerno, e perdendo sempre più si discosta dalla frontiera romana, dove si appoggia e dove si rinforza d’armi, d’uomini e di danaro; cinque sole pertanto delle quindici provincie onde si componeva il Regno di Napoli sono infestate dai briganti”. Si capisce dagli ultimi passi citati che il brigantaggio è uno strumento in mano delle “reazione” cioè dei legittimisti borbonici (quindi ha una posizione – e un’aspirazione politica); e che è aiutato da uno Stato estero (perciò soggetto politico), quello della Chiesa. Malgrado ciò, non è “una reazione politica”, ma, in un certo senso, endemico, etnico, quasi un modo d’esistenza. E Ricasoli prosegue con una storia del brigantaggio meridionale in cui non riesce a nascondere che tali briganti endemici si moltiplicavano con le invasioni, di guisa da dover essere debellati (?) da eserciti e (relativi) generali dotati, come Manhès, di “poteri illimitati” usati con larghezza, aggiunge Ricasoli. Si potrebbe obiettare che tale circolare ha il pregio di esternare delle considerazioni – in generale – corrette ma di non applicarle in modo congruo in concreto: tra l’altro non nota come, nelle guerre civili, spesso il carattere “politico” della fazione insorta è riconosciuto anche dall’altra, e ciò consente e consiglia l’applicazione di alcuni istituti e pratiche del diritto internazionale, come acutamente osservava Santi Romano. In tali istruzioni di Ricasoli c’è, sintetizzato, tutto l’armamentario della propaganda ufficiale anti-brigantaggio, che si basa su tre capisaldi: la minimizzazione del fenomeno, la negazione del carattere politico delle insorgenze e – parallela – la loro riduzione a fenomeno criminale. Ma il tutto rende un’immagine distorta della realtà, e in se contraddittoria. Infatti se si da atto che il brigantaggio è finanziato e fomentato dalla detronizzata monarchia borbonica, se ne afferma così il carattere politico, ancor più di quanto potessero fare i briganti issando stendardi borbonici o inneggiando a Francesco II; se si accusa lo Stato della Chiesa di aiutarlo, si ammette che è collegato ad un soggetto politico statale, esistente. I quali, come scrive Schmitt, sono caratteri che distinguono il partigiano dal delinquente comune. Ancor più: la negazione del carattere politico del partigiano esaspera la durezza della lotta. I soldati nemici presi prigionieri non si processano e non si fucilano (per il solo fatto di essere nemici), i delinquenti, i briganti, sì (la legge Pica lo conferma). La distinzione tra gli uni e gli altri era chiara già nel diritto romano: “Hostes” hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri “latrones” aut “praedones” sunt (D, L, 16, 118). I primi hanno i diritti garantiti dal diritto internazionale di guerra; i secondi no. La repressione (anche nei confronti dei “manutengoli” cioè dei favoreggiatori dei briganti) è a discrezione del legislatore (e del diritto) interno. Come scrive Schmitt così si sviluppa “la logica di una guerra di justa causa che non riconosce uno justus hostis”. Se è vero che uno degli elementi che distingue il partigiano dal criminale è l’impegno politico, si pone il problema se ciò sia esaustivo e se possa essere per così dire soggettivizzato: ossia che per essere combattente politico sia sufficiente autoqualificarsi tale. Cui corrisponde il procedimento inverso: ovvero se basti per qualificarlo politico o meno che lo Stato (il governo, la legge) lo designi come tale. Del pari neppure il riconoscimento da parte di un “terzo interessato” del partigiano come soggetto politico (o meno) può rivestire carattere decisivo. Da una parte perché consiste in un giudizio soggettivo come gli altri (cambia solo chi lo considera tale); dall’altro perché condizionato da interessi (di potenza) volti a favorire il governo legale o, viceversa, l’opposizione armata. Un procedimento a tale riguardo più sicuro – e in una certa misura frequente nel diritto – è di affidarsi a più criteri; la