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Vincenzo Marinelli

MODELLI DI FUNZIONALITÀ DELL’AZIONE PUBBLICA: TENTAZIONI DI ASTRATTISMO E REPLICHE DEI FATTI

(Intervento al seminario su “Efficienza, efficacia e funzionalità dell’azione pubblica”, Università degli studi di Roma “La Sapienza”, Facoltà di giurisprudenza, 20 ottobre 2008)

 

/1./ Nel proposito di fare un ampio giro di orizzonte sulle questioni in discussione divido il mio intervento in tre parti, sia pure senza intitolarle distintamente. Nella prima seguo un ortodosso approccio accademico; nella seconda mi concedo un approccio non accademico; nella terza ed ultima parte adotto un approccio antiaccademico per amore dell’accademia: svolgo un’analisi che è anche una precisa denuncia di certi metodi degenerativi.

 

/2./ Efficienza, efficacia ed economicità (“le tre e”) sono riferimenti generali utilizzati per orientare l’azione pubblica, valutarla, controllarla. Un primo problema che si pone è se queste categorie presentino tra loro differenze essenziali che le rendano irriducibili l’una all’altra; o se invece possa operarsi una riduzione a due categorie o addirittura ad una sola. In qualche intervento al nostro seminario si è sostenuta, sulla base di  una critica decostruttiva di questa tradizionale rete di riferimenti, la possibilità e l’esigenza di un’operazione riduzionistica. Per compiere, a tale riguardo, una valutazione approfondita, appare opportuno fare alcuni rilievi preliminari sulle definizioni.   È agevole rendersi conto che queste tre categorie di scienza dell’amministrazione e di sociologia dell’organizzazione – efficienza (inglese efficiency), efficacia, detta talvolta anche efficienza esterna (inglese effectiveness) ed economicità – si prestano a molteplici definizioni. E molteplici definizioni vengono in effetti date, senza che si possa dire: “questa è vera”, “quest’altra è falsa”. Il linguaggio naturale, per le sue imprescindibili caratteristiche di polisemia, metaforicità, apertura, ellitticità, è costituito da reti di referenti semantici, anche sottintesi, il cui movimento fa sì che definizioni fisse, cristallizzate, indiscutibili, nelle scienze empiriche (o empirico-razionali, come anche si dice, con un po’ di ridondanza: la razionalità è implicita nel concetto di scienza) non se ne possano avere.           Ci può  essere qualcosa del genere, invece, per un altro tipo di discipline: le scienze formali, tanto più se  assiomatizzate. Qui si procede infatti sulla base di definizioni “stipulative”, ossia assolutamente convenzionali (vedi ad esempio, in geometria, le nozioni di “punto”, di “linea”, di “retta”). Non vi è luogo a definizioni dottrinali immodificabili quando,  come avviene in campo giuridico, occorre valutare comportamenti umani e altri aspetti dell’esperienza, sicché è intrascendibile il linguaggio naturale. La sua dimensione semantica, il ‘chiamare le cose’, comporta necessariamente una mobilità in rapporto a come viene percepita, valutata, vissuta l’esperienza; che è, al tempo stesso e indissociabilmente, esperienza del mondo e del linguaggio. Si farà, in ciascuna disciplina, un uso più o meno tecnicizzato del linguaggio naturale, ma tecnicizzarlo non significa fargli perdere i caratteri di fondo.  Possono aversi, oltre a definizioni esplicite, quelle che vengono chiamate definizioni “implicite” o “contestuali”: cioè non espressamente enunciate ma ricavabili dal contesto. Mentre le asserzioni possono essere vere o false, le definizioni, sia pure esplicite, operando come indicazioni sull'uso dei  termini piuttosto che su stati di cose, non sono, propriamente, vere o false, ma calzanti, adeguate, congrue, oppure non calzati, inadeguate, incongrue.  Contano molto gli usi, le stratificazioni, gli assetti. Si deve avere consapevolezza della mobilità semantica, per non perdersi nelle parole: esse vanno utilizzate come mezzi, e come mezzi del linguaggio ordinario, o naturale che dir si voglia. I termini delle scienze empiriche, e così anche le nostre tre “e”, si prestano ad una serie di dispute che sono, in buona parte, nominalistiche. Come si superano? Semplicemente mettendosi d’accordo sulle parole, su ciò che si vuole intendere nell’usare certe denominazioni.

