DISCORSO SULL’INIZIO DEGLI ANNALI DI TACITO-Thomas Hobbes-Vol.31-
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THOMAS HOBBES
DISCORSO SULL’INIZIO DEGLI ANNALI DI TACITO
PRESENTAZIONE di Daniela Coli* A Discours upon the beginning of Tacitus si richiama direttamente ai Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio di Machiavelli, ben conosciuto in Inghilterra1 ai tempi in cui Hobbes scrisse i Three Discourses. I Discourses sono fin dal titolo e dallo stile letterario sotto l’influenza dei Discorsi., che gli inglesi – a cominciare dal cardinale Reginald Pole a Richard Morris e Roger Asham – lessero nelle edizioni italiane pubblicate tra il 1530 e il 1540. Lo stesso Hobbes, traduttore delle lettere scritte in italiano dal 1615 al 1628 da Fulgenzio Micanzio al secondo conte di Devonshire, non attese certamente le traduzioni inglesi dei Discorsi nel 1636 e del Principe nel 1640. Per Hobbes, come per Machiavelli, Roma è un mito, l’archetipo dello stato che si espande fino a diventare un grande impero. Per Machiavelli, che pone al centro dei suoi Discorsi la Roma repubblicana, alla base della potenza romana vi è il conflitto tra la nobiltà e la plebe, l’impero segna quindi la fine del conflitto, della libertà e l’inizio della decadenza. Per Hobbes, è invece proprio questo conflitto che rende i Romani insofferenti e sospettosi per ogni forma di governo a far loro perdere la libertà. Il tema della guerra civile, che è alla base del Leviathan, ha quindi origine molto prima dello scoppio della guerra civile inglese, risalendo alle riflessioni su Roma durante l’ascesa di Augusto, il quale, nel commento hobbesiano di Tacito, si comporta come un personaggio di Machiavelli: usa la violenza per prendere il potere, ricompensa i suoi sostenitori con promozioni e si procura il consenso del popolo. Augusto trasforma lo stato e dissimula il desiderio di fondare una monarchia, assicurando a Roma stabilità di governo.Per Hobbes, come per Machiavelli, per il quale la distinzione tra crudeltà “bene usate” e crudeltà “male usate” consiste nel successo di quelle “bene usate”, “la virtù – come osservò Isaiah Berlin – non ha niente a che fare con la morale cristiana i cui valori sono la pietà, l’umiltà, il sacrificio di sé, il perdono, il disprezzo del beni mondani, la fede in una vita ultraterrena; essa si richiama al mondo pagano, i cui valori sono il coraggio, il vigore, la fermezza, il riconoscimento pubblico, l’ordine, la disciplina, la felicità , la forza”2. In generale, Hobbes considera Augusto un buon politico e un principe saggio perché si preoccupò di avere un successore certo e manifesto, evitando nuovi conflitti e guerre civili per la sua successione. Per Hobbes la monarchia non rappresenta, come per Machiavelli l’inizio della decadenza di Roma, ma la soluzione per uscire dal caos in cui lo stato romano era precipitato fin dalla caduta di Tarquinio il Superbo. * Daniela Coli cura la traduzione dei Three Discourses di Thomas Hobbes per la casa editrice Name di Genova, INTRODUZIONE di Vincenzo Valorani Nel 1620, a Londra, fu rinvenuto un manoscritto anonimo dal titolo Horae Subsecivae, “[Letture] per i ritagli di tempo” , o “[Letture] per le ore del tempo libero” ; (“subsecivae” è aggettivo latino che deriva dal verbo subseco, composto da sub e seco, il quale in senso figurato vuol dire dividere). Il testo originale si componeva di dodici saggi e di quattro discorsi. Sembrava che tre, fra tali discorsi, potessero essere attribuiti a Hobbes. La critica è stata a lungo discorde, ma solo gli esiti favorevoli delle recenti ricerche condotte negli Stati Uniti dal professor Noel B. Reynolds della Brigham Young University, dalla professoressa Arlene W. Saxonhouse della University of Michigan e dai loro collaboratori, hanno consentito la pubblicazione dei tre Discorsi, per la prima volta, sotto il nome di Hobbes. Nel 1995, The University of Chicago Press dava alle stampe i Three Discourses. Si tratta di opere giovanili, i cui titoli sono: A discourse upon the beginning of Tacitus ( pp. 35, ed. am.), A discourse of Rome, ( pp. 31, ed. am.), A discourse of laws ( pp. 14, ed. am.). L’indagine statistico-terminologica alla quale hanno lavorato i professori della Brigham Young University, Noel B. Reynolds e John L. Hilton con il proprio staff consiste nell’evidenziare la frequenza dei termini non contestuali, cioè di quei vocaboli che in uno stesso autore sono maggiormente ricorrenti, indipendentemente dall’argomento trattato. Tali ricerche, illustrate alle pp. 10-19 dell’edizione americana citata, si concludono con questa affermazione : “Hobbes is the author of the other three discourses ”. L’edizione americana dei Three Discourses è arricchita da un saggio della professoressa Arlene W. Saxonhouse intitolato, Hobbes and the beginnings of modern political thought, nel quale viene presentato il pensiero del filosofo in relazione a queste tre opere. * * * E’ Hobbes stesso a illustrare il contenuto del Discorso sull’inizio degli Annali di Tacito, nelle righe che precedono la traduzione dei passi (che appartengono al Libro I, Capp. 1-4) dell’autore latino, ai quali farà seguire le proprie riflessioni. C. Tacito (54/55 - 120 ca), storico latino di parte senatoria, esamina negli Annali la genesi del potere imperiale. Mentre in Tacito c’è il rimpianto per i valori repubblicani, In quanti erano rimasti i pochi che avevano conosciuto la repubblica ? (v. Disc. Tac. p. 59, ed. am.), in Hobbes il potere di Augusto, volto a comprimere le libertà individuali e politiche, è visto come uno strumento, nelle mani di un uomo, per uscire dalle guerre civili e restaurare la pace. Questo l’opposto angolo prospettico dal quale il filosofo inglese legge Tacito : Dopo [aver narrato] che Augusto aveva domato le guerre civili, pacificato la popolazione e preordinato la successione all’impero, l’Autore... (v. Disc. Tac. p. 58, ed. am.). * * * A me sembra si possa condividere la tesi che attribuisce al filosofo inglese la paternità del Discorso su Tacito. Per altre vie, infatti, giungo alle medesime conclusioni, osservando tipiche connotazioni che rimandano a Hobbes, in due campi, quello psicologico e quello teoretico : 1 ... la sensibilità nell’indagine psicologica dell’animo umano, 2 ... la specularità di alcuni “concetti chiave” espressi nel Discorso su Tacito, e nel Leviatano, in particolare sui temi che riguardano : 2 a ... il dramma delle guerre civili, 2 b ... l’individualismo, 2 c ... l’obbedienza. 1 ... Hobbes come Platone, Sant’Agostino, Machiavelli, Dostoevskij, è un fine osservatore della psiche e dei valori interiori dell’uomo : “La speranza è per i desideri umani una pietra per affilare e non consente che essi si affievoliscano” (v. Disc. Tac. p. 55, ed. am.). Nel Discorso su Tacito, egli svolge un’acuta analisi dei motivi che inducono le persone ad usare e ad accettare comportamenti adulatori in politica e nel rapporto gerarchico. Le riflessioni psicologiche del filosofo inglese sull’adulazione (e il suo concretizzarsi : donazioni in denaro ; benefici, cariche) sono di grande attualità (“flattery” : v. per esempio, pp. 39 - 40 ed. am.). Lo stesso acume psicologico troviamo nel Leviatano (Parte I, Cap. X) : La gravità, in quanto sembra derivare dall’impiegare la mente in qualche affare, è onorevole, perché un impiego è un segno di potere ; ma, in quanto sembra derivare dall’intenzione di apparire gravi, è disonorevole. Nel primo caso essa è come la stabilità di una nave carica di mercanzia ; nel secondo caso, come quella di una nave zavorrata con sabbia o altro materiale di scarto. 