coincidenza dei quali permette di affermare il carattere politico (nella specie del brigantaggio), almeno sotto il profilo dell’intenzione/aspirazione del combattente. Impegno politico (intenso), riconoscimento da parte di terzo a sua volta riconosciuto come soggetto politico, deliberazioni del governo “legittimo” (come per i Borboni di Napoli sia nel 1799 che nel 1860, o del re di Prussia nel decreto del 1813 sul Landwehr) sono tutti elementi che valgono – se ricorrono e coincidono – a corroborare il carattere “politico” dei soggetti e della lotta. Ma il tutto non appare esaustivo: per fare politica e, in particolare la guerra occorre di più che soggettività e intenzionalità; in particolare se occorre distinguere la guerra civile da altre forme di ostilità anche intense come la lotta di classe e ancor più il terrorismo. Quanto alla prima la distinzione è più agevole: Lenin e, forse ancor più Gramsci, ce ne offrono il criterio: l’uso (estremo) della violenza in un caso, che manca nell’altro. Anche se talune forme di lotta di classe possono essere considerate illegali dall’ordinamento statale (cioè la mera illegalità proclamata non è sufficiente a distinguere lotta di classe e guerra civile). Il problema si pose, tra l’altro, in Italia all’epoca del sequestro Moro, data l’aspirazione delle Brigate Rosse ad essere riconosciute quale soggetto politico. Com’è noto l’essere tale – e in particolare sovrano – consegue dalla possibilità di poter fare la guerra (e non rapine, omicidi, sequestri, anche se ripetuti); per cui occorre valutare se l’aspirante soggetto politico abbia oltrepassato quella soglia oltre la quale il quantitativo (di azioni violente) si converte nel qualitativo (guerra). Ora è evidente che tra la “geometrica potenza” dell’azione più clamorosa delle Brigate Rosse, culminata nel sequestro dell’on. Moro e nell’assassinio della scorta (5 morti) in cui furono coinvolte (pare) una dozzina (o poco più) di militanti brigatisti e le battaglie (piccole) di Bauco, Calibri o del fiume Sauro – per non ricordare quella di Antrodoco (nel 1799) – c’è quella differenza essenziale costituita da un’azione che coinvolge (da una parte e dall’altra) al massimo due dozzine di persone e le altre, condotte da qualche migliaio (con tanto di artiglieria). Ma, come detto, anche in tal caso il criterio quantitativo non può individuare la “soglia”. Occorre andare alla ricerca di criteri qualitativi. Due dei quali, in parti coincidenti ce li suggeriscono due personaggi così diversi come Mao-dse-dong e Santi Romano. Quanto al rivoluzionario cinese è noto che vedeva nella popolazione (civile) una delle (due) braccia della morsa con cui schiacciare (e scacciare) il nemico (per cui la popolazione può essere, simmetricamente, considerata «combattente» dal nemico); e, nelle guerre civili ricordate la popolazione civile da un canto protesse e aiutò i “briganti” (come nella massima di Mao che la paragonava all’acqua in cui si muove il guerrigliero); dall’altro fu oggetto di rappresaglie (da Andria – tra le altre – nel 1799, incendiata e saccheggiata da francesi e giacobini a Pontelandolfo e Casalduni, nel 1861, incendiate dall’esercito italiano). Se tuttavia i briganti potevano concentrarsi in formazioni così cospicue e impegnare contingenti numerosi degli eserciti avversari ciò avvenne proprio per la ragione sottesa al ragionamento di Mao: che avevano il favore di consistenti masse popolari, in parte del territorio infestato addirittura largamente maggioritario. Era questo a “fare la differenza” tra le decine di migliaia di sanfedisti del Cardinal Ruffo, le migliaia di briganti di Crocco, le diverse centinaia di Chiavone, di Ninco Nanco, del sergente Romano (tutti capi-briganti della guerra civile del 1860-1870) e le striminzite colonne delle brigate rosse costrette a rintanarsi nei “covi” dall’avversione diffusa dell’enorme maggioranza della popolazione. Lo stesso Kant giustificava la