 

/3./ In ciascuna delle tre categorie generali che stiamo rivisitando viene in rilievo, da una specifica angolazione, il rapporto mezzi-fini. Di solito, quando si parla di “efficienza” (ad esempio efficienza del sistema giudiziario), si guarda ad un certo tipo di rapporto mezzi-fini in cui ha una larga presenza la potenzialità: si focalizza la maggiore o minore attitudine a perseguire in modo soddisfacente quei dati fini con i mezzi a disposizione.  Con il termine “efficacia” (ad esempio: efficacia di una misura legislativa, efficacia della lotta contro il terrorismo o contro le mafie), ci si riferisce per lo più a come si è attualizzata o ci si attende che si attualizzi l’azione pubblica in rapporto a casi concreti. Si presuppone una verifica sulla base dei risultati effettivamente raggiunti.  Il parametro dell’“economicità” pone in primo piano il rapporto tra attività svolta ed allocazione di risorse. Non basta valutare se e in quale misura vi siano efficienza ed efficacia, occorre tener conto delle risorse assegnate. Qualora vi sia, ad esempio, un superfinanziamento, è più facile, ceteris paribus,  ottenere l’efficienza e l’efficacia. Quando si usa il termine “economicità” il riferimento pregnante è all’analisi costi-benefici; viene in particolare rilievo, in altre parole, il rapporto prezzo-qualità (come anche la gente comune si è abituata a pensare e a dire, per i propri acquisti). Le definizioni che ho cercato di delineare hanno il vantaggio di essere sufficientemente precise, ma anche opportunamente elastiche, e di non allontanarsi dall’uso comune del linguaggio. Individuano tre modi, che trovano riscontro nell’esperienza, di considerare l’azione pubblica nel suo carattere generalissimo di attività volta a perseguire fini istituzionali con mezzi assegnati. Considerato tutto questo, direi che i parametri dell’efficienza, efficacia ed economicità siano chiari e distinti e non necessitino di essere sottoposti ad operazioni riduzionistiche: certamente possibili, ma che, nelle condizioni viste, non appaiono utili.  

 

/4./ Ieri sera sono andato al Vittoriano a vedere la mostra su Luciano Pavarotti. Tra i ricordi che mi hanno maggiormente colpito c’è una frase attribuita al grande tenore e che suona più o meno così: “Non m’interessa che i critici dicano che il tale cantante ha cantato bene o ha cantato male; mi si deve spiegare il perché”. Il problema di cui stiamo discutendo in questo seminario è appunto un problema di spiegazioni di questo tipo: quand’è che si canta bene e quand’è che si canta male. Come si fa a stabilirlo? Lo si fa attraverso puntuali considerazioni sul canto, su quella successione armoniosa di suoni che costituisce l’esperienza specifica del canto. Occorre, ogni volta (quello del canto è un esempio come un altro), un tipo di conoscenza individualizzante. La musa da invocare è Clio, che presiede la storia. Bisogna ricostruire i fatti nel concreto, non è possibile affidarsi solo a modelli organizzativi, pattern, standard. Ciò vale anche per i cosiddetti controfattuali, che qualcuno, in questo seminario, ha menzionato con un certo entusiasmo. Mette conto osservare che la presa in considerazione di scenari alternativi va bene quando si tratta di valutare delle possibilità non ancora realizzate; ma poi bisogna immancabilmente mettersi d’accordo con i fatti. Ci sono delle pagine un po’ dimenticate, ma illuminanti, di Benedetto Croce, in cui si critica l’andare alla sequela di possibilità alternative rispetto alla verità storica. Per Croce questo è nient’altro che un gioco. I fatti storici vanno pensati, in quanto tali, sotto la categoria della necessità. Anche se ex ante potevano svolgersi in un modo o nell’altro, sappiamo, ex post, che si sono svolti in un modo e non nell’altro. Compito dello storico non è indugiare su virtualità inattuate, ma cercare testimonianze, tracce e ragioni degli accadimenti. Croce, per la storia, non parlava di cause, e tanto meno di analisi causale, termini aventi per lui un sapore deterministico, ma, appunto, di ragioni, di un intreccio di ragioni. Anche nei non rari casi in cui non si sia in grado di attingere un livello di certezza su come i fatti sono andati, si sa di certo, tuttavia, che l’accaduto esclude ogni altro accadimento alternativamente possibile. Ciò vale, a fortiori, quanto i fatti sono incontroversi. Posso applicarmi a pensare che cosa sarebbe successo se non mi fossi rotta la gamba, che però, intanto, mi sono rotta. Arrivo, pensando in questo modo, a tutta una serie di fatti immaginari, di fantasticherie inutili se non dannose. Parlando di efficienza, efficacia ed economicità è necessario, come nella conoscenza storica più strettamente intesa, rimanere agganciati ai fatti reali. Non ci si deve troppo innamorare dei modelli teorici e delle loro pur imponenti possibilità di elaborazione matematica e di informatizzazione. Occorre che essi siano adeguati al concreto. Non esistono modelli di funzionalità dell’azione pubblica, per quanto sofisticati ed accattivanti, che siano buoni per tutti gli usi. “Metti un tigre nel motore” è un’ottima idea, ma solo a condizione che vi sia l’habitat naturale per il tigre e che il motore regga, quando il tigre gli fa visita.