2 a ... Nell’autobiografia in versi, scritta quasi al termine della sua vita (nel 1672, sette anni prima della morte), il filosofo inglese ritiene importante ricordare : mia madre aveva partorito due gemelli “me, e la paura”. Era l’anno 1588, ” l’Invincibile Armada ” stava salpando diretta in Gran Bretagna, e fu così che atterrita dalle prospettive di una guerra imminente, la madre di Hobbes (moglie di un parroco) ebbe un parto precoce. Nel 1620, nel Discorso sull’inizio degli Annali di Tacito troviamo queste riflessioni : In realtà la cosa peggiore che può accadere ad uno stato è la guerra civile (v. Disc. Tac. p. 37, ed. am.). La guerra civile non porta vantaggi a nessuno, se non ai dissipatori che non hanno niente da perdere, i quali possono tagliare la gola ai loro creditori senza temere la forca (v. Disc. Tac.. “Nella sua vecchiaia scrisse la Storia della guerra civile inglese. Con molto acume, pose fra le origini intellettuali della guerra civile l’educazione classica della gioventù, educazione che, tra l’altro, aveva per effetto la diffusione del concetto di libertà politica” (v. : G. Mosca, Storia delle Dottrine Politiche, Laterza, Bari 1972, XI, 27, p. 180). “La tendenza insita al suo assolutismo è infatti di assorbire in sé non solo gli atti, ma perfino le opinioni degli individui. Così “spetta al sommo potere determinare quali libri debbano essere pubblicati e da chi debba essere esercitata la censura, perché le azioni traggono origine dalle opinioni” ” (v. Leviatano, Cap. 21, citaz. da G. De Ruggiero, Storia della filosofia, Laterza, Bari 1950, Parte IV, La Filosofia moderna, II, L’età dell’Illuminismo, Vol. I, p. 42 ). La guerra e in particolare la guerra civile è dunque una costante, un problema che assilla Hobbes, alla soluzione del quale egli si dedica, nel corso della sua vita. 2b ... Ed è assolutamente giusto per ogni uomo che l’assunzione di una attività dipenda solo dal proprio volere. (v. Disc. Tac. p. 32, ed. am.). In questa frase Hobbes offre una prefigurazione di un principio liberale ( v. il saggio della professoressa A. W. Saxonhouse, “Hobbes and the beginnings of modern political thought”, Introduzione, pp. 123 e segg., ed. am.). Infine dall’uso dell’espressione libero arbitrio, non si può inferire alcuna libertà della volontà, del desiderio o dell’inclinazione, ma solo la libertà dell’uomo, che consiste nel non incontrare ostacoli, al fare quello che vuole, desidera o è incline a fare. (v. Leviatano, Parte II, Cap. 21). 2 c ... “per i sudditi di un re la prima virtù è l’obbedienza e quelle sopra menzionate [le “altre virtù” distinte dall’obbedienza] tanto più saranno oggetto di maggiore o minore apprezzamento, quanto più favoriranno un maggiore o minore spirito di ubbidienza” (v. Disc. Tac. p. 60, ed. am.). Il fine dell’obbedienza è la protezione ; e l’uomo è spinto dalla natura a prestare obbedienza a tutto ciò che la garantisce, si tratti della sua spada o della spada di un altro ; e a sforzarsi di conservarlo. (v. Leviatano, Parte II, Cap. 21). Nel Leviatano, ai capitoli XXVI - XXVIII, vengono illustrati alcuni caratteri delle leggi (riguardo, ad esempio, alla “conoscibilità” anche S. Tommaso riteneva che le leggi positive dovessero essere soggette a pubblicazione). Qui Hobbes usa un argomento a favore della “comprensibilità” : “perché altrimenti un uomo non saprebbe come obbedire”. * * * Questo progetto di traduzione è stato curato per la versione in italiano dal Dott. Vincenzo Valorani e si avvale delle consulenze filologica del Prof. Giuseppe G. Castorina e filosofica del Prof. Gian Franco Lami, autori ciascuno di una nota di commento al testo hobbesiano. Avendo il progetto intenti di ricerca scientifica, la traduzione deve poter offrire il più alto grado di fedeltà al pensiero dell’autore. E’ questo il “vincolo di servizio” cui è tenuto, in casi come questo, il traduttore. Ne segue che il testo italiano si discosterà da una versione letterale, quanto basta, per favorire uno stile scorrevole e chiaro, che consenta al lettore di lavorare agevolmente sul pensiero del filosofo. Riguardo alla traduzione come servizio, un critico moderno ha osservato che Polibio scrive così male da essere leggibile in tutte le lingue tranne che nella sua (v. P. Léveque, Il mondo ellenistico, cap. III). Poiché ogni lingua ha le sue regole, tradurre significa passare da un complesso di vincoli ad un altro, (da una gabbia ad un’altra). Una traduzione letterale presenta dei pro e dei contro al pari di una libera ; un piccolo esempio servirà a mostrare, in qualche modo, la natura delle problematiche connesse alle scelte traduttive. Nella lingua inglese, il soggetto deve essere sempre espresso e, quando Hobbes impiegava pronomi personali, in luogo del nome proprio di persona, ho ritenuto opportuno non sostituirli, per non contraffare la forma espressiva data al testo dal l’autore (avevo escluso la via di una traduzione libera). Ma, in italiano, la soluzione scelta per ovviare a questa difficoltà, è appena tollerabile, es.: “he”, “egli [Augusto] ”. Mancando nel testo presentato in questa rivista la versione di Hobbes dal latino in inglese, traduzione spesso libera, il lettore avverte spesso una non compiuta corrispondenza tra la traduzione italiana e le parole di Tacito. In alcuni casi ho segnalato tali incongruenze, in parentesi quadra. Le parole interpolate, o non tradotte da Hobbes sono state indicate in parentesi tonde. Per i modi d’impiego della punteggiatura e per altri ausili (ad esempio ortografici) riguardo ai passi latini, sui quali Hobbes sviluppa le sue riflessioni, ho adottato un testo di riferimento : Tacito, Annali di Tacito, a cura di Azelia Arici, Utet, Torino 1969. * * * Ringrazio il professor Giuliano Borghi per le iniziali indicazioni sull’edizione americana dei Three Discourses e per le letture che mi ha proposto. Sono debitore della sensibilità con cui il professore Gian Franco Lami mi ha seguito, dandomi consigli, lasciando la più ampia libertà alle mie iniziative e incoraggiandomi. Per raggiungere un testo finale il più possibile accurato, ho attinto agli insegnamenti che avevo ricevuto, quando ero suo allievo, dal professore Giuseppe G. Castorina, che anche in questa occasione mi ha offerto utili suggerimenti. La mia gratitudine alla gentile signora Gretchen Linder, direttore responsabile per i diritti d’autore con l’estero, della University of Chicago Press, che mi ha offerto l’opportunità di usare alcune note appartenenti all’apparato critico del Discorso su Tacito. NOTA del prof. Giuseppe G. Castorina Il ricco dibattito teorico sulla traduttologia, di cui è testimonianza una bibliografia sempre più consistente, ha tra i suoi risvolti positivi quello di aver evidenziato principi che sono così generalmente condivisi dagli studiosi da costituire punti di riferimento essenziali e affidabili per il traduttore. Un concetto sul quale c'è una notevole convergenza è quello che definisce la traduzione in termini di equivalenza tra un testo fonte o di partenza (source text) e un testo di arrivo (target text). Tuttavia la definizione di equivalenza non è né univoca né priva di complessità, come emerge anche dalle diverse tipologie che sono state elaborate: equivalenza referenziale o denotativa, connotativa, pragmatica, dinamica, formale, testuale, funzionale. Una traduzione ideale conseguentemente