conclusione delle trattative con gli insorti (con ciò divenuti soggetto politico) ove uno Stato “per discordie intestine si divide in due parti, ognuna delle quali si costituisce in Stato particolare, con la pretesa di dominare il tutto: nel qual caso l’aiuto prestato a uno dei due Stati non potrebbe considerarsi come ingerenza nella costituzione di un altro Stato, perché non di Stati si tratta, ma di anarchia”. E per farlo occorre quello che riteneva Santi Romano – in parte coincidente con le idee di Mao-tse-dong: scrivendo sulla rivoluzione (e sul partito rivoluzionario) il giurista siciliano vi ravvede “un ordinamento sia pure imperfetto, fluttuante, provvisorio”, un’ “organizzazione statale in embrione”. Ora la “popolazione” (e il di essa consenso) è uno degli elementi dello Stato e così del partito rivoluzionario; anche se Santi Romano pone l’accento più sull’organizzazione e sul carattere originario dell’ordinamento rivoluzionario (ma nel caso delle guerre civili italiane, queste conseguono, nel Sud, ad atti dei monarchi legittimi). Per cui il criterio oggettivo e qualitativo onde distinguere la guerra civile da una pluralità di azioni criminali, anche se coordinate e finalizzate, è quello individuato da Mao-tse-dong, del consenso della popolazione e da Santi Romano, degli elementi di uno Stato in embrione nel partito “combattente”, tra loro in parte coestensivi, ancor più se il consenso di gran parte della popolazione consente di controllare e amministrare anche zone del territorio da quella abitato (il territorio dominato di Schneider-Bosgard). È questa la causa del radicamento e dell’operare agevole e diffuso della guerriglia: i grandi numeri (le migliaia di partigiani combattenti), ne sono l’effetto. 5. C’era, per Ricasoli, un’altra ragione per negare il carattere politico del brigantaggio: che questo negava, con i fatti, la legittimità del nuovo ordine. Con i plebisciti per l’annessione si volle dare una legittimazione popolare all’avvenuta conquista del regno duosiciliano. I risultati ufficiali delle consultazioni furono lusinghieri per la (quasi) unanimità dei si, anche se sospetti, come rilevava il Principe di Salina (i voti contrari furono meno dell’un percento degli elettori). L’esito dei plebisciti serviva a dare una veste di consenso (che sicuramente in parte aveva, ma non così largo) all’annessione. Ma i briganti che con i fatti contestavano quei risultati, combattendo e rischiando la vita, sostanzialmente… votavano con gli schioppi. Un po’ come, alla fine del secolo scorso, si diceva votassero con i piedi (cioè espatriando) gli europei dell’est. Non potendo evitare le schioppettate, si negava il carattere politico delle medesime, degradandolo a criminale. Come scrive Max Weber, ogni potere politico cerca di suscitare la fede della propria legittimità. In questa costante prassi socio-politica va iscritta la spoliticizzazione/criminalizzazione del brigantaggio: se infatti l’ “opposizione” non è politica, ma è un fenomeno criminale, la conseguenza è che non c’è un’opposizione al potere costituito e che quindi questo, legittimato dai plebisciti, “vige” cioè esercita il comando ed ha il diritto di ottenere obbedienza. 6. La circolare Ricasoli suscita, a tale proposito, anche altri interrogativi. Il più importante è che la classe dirigente dello Stato unitario e gli insorgenti borbonici si richiamavano a due differenti concezioni della legittimità; ma per Ricasoli forse più di quella sottesa ai plebisciti (cioè una concezione democratica della legittimità) vale quella, squisitamente hobbesiana, del diritto di conquista. Mentre per gli insorti vale quella di tipo tradizionale, la fedeltà al Trono e all’Altare. La concezione di Ricasoli è interessante anche perché da la misura di un certo disagio dello statista. Il quale, rivendicando il diritto (e dovere) del nuovo Stato alla repressione del brigantaggio, scrive che spetta “ai governi costituiti e consultati