 

/5./ Prendiamo un esempio tratto non dall’azione amministrativa in senso tradizionale, ma dall'amministrazione della giurisdizione. Il tema del nostro seminario è la qualità dell’azione pubblica, ed è utile fare riferimenti allargati.  Come si misura la produttività dei magistrati? Tenendo in debito conto la specificità del loro ruolo, a meno di non voler fare operazioni procustiane.   Accelerare il processo civile, penale ed amministrativo si può e si deve, ma occorre rilevare: primo, che per decenni la politica e la legislazione hanno dato preminenza a finalità di tipo diverso; secondo, che giudicare richiede approfondimento e ponderazione, sicché qui non può aversi il tigre nel motore. Anni fa, quando era ministro della Giustizia il leghista Roberto Castelli, abbiamo letto non senza emozione che voleva affidare il monitoraggio sulla produttività dei magistrati a un amico e collega di partito, un certo conte Uva, nobile brianzolo di belle speranze trombato alle elezioni. Non c’era migliore esperto, secondo il guardasigilli ingegner Castelli. Credenziali più che solide: se uno s’intende di spionaggio industriale, è irrilevante che non abbia alcuna competenza specifica nel settore giustizia. In un ordine d’idee non molto dissimile, l’attuale ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, ha parlato dell’introduzione di tornelli anche per registrare le presenze in ufficio dei magistrati. Ignorava evidentemente il prof. Brunetta (forse poi qualcuno glielo ha spiegato) che la maggior parte del lavoro dei magistrati si svolge a casa, soprattutto per quanto riguarda lo studio degli atti e la motivazione dei provvedimenti. Sono pochi i magistrati che hanno una stanza d’ufficio; molti si trovano costretti a destinare all’attività di servizio, a loro spese, una stanza della propria abitazione. Ma lasciamo stare le idee strampalate e demagogiche di certi ministri e veniamo a considerazioni più intrinseche. Particolarmente complessa è la misurazione della produttività dei magistrati che fanno, come me, il P.M. civile in Cassazione. L’istituto del parere obbligatorio del P.M. non solo per le questioni penali ma anche per quelle civili serve, in Italia come in altri Paesi, a stimolare il massimo approfondimento delle questioni trattate dalla suprema istanza giurisdizionale. Bene, in che modo sono dimensionabili l’efficienza  e l’efficacia nello svolgimento di questo tipo di attività? Si potrebbe ritenere utile, se non addirittura esaustivo, affidarsi al conteggio delle “conformi”, “difformi” e “parzialmente difformi”. Ma occorre riflettere che ci sono delle conformi superficiali e poco consapevoli, ad esempio perché supinamente adagiate sui precedenti, e delle difformi, invece, consapevoli e culturalmente impegnate. Ti proponi, non appagato dai precedenti su una data questione, di stimolare un’evoluzione giurisprudenziale, sicché accetti il rischio che il tuo parere presumibilmente difforme vada a finire sulle riviste giuridiche come dissenting opinion. È una scelta di principio. Solo il contesto e solo la conoscenza individualizzante possono dare, in questi casi, indicazioni precise. Ricordo un collega, raffinato giurista, il quale prendeva un bel po’ di “difformi” perché per tutta una serie di questioni non si appagava dello ius receptum ma voleva una giurisprudenza diversa e più avanzata. Memorabili le sue battaglie contro quella che gli sembrava un’eccessiva corrività a ritenere valide le c.d. fideiussioni omnibus.