dovrebbe preoccuparsi di trasferire unità di significato da un testo di partenza tenendo conto di questa ampia tipologia di equivalenze. Alla luce dei risultati e degli approfondimenti della ricerca teorica, il traduttore moderno si configura come un problem solver e un mediatore rispetto alla varietà di metodi, approcci e possibilità di soluzioni, consapevole che la traduzione è un'operazione sempre approssimativa anche per le diverse lunghezze d'onda in cui si trovano generalmente l'autore, il traduttore e il destinatario, per ragioni non soltanto linguistiche, ma anche di carattere storico, culturale, sociologico, psicologico. E proprio sul fruitore che a mio giudizio si concentra efficacemente il lavoro traduttivo di Vincenzo Valorani, il quale sulla scorta di numerosi esempi del passato, da Joseph Webbe, a John Dryden, a Samuel Johnson, e di molti teorici a noi contemporanei, ha optato principalmente per un risultato che si preoccupa del significato essenziale dei pensieri espressi, cercando – come scriveva Samuel Johnson in The Idler (1759) – di preservare il senso dell'autore e di rappresentare gli stessi pensieri dell'originale, le stesse caratteristiche, le stesse complessità, cambiando e adattando la lingua al nuovo contesto. Giuseppe G. Castorina NOTA del prof. Gian Franco Lami Ho il piacevole compito di presentare al lettore di questa rivista, che da sempre cura la ricerca di testi politici a dir poco inconsueti, la elaborata edizione di un Hobbes tuttavia controverso. So che della questione relativa all'autenticità del testo farà cenno Daniela Coli, la quale ci riserva altre notizie in argomento, di cui pure dirà, nella sua breve introduzione. Per quanto mi riguarda vorrei insistere invece sul merito di Vincenzo Valorani, lo studioso, collaboratore della cattedra di Filosofia Politica alla Facoltà romana di Scienze Politiche della Sapienza, cui si deve se oggi può circolare in Italia la traduzione di un'opera hobbesiana, fino a qualche anno fà sconosciuta al mondo intero. L'abilità di Valorani è stata quella di percorrere il sentiero degli interessi contrassegnati dalla sua passione primaria, Machiavelli, in maniera non chiusa e rigorosamente specialistica. Infatti si è imbattuto nel commento di Hobbes su Tacito, proprio inseguendo la presunta vena machiavellica del filosofo inglese. E ha trovato conforto in queste pagine, che sono destinate a un lettore tanto curioso, quanto esigente. La versione dall'inglese seicentesco che Valorani presenta, è del resto un esempio di premura filologica, cui spetta di porsi in evidenza a chiunque intenda cimentarsi in analoghe imprese. Così sulle colonne di Behemoth, possiamo leggere un evento di triplice valenza: il tentativo sperimentale di un traduttore sensibilissimo alla ricostruzione storico-etimologica dello scritto in lingua originale; la proposta di un saggio filosofico poco conosciuto, anche al nutrito stuolo di interpreti hobbesiani; la suggestiva costruzione di un precedente machiavelliano nella critica dell'Hobbes politico. Si tratta conclusivamente di un risultato di grande attrazione scientifica, destinato a non rimanere senza risposta e, c'è da augurarsi, destinato a rifondare la spinta conoscitiva nel pensiero filosofico-politico classico, anche sul piano di nuove proposte categoriali. Gian Franco Lami DISCORSO SULL’INIZIO DEGLI ANNALI DI TACITO Il brano di Tacito sul quale scrivo questo discorso e al quale limito le mie riflessioni contiene : 1 ... la descrizione delle diverse forme istituzionali adottate dai Romani; 2 ... la digressione dell’Autore sulle connotazioni [morali] di chi si propone di scrivere una “Storia” ; 3 ... i mezzi usati da Augusto per acquisire e mantenere la più alta magistratura, quella regia ; 4 ... i provvedimenti adottati ai fini della successione; 5 ... gli intrighi di Livia per sostenere l’ascesa al potere dei suoi figli ; 6 ... la situazione politica che seguì all’assestamento di Augusto al potere. Infine, l’avversione verso coloro i quali (allorché Augusto iniziava a perdere autorità e si avviava verso l’ultimo scorcio della sua vita) potevano probabilmente essere considerati suoi successori. E perciò inizio a dedicarmi al mio autore rispettando lo stesso ordine di esposizione. Urbem Romam a principio reges habuere. La città di Roma ai suoi albori fu governata da re. [Qui, come spesso più avanti, Hobbes traduce liberamente dal latino : “All’inizio, i re governarono la città di Roma”]. In tutti gli stati la prima forma di governo è casuale : sono determinanti le condizioni di fatto nelle quali si trova il fondatore. Se un uomo, che ha acquisito un potere incondizionato su tutti gli altri, fonda una città, egli ne sarà anche il governante ; se a fondare una città sarà un’oligarchia, a prendere il potere saranno gli ottimati ; e se a fondare una città è l’intera comunità allora, come spesso avviene, saranno i cittadini a governarla. Ed è assolutamente giusto per ogni uomo che l’assunzione di una attività dipenda solo dal proprio volere. Così qui Romolo edificò e governò, fu il fondatore e anche il re. Questa città fu fondata circa 800 anni prima della nascita di Cristo e dunque, da quella data ad oggi, sono trascorsi circa 2420 anni. I re contemporanei di Romolo furono : in Giudea, Giotano ; in Israele, Pecaia ; tra i Medi, Artica ; in Macedonia, Turima ; in Atene, Carope, il quale aveva instaurato una tirannide che sarebbe durata dieci anni ; a Sparta era re Polidoro ; la penisola italiana era costituita da molti potentati di scarso rilievo che nel complesso si equivalevano e per tale motivo questa nuova città avrebbe potuto espandersi in un contesto di relativa sicurezza ed essere ben presto pronta a confrontarsi con gran parte di essi. Infatti se qualcuno di questi stati avesse svolto un ruolo egemonico su gli altri, è molto probabile che non avrebbe tollerato che Roma si imponesse [nelle regioni] vicine in un così breve arco di tempo. [Roma è un nome etrusco. Tusculum ed altri toponimi etruschi indicano che il Lazio e anche la Campania furono abitate a lungo da comunità etrusche. Roma era circondata dal “Solco Sacro” o “Pomerio” secondo il rituale etrusco. E’ probabile che Roma avesse vissuto per molto tempo all’ombra dell’etrusca Veio situata al di là del fiume Tevere] Abbiamo descritto il contesto storico in cui fu costruita la città, vediamo ora quali re si susseguirono sul trono di Roma e la durata del regime monarchico. Il primo [re] fu Romolo e, dopo un anno di interregno, a lui successe Numa Pompilio, poi Tullio Ostilio, seguì Anco Marzio, il suo successore fu Tarquinio Prisco, quindi Servio Tullio e, ultimo, Tarquinio il Superbo. Gli anni di governo di questi re ammontano a 240 e sono stati paragonati da Floro alla giovinezza di un uomo e vengono generalmente considerati l’infanzia di Roma, ma non ho motivo di credere che quegli anni fossero di tirannia, almeno fino al regno dell’ultimo re il quale, a sue spese, dovette accorgersi che [nei sudditi era maturata una nuova disposizione nei confronti del potere e] avrebbero potuto ribellarsi. La successiva forma [istituzionale] di questo stato fu il consolato. Libertatem et consulatum Lucius Brutus instituit. Lucio Bruto portò la libertà e il consolato. Quanti hanno letto la storia di Roma hanno potuto notare quale consenso abbia suscitato [la cacciata del tiranno Tarquinio il Superbo] da parte di Lucio [Giunio] Bruto, visto che fu stabilito per celebrare tale evento un giorno festivo che si