dalla gran maggioranza della Nazione”; cioè fa riferimento insieme sia alla legittimazione con i plebisciti (quindi ad “atti” di volontà popolare) che al fatto compiuto che il governo italiano è costituito. Quel costituito è l’essenza della legittimità: secondo Hobbes spetta a chi esercita un comando efficace e, perciò, ha il diritto a pretendere obbedienza. È inutile dire che è la base dell’ordinamento internazionale, per il quale i soggetti del medesimo sono gli Stati in grado di farsi obbedire nel loro territorio (e non i governi “legali” ma privi di comando efficace). Concezione prevalente nel diritto; secondo Santi Romano “esistente e per conseguenza legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità […]. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali”. In sostanza è il fatto di esercitare un potere con successo su una popolazione insediata sul territorio a legittimare il nuovo governo: e che si sia instaurato per conquista nulla toglie alla legittimità di essersi così costituito. La circostanza che i plebisciti avessero confermato l’esito della guerra si aggiunge come tributo a quella “volontà della nazione” che pure si inseriva nella formula della proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d’Italia. E riveste anche un valore polemico: agli insorti, che si richiamavano alla legittimità tradizionale, si contrappone quella della volontà popolare esternata nei plebisciti. In sostanza Ricasoli faceva riferimento alle due ragioni che potevano sostenere la legittimità della conquista; non avrebbe invece potuto far riferimento alla legittimità tradizionale, perché sicuramente dalla parte dei Borboni. E neppure alla legalità – che a parte ogni altra considerazione – stava anch’essa dalla parte degli insorti, dato che l’intervento piemontese costituiva, come ogni conquista, uno strappo alla legalità. E, peraltro, lo stesso Francesco II° (sovrano legale) aveva legittimato gli insorti, col proclama dell’8 dicembre 1860, dato in Gaeta (assediata), sottolineando l’illegittimità e la durezza della conquista. Similmente a quanto già fatto da Ferdinando IV° quando, nel lasciare Napoli nel 1799 chiamò i sudditi alla sollevazione ed alla resistenza contro gli invasori. 7. Se appartenevano agli insorti sia il carattere politico, sia il richiamo alla legittimità tradizionale, sia alla legalità, oltretutto di una guerra non dichiarata e non conclusa con un trattato di pace (e quindi legalmente in corso), cosa ha prodotto la contestazione di questi e la damnatio memoriae del “brigantaggio”, bollato come criminale? Il problema si presenta con il detto di Massimo D’Azeglio: che l’Italia si era fatta, ma era necessario fare gli italiani. E non si capisce per quale ragione avrebbero dovuto sentirsi tanto soddisfatte del nuovo status le popolazioni che avevano parteggiato per i briganti, subito dolorose perdite e per di più, anche decenni dopo, sentivano ancora definire criminali quelli che avevano preso le armi e manutengoli coloro che li avevano aiutati. Se infatti la criminalizzazione del nemico può essere utile in guerra, diventa un ostacolo nel farla cessare, cioè a ottenere la pace. In questa sequenza logica, l’unico modo per concludere la guerra è la debellatio, non solo quella fisica, ma anche quella morale ed ideologica. Si potrebbe rispondere che una pace con gli insorti non si poteva concludere perché questi non costituivano un soggetto istituzionale. A parte le considerazioni prima ricordate di Santi Romano (sull’applicazione di prassi e istituti di diritto internazionale), qua si sta parlando di comportamenti a lungo termine, protratti ben oltre la cessazione del brigantaggio (del 1860), spento circa un decennio dopo la nascita. Ma la cui criminalizzazione è sopravvissuta alla morte politica. Vattel e Kant considerano clausola naturale di un trattato (e quindi di uno stato) di pace, quella di amnistia, per cui sono condonati i reati commessi durante