 

/6./ Consideriamo un ulteriore esempio, per vedere quanto la concretezza sappia difendere le sue ragioni, anche per ciò che  attiene al nostro tema. Prendiamo di nuovo, da un altro punto di vista, l’esercizio della giurisdizione. Si può mai prescindere, per valutarne l’efficienza, l’efficacia e l’economicità, dal concreto contesto ordinamentale? Siamo abituati a legare l’immagine del processo inglese alla cross examination, cardine del rito accusatorio. In realtà in Gran Bretagna all’incirca il 90% dei processi penali si svolge dinanzi alle Low Courts, le corti inferiori, con decisioni prese lì per lì, senza alcuna motivazione, e anzi senza nemmeno impegnarsi ad applicare lo stesso metro per tutti. Curioso di saperne di più sul sistema anglosassone, diedi a una mia vacanza estiva a Londra l'impronta di una vacanza di studio e feci una sorta di stage presso le Corti. Un giudice della Low Court di Horseferry Road, Eric Crowter, mi permise cortesemente di sedere in udienza accanto a lui. Faceva cose da noi assolutamente impensabili: a uno che aveva rubato 100 dava 30 giorni di carcere e ad un altro che aveva rubato 50 dava 60 giorni. Non era preoccupato di queste disparità di trattamento, perché ogni caso aveva una storia a sé e lui si riservava piena libertà di valutare intuitu personae. Forse anzi l'espressione latina è un po' sprecata, per quelle che noi considereremmo, in buona sostanza, determinazioni nasometriche.  Fui invitato alla mensa della Corte. Mr. Crowter mi presentò ad una contegnosa collega, alla quale ebbe a dire, riferendosi a me: “A quest’ora di solito non va ancora a mangiare, perché deve scrivere la motivazione delle sentenze”. La cosa destò una certa sorpresa, perché in Gran Bretagna i giudici non hanno alcun obbligo di motivare i loro provvedimenti. Vi è solo la tradizione, spontaneamente osservata, di motivare le sentenze delle corti superiori. La giudicessa mi guardò, si fece spiegare bene quale fosse il sistema italiano e commentò, ad alta voce: “Oh my God!” E subito aggiunse, a fior di labbra, qualcosa come “trifling away one’s time” (perdere il tempo in chiacchiere). Dopo di che non mi rivolse più la parola, classificandomi, evidentemente, come un perdigiorno poco degno  della sua attenzione. Abituata com’era all’idea di un giudice che non motiva, ritenne che quel dover motivare sempre, anche per gli small claims (i casi di poco conto), fosse una negazione del ruolo. Questo piccolo episodio di vita vissuta mi ha fatto capire fino a che punto il contesto ordinamentale possa fare la differenza. Se bisogna valutare l’efficienza del giudice inglese è appropriato analizzarla in un modo, se occorre fare un’analoga ricerca in Italia non si può prescindere dall’obbligo di motivazione, stabilito non solo dalla normativa ordinaria, ma come principio costituzionale.

