LA CONGIUNZIONE DEGLI OCEANI-Muhammad Dārā Šikōh-(Fabio Vander)-Vol.-50-   Stampa questo documento dal titolo: . Stampa

Muhammad Dārā Šikōh La congiunzione degli oceani Milano, Adelphi, 2011, pp. 169. Quella di cui ci occupiamo è una storia singolare. Un libro apparso nel 1655, ma che parla direttamente al nostro presente. Scritto in persiano da un nobile musulmano che si rivolgeva però direttamente all’India e all’induismo; un tentativo magari sincretistico ma lungimirante (e pagato a caro prezzo dal protagonista) di mettere in comunicazione, evitando guerre e repressioni, due grandi religioni come quella islamica e l’induista. Una premessa di chiarimento è indispensabile. Come scrivono Svevo D’Onofrio e Fabrizio Speziale nell’Introduzione, Muḥammad Dārā Šikōh era un “principe moghul”, che con questo testo portò a conseguenze radicali una politica di dialogo fra Islam e Induismo iniziata già dal bisnonno Akbar nel XVI secolo. Va ricordato infatti che l’Impero Moghul fiorì fra il terzo decennio del ‘500 e l’inizio del ‘700 e segnatamente fu risultato di quell’espansione in India della conquista turco-mongola, che portò alla formazione di un unico regno che andava dall’Afghanistan all’odierno Pakistan fino al Bengala. Il generoso tentativo di Dārā Šikōh di evitare il clash of civilisations (and religions) non lo mise però al riparo dalle accuse di eresia ed apostasia da parte dei radicali dell’Islam. Anzi queste accuse lo avrebbero portato addirittura alla morte, nonostante che fosse il figlio prediletto dell’Imperatore e il predestinato alla successione. Già allora (come oggi) i più fanatici accusatori erano stati gli “ulamā”, sedicenti custodi dell’ortodossia islamica, che si accordarono con il fratello di Dārā Šikōh, Awrangzēb, facendo condannare il primo per apostasia. Al suo posto assurse alla guida dell’Impero appunto il feroce fratello, che represse gli indù e, ad inizio del ‘700, avendo determinato una serie infinita di rivolte e repressioni, portò alla disgregazione dell’Impero. Né a caso le lotte religiose fra islamici e indù consegnarono l’India (e i paesi confinanti) all’Occidente; infatti morto Awrangzēb, nulla poté resistere alla penetrazione britannica, che a modo suo regolò i conti, certo sempre provvisoriamente, fra le due religioni e i due popoli. Anche in questo senso una lezione utile anche oggi. Certo tentativi di contemperare le due religioni vi erano stati anche a prescindere da Dārā Šikōh, soprattutto fra quanti insistevano sulla prossimità fra “sufismo” (la principale corrente del misticismo musulmano) e appunto induismo (ancora di recente, notano sempre i curatori, vi ha insistito Mircea Eliade)1. In ogni caso certamente fu da ambienti sufi che più determinatamente si cercò il dialogo in India e Dārā Šikōh fu il maggior esponente di questa tendenza. Ma veniamo direttamente al testo, tenendo conto che il motivo fondamentale che ad esso sottende è quello della “unicità dell’essere”, un “Essere unico” di cui tutti gli enti sono solo manifestazioni, “differenti determinazioni”. Questa identità sarebbe alla base di entrambe le religioni. L’opera inizia proprio con un omaggio all’“Unico” che è al fondo di tutte le differenze, che soprattutto ha sul volto “i due riccioli simmetrici della miscredenza e dell’islam” (p. 77). Appunto un fondamento unitario di tutti gli enti e segnatamente delle religioni; in questo senso l’islam ha lo stesso statuto ontologico dell’induismo. Identità di identità e differenza, se è vero che “tutto è Lui, nella moltitudine della separazione e nella stanza segreta dell’unione” (p. 77). Tanto da aggiungere che sia per il Corano “Egli è il Primo e l’Ultimo, Egli è il Manifesto e il Nascosto (LVII, 3)” (p. 84 e p. 101), sia per i testi indù la verità “è madhyama [intermedio], costituisce il grado mediano” (p. 84); nei due casi, mediazione fra gli estremi. Parimenti se rispetto a dio Maometto è “Manifestazione perfetta”, lo stesso fenomeno “è chiamato dagli indiani avatāra [discesa divina], ovvero quell’epifania della potenza divina che è unica