lo stato di guerra. Clausola conseguenziale alla concezione limitata della guerra, tipica dello jus publicum europaeum, per cui il nemico non è un criminale. Se, invece, è considerato tale, allora dev’essere punito ben oltre la fine della guerra. Il che è puntualmente avvenuto:molti briganti sono morti detenuti, ancora nel secolo scorso (cioè dopo oltre trent’anni dalla cessazione del brigantaggio). Di più: fino a qualche anno fa, la verità ufficiale che i briganti erano criminali era ripetuta in ogni sede, nelle aule scolastiche in particolare. Ma l’aspetto positivo del nemico è, come scrive de Benoist, che con esso fai la guerra, ma anche la pace: “lutter contre c’est lutter avec”. Vantaggio che manca quando si lotta contro un criminale: con il quale, proprio perché non politico non si può concludere la pace. A questo riguardo occorre ricordare che Schmitt giudica “ Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico”. A tale proposito la mancata (o scarsa) capacità di distinguere può portare a due errori: considerare amico chi è nemico (è questo l’errore stigmatizzato da Schmitt nel prosieguo del passo citato) ma anche l’inverso, ossia trattare da nemico chi tale non è (e/o non deve essere) – o non è più. Errore anch’esso, tante volte ripetuto nella storia: dalla I guerra mondiale – almeno secondo Schmitt, allo “spezzeremo le reni alla Grecia” di Mussolini, fino alla guerra all’Irak del 2003. Nella storia delle guerre civili italiane abbiamo tutto il senso e l’esempio di tale errore ripetuto (dall’una e dall’altra parte), e, del pari, delle tragiche conseguenze. Nel 1799 a Napoli il Cardinal Ruffo negoziò la capitolazione con i francesi ed i repubblicani napoletani. Ciò avvenne non perché il Cardinale fosse un buono (o un buonista, ch’è la caricatura del “buono”), ma perché la sua lungimiranza lo consigliava ad un atteggiamento “morbido”, non foss’altro perché con i perdenti della guerra civile era opportuno conciliare, dato che con essi si doveva continuare a vivere. Uno storico di parte repubblicana come Cuoco scrive, a proposito della capitolazione “Si sono tanto ammirati i trecento delle Termopili, perché seppero morire; i nostri fecero anche dippiù: seppero capitolare coll’inimico e salvarsi; seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica napolitana”. Capitolazione che non fu ratificata perché Ferdinando IV°, istigato dalla regina e dal primo ministro Acton, sentenziò “che un re non capitola mai coi suoi ribelli”. Ne derivò una sanguinosa repressione, sia ad opera delle bande irregolari che dei funzionari borbonici, tra i quali si distinse, scrive Cuoco “un certo Speziale, spedito espressamente da Sicilia, (che) aveva aperto un macello di carne umana in Procida, ove condannò a morte un sarto, perché aveva cuciti gli abiti repubblicani ai municipi”. L’applicazione (disumana ed ormai inutile) della legge per cui il ribelle è considerato criminale aveva soppiantato le umane condizioni della capitolazione. L’effetto immediato ne fu che la guerra proseguiva, sotto forma di repressione. Scrive Colletta che in base alle leggi di Ferdinando IV emanate dopo la caduta di Napoli, avrebbero dovuto esser giustiziati quarantamila cittadini “a dir poco…e maggior numero (mandati in) esilio”; dato lo scarso seguito popolare che aveva caratterizzato la repubblica, quei quarantamila giustiziati erano sicuramente molti di più di quanti avevano aiutato i francesi. La “pace” così era più sanguinaria della guerra: il che conferma che non era vera pace. S. Agostino scrive che la pace è il fine della guerra, e anche coloro che fanno la guerra vogliono la pace, ma la pace che vogliono loro “Tutti desiderano dunque la pace con i propri familiari e concittadini, ma a condizione che organizzino la loro vita secondo il loro volere. E anche quando si muove guerra ad altri, si vuole farli propri sudditi per imporre loro le condizioni della propria pace”. E’ sviluppando questo