 

/7./ Passiamo ad un nuovo esempio, in tutt’altro campo. Ho avuto l’onore e l’onere di amministrare, per un certo tempo, il più importante patrimonio librario giuridico italiano, la Biblioteca Centrale Giuridica. Ora sta al Palazzaccio, a quel tempo si trovava ancora a Via Arenula, nella sede del Ministero di Grazia e Giustizia (come si chiamava allora; poi la grazia si è persa per strada). In vista dell’obiettivo di realizzare, anche attraverso l’ipotizzato trasferimento, un’incentivazione dell’uso pubblico generale della biblioteca, accanto a quello riservato, scrissi una lunga relazione con una dettagliata analisi costi-benefici. Naturalmente, per esigenze specialistiche, dovevo approfondire l’aspetto biblioteconomico. Per avventura, essendo stato bibliotecario di professione (è uno dei lavori che ho fatto prima di entrare in magistratura), ho buona conoscenza della biblioteconomia. Mi punse vaghezza di far pubblicare il mio studio sulla Rivista trimestrale di diritto pubblico. Il direttore, Sabino Cassese, ebbe a dirmi, bontà sua, parole di apprezzamento per il mio lavoro, ma mi chiese di tagliare la parte biblioteconomica. Io mi rifiutai, dicendo che in quel modo il discorso sarebbe rimasto mutilo proprio nella parte che ritenevo più importante, per necessità di aderenza al concreto. Così avvenne che la predetta rivista ed io rimanemmo reciprocamente privi della pubblicazione del mio studio. Ma siamo caduti bene entrambi, perché la Trimestrale ha pubblicato cose certamente più interessanti, e io ho destinato lo scritto ad un’altra rivista, che me lo ha anche pagato, un tanto a pagina, mentre di certo il prof. Cassese, malgrado il suo nome (qui troviamo una bella eccezione al “nomina sunt omina”), non mi avrebbe corrisposto alcunché.

 

 /8./ Abbiamo visto che per ciascuna delle tre categorie su cui ci stiamo confrontando – efficienza, efficacia, economicità – viene in rilievo, da un diverso angolo visuale, il rapporto mezzi-fini. Ma a questo punto ci dobbiamo chiedere: “Quali fini?” Se si guarda ai fini ufficiali, dichiarati, è una cosa, se si tiene conto di fini occulti ed inconfessati è un’altra.  Quelli che vanno comunemente sotto il nome di “enti inutili” sono inefficienti ed antieconomici in relazione ai fini ufficiali, ma possono diventare efficientissimi per tutto ciò che riguarda la difesa della loro sopravvivenza. Un altro interessante campo di osservazione è l’università. Il sistema dei concorsi per la docenza universitaria può tranquillamente definirsi, in tutte le varianti che si sono succedute nel corso degli ultimi decenni, del tutto inidoneo ad assicurare trasparenza e selezione meritocratica, vale a dire in base ad attitudini scientifiche e didattiche. È invece pienamente idoneo a stabilizzare e promuovere quelli che stanno già dentro, con prelazione per portatori di borsa, ghost writers, amanti, parenti, amici, amici degli amici. Ogni tanto vincono anche persone valide. Tutto dipende dagli equilibri del sistema e dai patti segreti che sono a monte del concorso. Se il candidato “portato” è anche bravo, bene. Se è un somaro, bene lo stesso.  Per quanto concerne molti commissari di concorso, può sorprendere, dall’esterno, che persone apparentemente per bene e che hanno, o hanno avuto, l’abito di studiosi si prestino a certi giochetti. Ma chi conosce l’ambiente sa che ci si abitua a tutto e si supera anche la vergogna di adottare una pratica che è il contrario della giustizia e della rettitudine ma è molto efficace dal punto di vista dei fini nascosti: la pratica, largamente diffusa, del doppio standard. Vale a dire: uno standard di favore per chi “deve vincere” il concorso e uno standard di sfavore per chi lo “deve perdere”, giacché “i posti sono due e non ci possiamo fare niente se i  candidati sono di più”. Lo standard di favore si estrinseca nel  valutare positivamente anche pubblicazioni che non hanno nulla di scientifico. Il copiaticcio dilaga, con e senza virgolette; e non è facile dire quale delle due tipologie sia la più apprezzata. Un candidato ha vinto il concorso da ordinario con un centone di sbrodolate citazioni – senza alcuna preoccupazione di specifica pertinenza e rilevanza – di tutti i professori del suo settore disciplinare, nonché dei più potenti professori dei settori circonvicini. In quanto allo standard di sfavore, si spinge fino a quello che può chiamarsi il requisito della mutanda di pizzo. È un requisito surrettizio, naturalmente, ma non per questo meno decisivo. Si ricorre a un semplicissimo travestimento verbale: un gioco da ragazzi. Ci si guarda bene dal motivare: “Non idoneo perché non ha la mutanda di pizzo”. Si scrive invece qualcosa del genere: “Questo è bravo, ma l’altro è più bravo”. Oppure, se si vuole dare una lezione ad un outsider ‘sprotetto’ che ha osato presentarsi a un concorso ‘non suo’ e che magari, invitato a ritirarsi, non lo ha fatto: “il livello non è soddisfacente”, “la tematica non è stata sufficientemente approfondita”, e coccole del genere.