chiamò Regifugio [fuga del re], e come l’imitazione [dell’opera di Lucio Giunio Bruto contro il tiranno, per favorire la repubblica] indusse un altro uomo dello stesso popolo e dello stesso nome [Marco Giunio Bruto], ad una risoluzione simile [l’uccisione di Cesare per ripristinare la repubblica], [decisione] che non raccolse il medesimo consenso [perché Cesare era tuttavia molto amato], ma che configurò invece un medesimo destino [la cessazione del potere tirannico di Tarquinio il Superbo e di Cesare]. E di atti come questi [contro la tirannia e a favore della repubblica e della libertà], non posso che pensare questo: “Prosperus et felix scelus virtus vocatur” [l’arbitrio (l’uso della forza da parte di Lucio Giunio Bruto, il quale sollevò il popolo contro il re)] che procuri una vita di prosperità e agiatezza [quale può essere vissuta in una libera repubblica], è ritenuto un atto moralmente buono. L’oltraggio di cui fu vittima Lucrezia fu un atto privato, poiché colui che le usò violenza non fu il re, ma il figlio del re [Sesto Tarquinio, il quale perciò non avrebbe dovuto essere accomunato nella sorte al padre, che fu costretto all’esilio per motivi politici]. Ad ogni modo questo [l’illecito contro Lucrezia], unito all’orgoglio e alla tirannia del re, dispose più facilmente il popolo ad [assecondare il progetto di Lucio Giunio Bruto di ] esiliare il re e a modificare la forma di governo [per una interpretazione cristiana, alternativa a quella romana, del caso emblematico di Lucrezia v. Sant’Agostino, De Civitate Dei, libro I, cap. 19]. E eventi [quali la cacciata del tiranno e la fondazione della repubblica] sono definiti dall’Autore [manifestazione della] libertà, non perché la schiavitù sia sempre connessa alla monarchia, ma quando i re abusano del loro potere, tiranneggiano i propri sudditi, fingono di non vedere i molti oltraggi e abusi commessi contro [il popolo] da uno qualsiasi dei figli o dei propri amici, tale sorta di prevaricazione esercitata sulle persone e sulle cose, molto spesso finisce col generare azioni di forza per rivendicare la libertà, e [l’ingiustizia] non è quasi mai tollerata dalla natura e dalla sensibilità degli uomini, anche se la ragione e la religione ci spingono a sopportare il giogo. [ In definitiva, a provocare un cambiamento istituzionale che porti ad una maggiore libertà, è la reazione ad un abuso di potere, non la reazione ad una forma di potere ]. Questo governo consolare fu istituito nell’Anno Mundi 3422, non molto dopo l’inizio del Secondo Impero Universale dei Persiani, sui quali regnarono Cambise, Serse e Artaserse nell’arco di circa cinquant’anni. E, in quei giorni famosi, nello Stato di Atene vivevano Temistocle e Aristide. Ora, in tutto il periodo consolare, ai consoli potevano interporsi altre autorità. Dictaturae ad tempus sumebantur. Venivano scelti dittatori, ma solo per un tempo determinato. Questo magistrato era limitato, quanto al potere, soltanto dalla propria volontà. Per quanto concerne la durata [del mandato, il “dittatore”] era soggetto a limiti fissati dal Senato, e quelli erano così stretti che il potere [che veniva esercitato in quei mesi], poteva arrecare un piccolo danno e suscitare una modesta ambizione. All’inizio [i dittatori] avevano un’autorità pari a quella di un monarca assoluto e, con l’andar del tempo, non ne ebbero di più di quanta ne ha un re in una commedia. Però quando [tale autorità] giungeva nelle mani di qualcuno che non facilmente poteva essere obbligato a deporla, [tali dittatori] traevano da questa un potere così forte, che il popolo per mezzo di essa veniva privato della libertà e asservito nel caso di Silla per la durata di uno spettacolo [del circo] e nel caso di Cesare per un’intera vita. Ma la dittatura non deve essere considerata un’altra forma di governo, bensì una carica della repubblica, anche se vi si ricorreva in tempi di speciale pericolo per lo stato. Neque decemviralis potestas ultra biennium. Il mandato dei Decemviri non andava oltre i due anni. Il popolo dopo che, liberatosi dell’autorità dei re, si trovò sottoposto alle cure del governo repubblicano, diventò sempre più incerto ad ogni difficoltà e passava da una forma di governo all’altra, poi a un’altra ancora, e infine di nuovo alla prima; come un uomo in stato febbrile il quale si gira e rigira nel letto, ma non trova pace e si sente male in ogni posizione. Il popolo che non aveva potuto tollerare un re, si stancò presto dei Dieci tiranni e, a causa della loro insaziabile ambizione, oppressione e crudeltà, come pure per la dissoluta e barbara lussuria di Appio Claudio, uno di loro, (il quale, per soddisfare le proprie brame, aveva condannato alla schiavitù una donna libera), si liberò rapidamente di quel Collegio: ma in realtà la cosa che [il popolo] più temeva era il vedere che coloro i quali in quel momento detenevano il potere, non avevano intenzione di cederlo, ed anzi cercavano di renderlo personale e perpetuo. [Il popolo] era geloso della propria libertà e non era capace di decidere nelle mani di chi affidarla e spesso si trovò sul punto di perderla: ma in questo periodo la licenziosa e sregolata lussuria offrì ai Romani ancora una volta un’occasione per liberarsi dal giogo. Come precedentemente i Tarquini, così ora, i Decemviri subiscono la stessa sorte. Quelli, per aver usato violenza ad una donna sposata [Lucrezia]; questi, per aver premeditato la deflorazione di una vergine [Virginia]: la prima prese l’iniziativa vendicando [l’oltraggio] su se stessa con le proprie mani; la seconda avrebbe voluto fare lo stesso, ma fu preceduta dalla mano del padre nell’uccisione di sua figlia. Questo cambiamento di governo ebbe luogo cinquantotto anni dopo l’esilio del re intorno al 3500 dell’Anno Mundi. E diciannove anni dopo iniziarono le guerre del Peloponneso. In questo periodo nello Stato Ateniese vivevano Pericle, Alcibiade e Tucidide. Neque tribunorum militum consulare ius diu valuit. Neppure l’autorità consolare dei Tribuni militari durò a lungo. Dopo il decemvirato, [il popolo] ritornò di nuovo al regime consolare : non rimase soddisfatto a lungo dei consoli, perciò concesse la stessa autorità ai tribuni militari e, stanco di questi ultimi, fece di nuovo ricorso al consolato. [Per una valutazione di Roma repubblicana, da parte del popolo Ebreo, estraneo alla religione e alla cultura dei latini, v. : A. T., 1 Mac., 8, (tra l’altro : ambasciatori, “dopo lungo viaggio”, giungono a Roma e si recano in Senato per stringere un’alleanza contro l’espansionismo dei Greci. Le cose vengono riferite in modo impreciso, così come erano riportate dalla fama. Sembra che le parole elogiative nascondano, per contrasto, una satira rivolta ai Seleucidi, avidi di ricchezze e potere]. Poiché lo stato in quell’epoca era costituito da poco tempo e [quindi le sue istituzioni, in quanto non ancora affermate, erano] deboli, [il popolo] veniva attratto dal cambiamento e dalla varietà dei governi : ma il motivo principale di questi mutamenti era l’aspirazione della plebe ad eguagliare la nobiltà. Giacché a chiunque la plebe conferisse la suprema autorità, i senatori e i nobili riuscivano ugualmente a prevalere su di essa in tutte le cause e nell’assegnazione delle cariche, e fu questa la ragione della maggior parte delle rivolte e delle variazioni istituzionali. Non Cinnae, non Sullae longa dominatio. Il governo di Cinna e di Silla non durò a lungo. E’ vero che questi uomini giunsero all’apice del potere con la