giudizio del vescovo d’Ippona, che la dottrina internazionalista, sopra citata, ha portato a considerare “naturale” la clausola d’amnistia nei trattati di pace. Nello stesso tempo è interessante notare come ambedue gli storici sopra citati (Cuoco e Colletta) riservano il massimo dello sdegno – e a tratti del disprezzo – verso il contegno “legalitario” della famiglia reale e dei loro ministri e funzionari, da Acton in giù . Il Cardinale, invece, scriveva al re, consigliando duttilità e clemenza perchè “arte ci vuole, giacchè la forza ci manca, arte, perché è ridotta per nostra disgrazia a guerra civile, arte perché distruggendo si distrugge la nostra patria, ed è molto difficile il restaurarla”; Croce riteneva che, a seguito della repressione del 1799, si formò un fossato insuperabile tra monarchia borbonica e le classi colte napoletane. Il crollo del 1860 fu preparato (e propiziato) dalla repressione del 1799, seguita al mancato rispetto dei patti di resa con i repubblicani. Tra l’atteggiamento della corte borbonica nel 1799 e quello del governo italiano, espresso da Ricasoli, c’è una evidente analogia: ambedue degradano il nemico a criminale, così perpetuando la guerra nella repressione. Schmitt sostiene che il partigiano “classico” ha un nemico reale ma non un nemico assoluto che consegue in larga misura “dal carattere tellurico del partigiano … la sua collocazione fondamentale resta difensiva …”; il suo obiettivo è liberare il territorio della patria dell’invasore straniero. Solo con Lenin il nemico reale diventa il nemico assoluto della Weltbürgerkrieg: la borghesia, contro la quale il proletariato (ed il partito che lo “rappresenta”), conduce una guerra estrema è il nemico assoluto. Degradare il nemico a criminale consegue al reputarlo nemico assoluto; il quale è colui con il quale non è possibile una coesistenza pacifica. Mentre per il Cardinal Ruffo l’essenziale era ricostruire la patria (nella pace ritrovata), in cui si deve vivere insieme. 8. A giudizio di molti, e probabilmente prevalente, il nemico è associato a qualcosa di radicalmente altro, con il quale la contesa è tale che si può risolvere solo con la distruzione politica, ma spesso anche fisica, dello stesso. Che questo sia il concetto di una categoria particolare di nemico, cioè di quello assoluto, è vero: vale in questa situazione d’ostilità assoluta il motto latino mors tua, vita mea. Ma che questa non sia la concezione universale e normale del nemico è altrettanto noto. Non è quella – soprattutto - dello jus publicum eurapaeum, così come della teologia politica cristiana, che hanno temperato il diritto di guerra e nella guerra. La frase sopra riportata di Alain de Benoist ci pone un problema ulteriore: se cioè il nemico – e la guerra – possa essere il presupposto della pace e, più ancora, dell’integrazione, cioè dello strumento politico alternativo alla lotta (violenta). E più in particolare se possa esserlo il riconoscimento del nemico, in quanto tale (nemico riconosciuto) divenuto justus hostis. Sicuramente il passaggio dalla guerra alla pace presuppone il riconoscimento del nemico (altrimenti con chi trattare la pace?). Ciò è specialmente evidente nelle guerre partigiane, tutte concluse dopo il riconoscimento dei movimenti rivoluzionari e delle trattative con i medesimi. L’occupazione delle Due Sicilie fu invece connotata come, si direbbe oggi, un’operazione di polizia internazionale contro uno “Stato fallito”, in quanto tale neppure justus hostis: tant’è che non gli fu neanche dichiarata guerra. Ma se l’implicito disconoscimento del Regno borbonico come justus hostis serviva a giustificare l’intervento italiano, basandosi su una situazione d’anarchia (in effetti non senza qualche ragione), la successiva criminalizzazione dei briganti ne fu la logica conseguenza. Se nemico non è chi ha titolo per esserlo – perché non è uno Stato, ma anarchia – allora, chi prende le armi contro il nuovo ordine