 

/9/ Sono frasi magiche, perché hanno la parvenza di una motivazione senza esserlo. Una motivazione vera dovrebbe impegnarsi a spiegare, in relazione al programma di ricerca svolto nelle varie pubblicazioni, che cosa di preciso sia insoddisfacente o non abbastanza approfondito. Ma qui  verrebbe fuori con chiarezza che ciò che davvero manca, in certi casi, è solo il pizzo della mutanda. Si rivelerebbe nudo non il candidato, ma chi ha fatto finta di esaminarlo. E allora il TAR potrebbe giungere a invalidare il concorso. Meglio dunque essere generici. Si segue l’aureo insegnamento: “Verba generalia non sunt appiccicatoria”. A questo punto la motivazione è a posto. È cialtronesca, ma funzionale. Più il commissario è aduso alle truffaldinerie, più sa di poter fare assegnamento su una giurisprudenza amministrativa cui è interdetto entrare nel merito e che in certi casi si mostra fin troppo timida di fronte a giudizi privi di corrispondenza col concreto e improntati a specchiata disonestà. La moltiplicazione delle università e il localismo dei concorsi ha ulteriormente diminuito l’efficienza del sistema in rapporto ai fini ufficiali, ma l’ha aumentata in relazione ai fini nascosti, cioè all’”università truccata” (titolo di un recente libro). Basta conoscere un po’ l’ambiente per sapere che assieme alla storia ufficiale del concorso, documentata nei suoi atti, c’è una storia segreta un bel po’ diversa. Non mancano eccezioni. Rare e perciò tanto più nobili eccezioni.  Il quadro generale è tuttavia desolante. Non è facile migliorarlo; ed è impossibile se ci si rassegna. Occorre discutere e denunciare. “A ognuno puzza questo barbaro dominio!”. Un redivivo Aristotele, partecipando da “esterno”, non potrebbe mai vincere, in Italia, la cattedra di logica dei predicati. Gli occorrerebbe il consenso dei capicosca prof. Marioli e Maramaldi. Ma questo consenso non verrà mai, perché i predetti hanno da “portare” i loro allievi e portaborse o, nell’attesa, i picciotti di cosche alleate.

 

/10./ Al termine della ricognizione, necessariamente veloce, mi sembra utile sottolineare che bisogna avere molta diffidenza per le generalizzazioni.  Occorre saper cogliere i limiti cognitivi dei modelli generali. Le indagini relative alla funzionalità dell’azione pubblica richiedono non soltanto il nomotetico, il tendenziale, il modello, ma anche l’idiografico, la conoscenza individualizzante. Non è possibile predisporre adeguati parametri di valutazione ed applicarli a situazioni concrete senza misurarsi, appunto, con il concreto. L’avvertenza appare perfino ovvia. E tuttavia non è raro che, trascurando certe circostanze di fatto o estendendone in modo indebito le caratteristiche, si faccia luogo a classificazioni incongrue o a generalizzazioni affrettate, incorrendo, corrispondentemente, nei vizi di rilevanza, illustrati da Aristotele, che vanno sotto il nome di fallacie dell’accidente, diretto e converso. 

 



Pubblicazione del: 23-10-2011
nella Categoria Filosofia Politica e del Diritto


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