violenza e la forza, tuttavia non riesco ancora a credere che il motivo che ha determinato così presto la perdita del loro potere, sia stato [il ricorso alla prevaricazione]. Perché sebbene la violenza non possa durare a lungo, tuttavia i suoi effetti possono protrarsi nel tempo, e ciò che viene preso con il sopruso può successivamente essere goduto in modo tranquillo e senza limiti di tempo. Infatti anche Augusto si procurò con la forza la suprema autorità regia e, in aggiunta, organizzò le istituzioni in modo che i Romani non poterono più recuperare la libertà. Questi uomini non avevano predisposto alcun progetto e probabilmente non avevano alcuna intenzione di mutare uno stato repubblicano in una monarchia, più di quanto lo esigessero le istanze dei tempi correnti. Altrimenti forse avrebbero potuto trovare i modi per placare o reprimere i più fieri, allettare i più moderati, predisporre l’intera struttura statale ad una futura servitù e legalizzare, con provvedimenti politici, ciò che essi si erano procurati con l’uso della forza: il non aver fatto tutto questo fu la causa che anticipò la fine del loro potere. Pompeii, Crassique potentia, cito in Caesarem. Il potere di Pompeo e Crasso passò presto a Cesare. Nello Stato romano, [il Triunvirato] fu una autorità esercitata non in seguito a elezioni da parte del popolo, ma solo mediante l’uso della forza da parte di singoli protagonisti. Di questi, Crasso era il più ricco, Pompeo il più benvoluto dal Senato, e Cesare quello che aveva il maggiore potere militare. Pari fu la loro ambizione, ma non la loro fortuna né la loro saggezza. Infatti Crasso fu trucidato nella guerra contro i Parti, che egli aveva intrapreso solo per cupidigia. Pompeo, per quanto aspirasse alla monarchia, non adottò la via più giusta per conseguirla, poiché egli cercò il favore delle istituzioni, mentre sapeva che il suo rivale [Cesare ] si proponeva di usare la forza e di attentare allo stato. Al contrario, Cesare vedeva la Repubblica come una femmina, la quale avrebbe ceduto prima alla violenza, che alla lusinga; e perciò, con tutta la sua forza la aggredì e la sottomise: cosicché il potere dei [Triumviri] si concentrò su di lui, fino alla sua morte. Lo stesso avvenne dopo la morte di Giulio Cesare. Lepidi et Antonii arma in Augustum cessere. Gli eserciti di Lepido e Antonio passarono al servizio di Augusto. Questo fu l’ultimo mutamento degli ordinamenti di Roma, e fu permanente, in quanto da allora i Romani persero del tutto la libertà. Infatti il Senato aveva conferito ad Augusto il potere di riunire un esercito e di marciare contro [Antonio], giacché [questi] stava raccogliendo forze militari, puntando sul fatto che l’assassinio di Cesare era avvenuto nel momento in cui lui stesso era console, [truppe] che il Senato temeva sarebbero state usate [da Antonio] per soddisfare la propria ambizione e per ascendere egli stesso al principato [che era stato] di Cesare. Così egli fece [Augusto dunque, si oppose ad Antonio], e in poco tempo, dopo essersi accordato con lui ed aver associato Lepido come espediente [per formare un nuovo triunvirato], costituì il [ II ] triunvirato, che infine si ridusse [alla] sola [persona di] Augusto. [Cicerone, in Senato, aveva sostenuto che gli armamenti privati di Ottaviano fossero impiegati per combattere legalmente Antonio, il quale doveva essere dichiarato fuori legge ; (v. le famose 14 Filippiche, Orazioni le quali si richiamavano nel titolo a quelle pronunciate da Demostene contro Filippo di Macedonia). Nel 43 a.C., Antonio fu sconfitto presso Modena dalle forze di Decimo Bruto, di Ottaviano e del Senato, ma, con gli accordi per il II triunvirato, Antonio, avendo ottenuto da Ottaviano, come contropartita, la morte di Cicerone, inviò suoi sicari contro il proprio avversario politico, che fu assassinato nello stesso 43 a.C., mentre, dalla sua villa di Formia, tentava di lasciare l’Italia]. Da ciò si può vedere che è una grande imprudenza affidare, per difendere noi stessi, un esercito a uomini di questo genere, perché essi possono passare ad un livello superiore volgendo quelle armi alla nostra rovina. A tale circostanza si riferisce la favola del cavallo che, avendo deciso di subire il cavaliere e il morso per difendersi da un cervo che si nutriva con lui nello stesso pascolo, poi non poté più recuperare la libertà di cui prima godeva. Qui cuncta discordiis civilibus fessa, nomine principis sub imperium accepit. [Augusto], quando il popolo romano fu stanco delle lotte civili, ridusse in suo potere lo stato, assumendo il titolo di principe. Le numerose sofferenze che sempre accompagnano le guerre civili e l’estrema debolezza che segue ad esse, normalmente riducono a tal punto la saldezza dello stato e lo espongono alla rapina di uomini ambiziosi, che se i cittadini non perdono la libertà, ciò si deve soltanto [al fatto che sulla scena politica] non compare un uomo che abbia l’impudenza di approfittare della loro vulnerabilità. E quando un popolo potente e libero viene sottomesso alla tirannia di un uomo, ciò, nella maggior parte dei casi, avviene dopo qualche lunga e sanguinosa guerra civile. In realtà la cosa peggiore che può accadere ad uno stato è la guerra civile, nel corso della quale la migliore delle speranze dei cittadini può giungere solo a questo: [veder] posta a rischio e in gioco la propria sorte e rovesciata quella dei propri amici e familiari. E coloro che si trovano in una condizione triste hanno motivo di rallegrarsene e si augurano un cambiamento di qualsiasi genere esso sia. Questa fu una delle occasioni che Augusto afferrò per istituire la monarchia: i cittadini stanchi, fiaccati e demoralizzati nello spirito. Tuttavia egli [Augusto] non volle attribuirsi subito un titolo che avesse un nesso con la monarchia, specialmente il titolo di re,ma nomine principis sub imperium accepit, ridusse in suo potere lo stato, con il titolo di principe. Ogni uomo che abbia una funzione di comando, seppure non così alta, desidera un titolo che possa esprimere il pieno valore del grado raggiunto e la maggior parte delle persone ottengono dal titolo grande soddisfazione e altrettanta ricchezza. Di questo modo di pensare [riguardo alla denominazione della carica] Augusto accolse solo quel tanto che in quel momento gli consentiva di assumere un titolo che indicasse piuttosto dignità che autorità, rispetto a tutti gli altri [cittadini]; come se i romani avessero dovuto essere contati uno alla volta, egli [Augusto] ritenne di aver acquisito meriti perché si cominciasse da lui. Inoltre egli capiva che [ciò che poteva] spingere la massa alla ribellione, non sarebbe stato tanto un potere straordinario, quanto un titolo [che avesse espresso] arroganza, il quale avrebbe potuto far riflettere [il popolo] su quel potere [tirannico] e sulla perdita della libertà. E perciò egli [Augusto] inizialmente non volle assumere alcun titolo [che potesse apparire ] impopolare, come quello di re o di dittatore, i quali erano venuti in odio al popolo a causa degli abusi commessi in passato. E nel popolo destano impressione i fatti esteriori piuttosto che quelli sostanziali. Ma una volta ottenuta la cosa principale [il potere assoluto] alla quale aspirava, [Augusto] considerò un buon affare il dare a parole soddisfazione al popolo [riguardo al titolo assunto], poiché non gli sarebbe costato né denaro, né fatica. E neppure [le cose] erano in questi [termini], fuorchè per il presente. Infatti [Augusto] non dubitava