dell’occupante è un criminale, un praedo o un latro non un hostis. Contro il praedo si agisce con i Tribunali militari (e non), con la galera e la polizia (e l’esercito), cioè con l’armamentario organizzativo della repressione interna che presuppone il potere di supremazia, il fatto che lo Stato (e la sua organizzazione) sono superiori e, in quanto tali, abbiano diritto di giudicare, condannare, giustiziare l’inferiore (il suddito): e di esercitare nei suoi confronti la jurisdictio. Ch’è proprio ciò che lo status di soggetto di diritto internazionale, di justus hostis, non ammette; il riconoscimento del nemico (primo ed essenziale passo) significa applicare il principio par in parem non habet jurisdictionem. Col nemico si tratta la pace; col criminale (suddito) si applica la legge. Però può succedere che a seguire la seconda via e non la prima, si abbia un (certo) ordine ma non una (vera) pace. Se è vero che il nemico è anche colui con cui si tratta la pace, occorre fare un altro passo: se il riconoscimento dello stesso possa realizzare l’integrazione. Il passaggio dallo stato di hostis a quello di socius, anzi di civis era normale presso un popolo dotato di straordinario senso politico come i Romani. Già Cicerone nella Pro-Balbo diceva: Illud vero sint ulla dubitatione maxime nostrum fundavit imperium et populi Romani nomen auxit, quod princeps ille creator huius urbis, Romulus, foedere Sabino docuit etiam hostibus recipiendis augeri hanc civitatem aportere. Cuius auctoritate et exemplo numquam est intermissa a maioribus nostris largitio et communicatio civitatis. Il tutto era consapevolezza ancor più determinante nel discorso dell’imperatore Claudio per l’ammissione delle grandi famiglie galliche al Senato, esposto da Tacito negli Annales: “…quid aliud exitio Lacedaemoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis pollerent, nisi quod victos pro alienigenis arcebant? At conditor nostri Romulus tantum sapientia valuit ut plerosque populos eodem die hostis, dein civis habuerit… La conversione del nemico in cittadino e così il trasmutare della lotta (armata) in integrazione politica (v. Duverger) è il (principale) strumento per augere la res publica. Quando si tratti cioè di fondere (o ricucire) due comunità ovvero due parti della stessa comunità; circostanza che si ripete ove si voglia concludere una guerra civile e costruire una (nuova o rinnovata) appartenenza comunitaria. Ma non è dato vedere come possa essere altrettanto adatta la criminalizzazione del nemico; se non a proseguire, parafrasando Clausewitz, la guerra con altri mezzi (dal plotone d’esecuzione in giù). Con i quali è problematico ottenere una (vera) pace. Ossia un ordine stabile e condiviso. 9. Mi avvio alla fine, con qualche ulteriore riflessione sul perché la negazione della guerra civile e del nemico (in quanto tale politico) sia così pervicacemente ripetuta nella storia dell’Italia contemporanea. Al punto che nelle prime tre guerre civili (1799; 1806; 1860) la rivolta armata è stata chiamata brigantaggio, nella quarta (1943-1945) resistenza. La damnatio memoriae si è estesa anche al termine (appropriato) con ripetuti strappi al dizionario. Questo in una nazione che, assai più dei vicini europei è, come scriveva Manzoni – tanto e spesso citato – “una d’armi, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”. In effetti la Germania ha portato – fino a pochi decenni orsono – il segno della divisione tra cattolici e protestanti; la Francia, nella sua storia millenaria, ha dovuto reprimere e “assimilare” le (grosse) minoranze occitane, bretoni, basche (oltre ad aver subito ripetute guerre civili tra cattolici e ugonotti): la Spagna ha ordinato, nel secolo scorso, il proprio assetto costituzionale concedendo un ampio spazio istituzionale alle minoranze catalana, basca, galiziana. Gli italiani hanno un’omogeneità superiore a quella dei vicini europei. Tuttavia gli uomini del Risorgimento (la “destra storica”) sapevano bene che a dispetto di quella, la disunità politica era la caratteristica “tipica” dell’Italia. In comune, questa, con la Germania la quale, comunque aveva risentito in pieno della Riforma protestante e delle guerre di religione. Sotto certi aspetti, la pensavano come Renan; il quale dopo essersi chiesto cos’è una Nazione e ad aver esaminato ipotesi simili a quella di Manzoni, sostiene che a costituire una Nazione è, in primo luogo, “il consenso presente, il desiderio di vivere insieme in quell’ordinamento, la volontà di far valere l’eredità ricevuta indivisa”. E i briganti erano l’espressione politica della mancanza di consenso presente, desiderio, volontà a vivere insieme, di guisa da preferire la guerra civile ovvero la scelta consapevole della possibilità di morire per voler continuare a vivere secondo l’esistenza politica e sociale tradizionale. Forse, anche a tale proposito, occorre recuperare l’opinione di Hegel secondo il quale il nemico è “la differenza etica”; il che per il pensatore tedesco, significa che il criterio amicus-hostis è determinato dall’eticità (sittlichkeit) la quale è “il concetto di libertà, divenuto mondo esistente e natura dell’autocoscienza” il contenuto del quale “è per sé necessario e ha una consistenza elevata al di sopra delle opinioni e dei desideri soggettivi: si tratta di istituzioni e leggi essenti-in-sé-e-per-sé” il che vuol dire che la differenza del nemico è tale in quanto questi vuole (ed ha) istituzioni, leggi e costumi diversi e non perché lingua, radici etniche, e la stessa religione siano diverse. Di qui la necessità di negare il carattere politico dell’opposizione armata: dietro i briganti riapparivano i conflitti e i fantasmi di tanti secoli di storia; dai Comuni, ai guelfi e ai ghibellini, alle lotte tra vassalli feudali e poi tra signori rinascimentali, tutte guerre considerate civili da una classe dirigente il cui programma era realizzare lo Stato nazionale. E di cui appariva necessario quindi negare tale carattere. L’illegalità conclamata dei briganti non era uno strumento per scalzare classi dirigenti (e/o favorire carriere o altro “particulare”) come sarebbe capitato poi nella storia d’Italia , ma un “affare serio per uno scopo serio”. E con una ragione seria a motivarlo, quella indicata dalla storia d’Italia. Ragione che, a distanza di tanti anni, non esiste più: rimane solo quella di capire il passato per meglio operare nel presente. Teodoro Klitsche de la Grange BIBLIOGRAFIA PIETRO COLLETTA Storia del reame di Napoli VINCENZO CUOCO Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 KARL VON CLAUSEWITZ Vom Kriege SANTI ROMANO Frammenti di un dizionario giuridico SANTI ROMANO Corso di diritto internazionale SANTI ROMANO Scritti minori GIOVANNI DE MATTEO Brigantaggio e risorgimento CARL SCHMITT Theorie des Partisanen CARL SCHMITT Der nomos der erde CARL SCHMITTI Der begriff des politischen VIRGILIO ILARI – P. CROCIANI – L.PAOLETTI Storia militare dell’Italia giacobina GIOACCHINO VOLPE Italia moderna EMERIC (DE) VATTEL Droit des gens IMMANUEL KANT Die Metaphysik der Sitten IMMANUEL KANT Scritti politici PIERRE JOSEPH PROUDHON La guerre et la paix THOMAS HOBBES Leviathan ERIL WERNER L’avant-guerre ERNEST RENAN Qu’est-ce-que une Nation ? SALVATORE SCARPINO La mala unità CARLO ALIANELLO La conquista del Sud BENEDETTO CROCE Storia del regno di Napoli AA VV La storia proibita (Ed. Controcorrente) TARQUINIO MAIORINO Storia e leggenda di briganti e brigantesse RAIMOND ARON Penser la guerre, Clausewitz GASTON BOUTHOUL La guerre HANNS SCHNEIDER-BOSGARD Banden-Kampf HASSO HOFMANN Legitimität gegen Legalität. Der Weg der schen Philosophie Carl Schmitt A.A. V.V. La culture du refus de l’ennemi FULVIO IZZO I guerriglieri di Dio MASSIMO VIGLIONE La rivoluzione italiana: storia critica del Risorgimento
Pubblicazione del: 19-07-2011 nella Categoria Altri
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