fra gli individui della sua specie e del suo tempo” (p. 99). Il determinato, l’ente, è “epifania” dell’essere come fondamento. Anche per questo Dārā Šikōh dice espressamente che, dopo attente analisi, di “sufismo” e “induismo”, egli “non trovò differenza alcuna, fuorché divergenze lessicali, nel loro modo di percepire e comprendere il Vero” (p. 78). Il ‘motore’ di tutte le cose ovvero l’essere del divenire, è a base triadica in tutti e due i casi; i tre motivi sono “creazione”, “permanenza”, “distruzione” (pp. 86-87); potrebbe anche dirsi: essere, nulla e divenire. Tanto che aggiunge: “ogni creatura nasce, vive per un tempo predestinato e poi perisce” e dove comunque “questi tre attributi sono chiamati [collettivamente] dagli indiani trimūrti [triplice forma]” (p. 86). Soprattutto importante però che, secondo Dārā Šikōh, Islam e Induismo hanno anche in comune il fatto che, data la trascendenza della “Verità delle verità”, pure questa “discende”, in modo invero assai problematico, fino al mondo pratico, dell’uomo, del divenire (cfr. pp. 90-91). Segnatamente per gli indiani “la Manifestazione perfetta è chiamata avatāra [discesa divina]” (p. 98) ovvero “epifania della potenza divina”. Anche per questa via si realizza contatto fra assoluto e relativo, essere e divenire. Del resto altrove sostiene che la “pura Essenza divina” come tale non è visibile, ma allorché “assume determinazioni” (p. 95), diviene possibile vederla anche “in questo mondo”, anche per “l’occhio fisico” (p. 96). Il punto di contatto anche qui è aporetico, non dimostrato, da assumersi per fede. Infatti quella sintetica “era la visione del profeta Muḥammad”, nel quale, misticamente, “vedente e veduto furono una cosa sola, sonno e veglia e incoscienza apparvero unificate e il suo occhio esteriore e interiore si congiunsero” (p. 98); così come egli “riunisce in sé incomparabilità e similarità, assoluto e determinato, formale e informale” (p. 101). Gli uomini migliori vengono considerati quelli che “riuniscono il tanzīh e il tašbīk” (p. 102), cioè la “trascendenza” e la “similarità”, dunque l’immanenza. Ora Dārā Šikōh insiste sul fatto che concetti simili sono espressi dall’Induismo, secondo il quale il Brahmā è l’universo, ma come “sfera circolare” a cui è immanente il tutto ed entro la quale avviene “ogni creazione e manifestazione” (p. 103); si tratterebbe dello stesso universo degli islamici, quello che i “sufi” chiamano “macrocosmo (‘ālam-i kabīr)” (p. 108). Ma di interessante nell’induismo c’è anche la dottrina della “infinità dei cicli temporali”, per cui Dio non è unilaterale, non conosce una notte scissa dal giorno; per lui non c’è soluzione di continuità: “quando termina una notte inizia un nuovo giorno e quando finisce un giorno si fa di nuovo notte, e così via all’infinito”, questa “corrente senza inizio” (né fine) (p. 119) è la cifra della “Essenza divina”, delle sue epifanie o teofanie. Il punto è che anche questo è in sintonia con l’Islam, se è vero che nel Corano si legge: “come abbiamo prodotto la prima creazione la riprodurremo”, non c’è inizio assoluto; non c’è prima che non sia dopo, notte che non sia giorno. Adamo, “progenitore dell’umanità”, continuamente sarà ricreato. E questa sorta di eterno ritorno dell’identico su base dialettica, non può non colpire e far riflettere. Resta però il fatto che questi punti di contatto non bastarono a segnare un’epoca di dialogo e tolleranza. Anzi il sostanziale fallimento dei tentativi di far convivere le due grandi religioni e culture portò, come detto, ad inizio ‘700 a favorire la penetrazione inglese nell’area, di modo che in epoca coloniale la distanza fra indù e islamici tornò a farsi notevole. Del resto senza aver presenti queste premesse non si spiega neanche la lunga diffidenza e contrapposizione (aggravata dai rispettivi armamenti atomici) fra India e Pakistan, ma anche i frequenti progrom a sfondo religioso e cetuale che troppo spesso insanguinano il sub-continente indiano.

Pubblicazione del: 09-12-2011
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