affatto che il potere che egli nella sostanza deteneva avrebbe, col passare del tempo, conferito dignità a qualsiasi titolo egli avesse voluto assumere, anche se superiore a quello di re: e nel frattempo avrebbe conservato la benevolenza del popolo che è il pilastro principale di una nuova sovranità. A questo punto, giunta ormai Roma al culmine della sua potenza, dopo circa ottocento anni [dalla sua fondazione], le diverse mutazioni e le modifiche intervenute nella situazione istituzionale di Roma, e le loro fluttuazioni, si cristallizzarono nella persona di Cesare Augusto. Questi perciò, dopo essersi a lungo interrogato se dovesse restituire le istituzioni romane all’antica libertà repubblicana o convertire l’attuale forma di governo in una monarchia, si orientò infine verso [quest’] ultima [altrnativa]. Ora, le risorse [di cui Augusto] disponeva e gli espedienti cui ricorse per procurare che tale soluzione fosse accolta sono, del pari, oggetto di indagine da parte dell’ Autore e dovrebbero seguire in successione. Tuttavia poiché Tacito qui fa una digressione per mostrare le pecche degli storiografi e [i criteri] di correttezza che egli ha in animo di applicare nella [stesura della] sua opera, anch’ io prenderò spunto dalle sue parole, giacchè esse si trovano sulla mia strada, e riprenderò poi [le fila] della storia. Sed veteris populi romani prospera vel adversa claris scriptoribus memorata sunt. Ma dell’antico popolo romano sono stati riportati da eminenti scrittori gli avvenimenti sia lieti che tristi. E’ indice di troppo alta considerazione di sé e di presunzione voler ancora scrivere pagine di storia su tale argomento, quando esso è stato già trattato in modo sufficientemente esauriente da altri scrittori. E perciò, riguardo ai Commentari nei quali Cesare aveva descritto le sue imprese, intendendo che [quelle pagine] dovessero essere delle semplici note e la base di una futura storia, che avrebbe dovuto essere redatta da chi poi volesse assumere quel compito, Cicerone disse bene che, seppure tale impegno sarebbe stato gradito e bene accolto da chi fosse presuntuoso, tuttavia le persone equilibrate si sarebbero astenute dallo scrivere proprio per questo fatto [che tale tratto di storia era già stato narrato]. Così, come nel caso di Tacito [che non intendeva scrivere di eventi già trattati] dovrebbe anche esserci per qualsiasi altra persona un valido motivo per rinunciare a scrivere di quegli eventi storici che siano stati già descritti in modo attento ed esauriente. Il motivo per cui il periodo della repubblica è stato oggetto di una più ricca produzione di opere storiche, rispetto alle epoche successive, sembra consistere nella libertà [di espressione] che tale governo consentiva. Infatti, quando chi governa (è questi sempre il soggetto principale degli annali di uno stato) non è un solo uomo, ma un gran numero di persone [come avviene mediante le elezioni in una repubblica], in questo caso l’imposizione che grava sulla persona è di rado sentita come una forma generalizzata di sopruso. Temporibusque Augusti dicendis non defuere decora ingenia, donec gliscente adulazione deterrentur. E non sono mancati alti ingegni che narrassero [la storia] del tempo di Augusto, finché non furono scoraggiati dal crescere dell’adulazione. Anche [se i governanti sono] re, fino a quando le loro gesta sono tali che essi possono sentirsi gratificati nell’ascoltarle di nuovo, lo storiografo è spinto ad attenersi nei suoi scritti alla verità ; ma nei casi in cui quelle [imprese] non siano [proprio] da lodare, chi [le racconta], se vuole piacere [ai governanti], deve coprirle con un velo di finzione e deve compiacere [il governante], se vuole ottenere che la sua versione dei fatti superi [i rigori] della censura. Perciò la nota legge della storia che afferma: “Ne quid falsi dicere audeat, neque vere non audeat”, un uomo non dovrebbe osare di dire il falso e non dovrebbe non osare di attenersi alla verità, si deve necessariamente abrogare, quando l’adulazione trova accoglienza. [v., V. Alfieri, Del Principe e delle Lettere, voll. 3 ; in Opere di Vittorio Alfieri, Giacchè in tali circostanze è indispensabile dare rilievo al favore [che un testo può ottenere] piuttosto che alla sostanza dei nostri scritti. E per tale motivo l’adulazione giunge, col tempo, a fiaccare e a guastare gli scrittori capaci in un regno. Tiberii, Gaiique, et Claudii ac Neronis res florentibus ipsis ob metum falsae; postquam occiderant, recentibus odiis compositae sunt. I fatti di rilievo storico che riguardavano Tiberio, Gaio, Claudio e Nerone furono alterati [sotto l’influenza] della paura quando essi stessi erano potenti e [sotto la pressione] di un odio recente dopo la loro morte. E’ attitudine della maggior parte degli uomini, i quali siano stati ostacolati nell’esercizio di una moderata libertà, in un qualsiasi settore, che quando quella restrizione venga tolta, agiscano senza freni in quello stesso campo. Giacchè, quando viene impedita, la loro ambizione si accresce ed acquista forza e, quando la limitazione viene rimossa, essi si agitano con maggiore aggressività che se non fossero mai stati per nulla ostacolati. Da ciò consegue che chi ricorre all’adulazione nel momento del pericolo, quando questo è passato si volge alle calunnie, mentre la verità si trova nel mezzo di questi due atteggiamenti; cosicché gli stessi uomini che in un primo tempo sarebbero affatto impalliditi per la paura, sono gli stessi che, quando possono agire in [condizioni di] sicurezza, esprimeranno la massima denigrazione. E da ciò discende che l’ultima parte della vita di Augusto, insieme con [gli anni di] governo dei quattro [imperatori] prima citati [Tiberio, Gaio, Claudio e Nerone], non ha trovato un narratore affidabile come [era avvenuto] per la prima parte [della vita di Augusto]. Inde consilium mihi pauca de Augusto et extrema tradere, mox Tiberii principatum et cetera, sine ira, et studio, quorum causas procul habeo. Perciò il mio scopo è di consegnare ai posteri poche cose, gli ultimi avvenimenti riguardanti Augusto, quelli riguardanti il principato di Tiberio ed i successivi, senza animosità e parzialità, motivazioni dalle quali io sono lontano. Le carenze [storiografiche] sopra menzionate e la mancanza di una vera storia riguardo a questi ultimi tempi hanno spinto l’Autore ad assumersi il compito [di scrivere su tali eventi] e, per evitare il sospetto [riguardo alla presenza] di quegli stessi errori che prima [Tacito] ha rimproverato ad altri, egli sottopone alla nostra attenzione [il fatto che] sono da lui lontani i presupposti sia dell’ira che dell’indulgenza. Queste motivazioni [di ira e di indulgenza] debbono essere o paura o speranza di un buono o cattivo avvenire, oppure di qualche beneficio, o di un torto subito precedentemente, e di tali [disposizioni interiori] ogni scrittore di storia farebbe bene a mostrarsi privo, se ne è capace; giacchè la maggior parte degli uomini che valutano gli altri sul metro di se stessi sono propensi a ritenere che tutti, non solo [nell’attività storiografica], ma in ogni altra loro azione, rispetteranno maggiormente ciò che porta al progredire dei loro fini, più che [alla promozione] della verità e del bene degli altri. Questa, nella sostanza, la digressione; ora seguono i veri e propri fatti storici. Postquam Bruto et Cassio caesis, nulla iam publica arma. [La cessazione delle lunghe guerre civili, che nel loro brutale svolgimento avevano sprigionato tali energie da travolgere gli uomini più rappresentativi di Roma, è annunciata da Tacito con questa frase lapidaria. Lo storico latino usa ancora il termine “repubblica”, ma quello che sta descrivendo è un momento storico di “soglia” : Augusto ripristinando principi di diritto, che erano stati gravemente offesi, restituirà ai Romani unità di governo, ma non la libertà repubblicana, pur avendo potere per attuare questo progetto]. Dopo che Bruto e Cassio furono assassinati, la repubblica non fu più in armi. Sebbene Cremuzio forse fu giustamente punito per aver definito Bruto e Cassio come gli ultimi Romani, e scriveva ciò in un tempo in cui non era proprio consentito di guardare indietro alla precedente condizione repubblicana, tuttavia riguardo ad essi si può davvero affermare che furono gli ultimi difensori della libertà di Roma. Infatti nessuno dopo di loro fece più ricorso alle armi per restaurare quella forma di governo. Che genere di vantaggio ricavava dunque Augusto [dal fatto] che questi [capi dell’ opposizione] fossero stati assassinati ? Che ora la repubblica rinunciava alla propria libertà e si dichiarava soggiogata. Cosicché, vinti i suoi più forti avversari, egli poteva occuparsi con maggiore tranquillità della fase successiva [la sua ascesa al potere]. Pompeius apud Siciliam,oppressus. Pompeo [fu] sconfitto in Sicilia. Questo Sesto Pompeo che era un sopravvissuto della fazione pompeiana fu sconfitto nelle acque della Sicilia [presso Nauloco] da Agrippa, luogotenente di Augusto, in modo cosi netto che egli [Sesto Pompeo] riuscì a fuggire con sole 17 [navi] delle 350 [che componevano la sua flotta]. E così questo fu un ulteriore passo verso l’instaurazione pacifica del suo [ di Augusto] impero. La prima guerra civile ebbe luogo tra la fazione di Cesare da una parte e quella di [Gneo] Pompeo [Magno] con la Repubblica dall’altra, e Cesare prevalse. La successiva [guerra civile] sarà [caratterizzata] dalla discordia tra i seguaci di Cesare, con Augusto da una parte ed Antonio dall’altra, e [dal fatto che] il potere infine si accentra nella sola persona di Augusto, il quale fino a questo momento aveva dovuto combattere contro la fazione della Repubblica e di Pompeo, nelle guerre contro Bruto e Cassio e contro Sesto Pompeo. Come egli [Augusto] ora escluderà gli altri capi della propria fazione sarà detto tra poco. Exuto Lepido, interfecto Antonio. Spogliato d’ogni potere Lepido, ucciso Antonio. [Antonio si suicidò dopo aver subìto le sconfitte di Azio, 31 A.C., e di Alessandria, 30 A.C. ; Hobbes traduce correttamente il verbo transitivo latino interficere, uccidere]. Lepido, se [avesse continuato] a far parte del triunvirato, avrebbe potuto impedire la rivalità degli altri due [membri del triunvirato], tenendoli nel dubbio riguardo a quale delle parti egli avrebbe appoggiato. E quindi, come se essi [Augusto e Antonio] desiderassero mettere alla prova la supremazia tra di loro, convinsero Lepido, il quale dei tre [triunviri] aveva un potere minore, a congedare le legioni che erano sotto il suo comando ed a lasciare la propria carica. Avvenuto ciò, il desiderio di dominio totale non ammetteva più amicizia tra gli altri due [triunviri i quali] perciò si volsero alla guerra. Ed Augusto, che la conduceva con tutte le sue forze, portò Antonio ( il quale era ormai conquistato da passioni sensuali e aveva il cuore incatenato ai piaceri di una donna [Cleopatra] ) in breve volgere di tempo, alla rovina, ed egli [Augusto] rimase unico erede di tutte le aspirazioni e di tutti gli interessi di essi [di Lepido e di Antonio]. Ne Iulianis quidem partibus, nisi Caesar dux reliquus. Non rimase nessun altro capo neppure nella fazione Giulia, ma solo Cesare [ Augusto]. [Per capire il senso di “Ne quidem”, questo passo deve essere letto tenendo presente i precedenti, ai quali appartiene : ”Postquam Bruto”, “Pompeius apud”, “Exuto Lepido”]. Fino a quando Bruto e Cassio furono vivi, questa fazione [il partito cesariano] non si spaccò perché essi [con la scissione] nell’immediato non sarebbero pervenuti a niente [di positivo] e il valore di [Marco Giunio] Bruto avrebbe potuto avere successo ai fini del mantenimento della libertà, quella stessa [libertà che fu introdotta] dal suo antenato [Lucio Giunio Bruto]. Ma quando cessarono di valersi l’uno dell’altro per far progredire le speranze di entrambi, allora si separarono e lottarono per stabilire chi sarebbe stato il vincitore finale. E poiché [la vittoria] toccò ad Augusto, egli non ebbe in seguito da fare niente di più che conservare ciò che aveva ottenuto, e poteva far ciò agevolmente. Innanzitutto egli era solo [a governare] e quando il potere si concentra su un’unica persona e le sue intenzioni sono soltanto quelle di una discrezionale promozione di se stesso, è molto probabile che questi sia portato a renderle effettive. I colleghi [di triunvirato] in tali affari [il governo dello stato] raramente gradiscono che tutti, anzi quasi tutti i contributi personali [proposti per concordare una decisione politica] debbano portare vantaggio a uno solo [di loro], così tenace è ogni uomo nel perseguimento dei propri scopi. Augusto previde ciò quando bandì da sé [gli altri] due [triunviri] i quali erano pari a lui in autorità e potere, Antonio con la forza e Lepido con l’inganno. Ed ora [Augusto], avendo in pugno le persone, si accingeva ad ottenere [un uguale] potere sulle menti e le volontà, e questo costituisce insieme il più affinato e il più sicuro dominio tra tutti. Posito triunviri nomine. [Augusto] abbandonato il titolo di triunviro. Egli aveva tre motivi per lasciare quel titolo; il primo è meno importante ( [non ha rilievo] se non per la grammatica) e consiste nel fatto che quel termine non si addiceva ad [Augusto] e questi era solo a governare, mentre [tale titolo] è appropriato solo quando vi sia una commissione di tre [membri]. Il secondo [motivo] è che quel termine conservava un significato troppo restrittivo. E infatti, fino a questo momento i triunviri avevano compiti più di supervisione che di governo; qualche volta erano nominati per attendere ad un determinato affare, altre volte ad un altro ; ma nessuno [di loro] ottenne mai i pieni poteri per governare la repubblica fino a questo momento in cui Augusto, Antonio e Lepido, tre uomini egualmente interessati al governo dello stato, si diedero quel titolo. Ma la ragione principale era questa, che quel termine portava con sé il ricordo ed il sapore delle guerre civili e delle proscrizioni che erano odiose al popolo. E un principe nuovo dovrebbe evitare quei titoli istituzionali che insistono sulle ferite dei sudditi e procurano odio e invidia a chi li usa. [v., V. Gioberti, Del Rinnovamento Civile degli Italiani, Laterza , Bari 1911-12, vol. I, A quali condizioni le riforme sono legittime, il danno delle rivoluzioni, pp. 176 e segg. : “Ogni riforma importante suole constare di tre capi : ritirando l’instituzione a’ suoi principi, accomodandola alle condizioni correnti, indirizzandola e abilitandola a ulteriori progressi. Col primo di questi moti ella mira al passato e si fonda nella tradizione, col secondo al presente ed è sperimentale, col terzo all’avvenire ed è anticipativa ; tanto che ella viene ad abbracciar tutti i tempi e conferisce alle instituzioni quella continuità di vita che si ricerca alla lor permanenza. E come il ritiramento verso i principi insegnato dal Machiavelli (Disc., III, I) presuppone che essi ne abbiano il seme, così la corrispondenza col presente e l’inviamento verso l’avvenire importano due altre dottrine dello stesso autore. L’una, che bisogna variare secondo i tempi (Disc., III, IX ; Princ., XXV), giacché il rinnovamento dell’antico non profitta e non ha fermezza se non è ampliato e col moderno non armonizza. L’altra, che ogni mutazione dee addentellarsi collo stato anteriore degli ordini che si mutano (Princ., II). Nel modo che niuno può cogliere l’archetipo ideale nella sua perfezione, simigliantemente non è dato di accostarglisi oltre quanto consentono i progressi già fatti ; e l’approssimazione essendo continua, indefinita e perpetua per natura, ciascun nuovo atto di essa vuol essere determinato da quello che lo precede. Bisogna anco aver riguardo all’ambiente civile, cioè al progresso nelle altre parti, onde tutto consuoni nel convivere cittadinesco e la legge di conformezza compia quella di continuità e di gradazione. E tanto rileva che ogni nuovo edifizio abbia le sue morse nell’antico, che le parole stesse non sono indifferenti, onde Plutarco avverte che “le cose moderne pigliano volentieri i nomi imposti alle antiche ” (Disp. Sympos., II, IV), e il Segretario fiorentino consiglia : “Colui che (..) vuole riformare uno stato (...) è necessitato a ritenere l’ombra almanco de’ modi antichi, acciò che a’ popoli non paia avere mutato ordine, ancorché in fatto gli ordini nuovi fussero al tutto alieni dai passati ; (...) perché alterando le cose nuove le menti degli uomini, ti debbi ingegnare che quelle alterazioni ritenghino più dello antico sia possibile ; e se i magistrati variano e di numero e d’autorità e di tempo, degli antichi che almeno ritenghino il nome” (Disc., I, XXV). Imperocché ogni novità giudiziosa dovendo incalmarsi e cestire sul vecchio di cui è la propaggine e in certo modo la metamorfosi, l’identità del nome esprime sensatamente la medesimezza sostanziale della cosa e la fa gustare eziandio al volgo, rivoltando a conservazione del nuovo la forza delle antiche abitudini. Per ultimo la dottrina dell’addentellato riguarda anco al futuro, dovendo le riforme esser tali che non solo combacino e si aggiustino col passato e col presente, ma porgano dicevole appicco agl’ innesti che seguiranno. La disdetta delle riforme causa le rivoluzioni, che suppliscono a quelle come le crisi straordinarie al regolato processo di natura”]. Consulem se ferens et ad tuendam plebem Tribunicio iure contentum. [Augusto] nominandosi console e [dichiarandosi] pago dell’autorità propria del Tribuno per difendere i diritti della plebe. Il Tribunato fu istituito nei tempi antichi con funzioni di difesa del popolo minuto e di tutela dei suoi diritti, immunità e privilegi, contro la violenza e l’abuso dei nobili, e tale funzione si conservò nel tempo. [v., Vincenzo Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano, Jovene, Napoli 1989, pp. 48-49 : ”La plebe ha dunque, in un primo momento, sancito essa stessa il carattere sacrosanto delle sue magistrature ; e, non potendo applicare al contravventore una vera pena, lo ha dichiarato sacro col patrimonio ai suoi propri dei, garantendo così la protezione a chiunque ne facesse giustizia. Questo carattere religioso della sanzione, che era l’unico pensabile quando all’assemblea che la comminava non era riconosciuto un potere legislativo, servì molto bene anche quando, avvicinatisi i rappresentanti dei due ordini, tutto il popolo volle assicurato alla plebe il rispetto dei suoi magistrati. Come infatti quella si era costituita in stato entro lo stato, le relazioni fra i suoi organi e quelli del popolo romano nel suo complesso avevano caratteri che le avvicinavano ai rapporti internazionali : posto ciò, se pure i termini dell’accordo hanno trovato espressione in una legge del comizio centuriato, questa ebbe un valore non dissimile da quello che hanno oggi le ratifiche dei trattati internazionali da parte degli organi legislativi dei singoli stati contraenti : accanto ad essa, e - in un certo senso - al di sopra di essa, i plebei dovettero pretendere un impegno giurato dei maggiorenti patrizi, e considerare la sanzione della sacertà come avente una forza superiore a quella della lex centuriata Perciò Augusto assunse l’autorità di tale magistrato contestualmente al titolo di console e così, perfino delle vecchie cariche, egli poteva esercitare quelle che, sia per il titolo che per l’influenza, consentivano i maggiori esiti. E per quanto concerne il potere, in quel momento, non c’era alcuna [carica] più alta di quella di Tribuno della Plebe. [Augusto si fece concedere dal Senato il tribunato a vita]. Come dice Tacito in un altro punto, id summi fastigii vocabulum Augustus repperit, ne regis aut dictatoris nomen assumeret, ac tamen appellatione aliqua, cetera imperia praemineret. Augusto scelse un titolo di alto rango, tale che gli consentisse di evitare quello di re o di dittatore e tuttavia di avere un ruolo di preminenza sugli altri magistrati. Ma il principale motivo per cui egli [Augusto] era interessato al titolo di tribuno consisteva nella sua convinzione che [la mossa politica] migliore fosse rendere la propria fazione sicura [legandola agli interessi] del popolo che in quel momento era la parte più forte dello stato, con l’assunzione del titolo e dell’autorità di magistrato garante dei diritti della plebe. E poiché [Augusto] si rendeva conto che è impossibile soddisfare [gli interessi di] tutti, ne segue che [la strategia] più accorta per un principe nuovo consiste nel legare [il proprio destino] a quella compagine del proprio stato che sia più delle altre nelle condizioni di resistergli, ed ottenere i favori [di essa]. Augusto non trascurò tutto questo. Ricorse anzi ad ogni espediente per indurre tutti ad essere soddisfatti del suo attuale [sistema di] governo. Militem donis, populum annona, cunctos dulcedine otii pellexit. Egli [Augusto] lusingò i soldati con donazioni, il popolo con forniture di grano e tutti con la dolcezza della tranquillità e del vivere in pace. [La condizione] più comune dei soldati è l’indigenza; e, dopo il valore, essi considerano che non ci può essere una virtù più grande della generosità dalla quale immaginano provengano tutte le donazioni ; mentre se si cercasse il vero [motivo che spinge a dispensare beni] apparirebbe [chiaro] che tali doni non provengono dalla liberalità [intesa come] virtù, ma non sono altro che il prezzo della libertà della propria Patria. Ma i soldati erano troppo grossolani per pensare in questo modo. Una mano generosa attira il loro affetto più di ogni altra cosa qualunque essa sia. Lo stesso risultato è prodotto nelle persone comuni dalle forniture di grano che, se può essere comprato ad un prezzo più basso di quanto fosse possibile prima (sebbene forse, anche il peso è stato diminuito quanto il prezzo), allora il popolo deduce che lo stato è governato con grande abilità. L’efficacia di questo genere di liberalità fu evidente in [questo] stesso stato molto prima [che fosse fatto ricorso] a tali [donazioni], quando sia Spurio Cassio, attraverso l’elargizione di denaro, sia Spurio Melo, attraverso la donazione di grano, giunsero quasi sul punto di instaurare un controllo assoluto e una tirannia sulla Cosa Pubblica. Tra le intenzioni di Augusto c’ è anche questa. Egli cattura il favore dei cittadini con mezzi di sostentamento e di sussidio come aveva fatto con i soldati mediante il suo denaro. Inoltre, egli appaga [i desideri di] tutti con il balsamo di una vita tranquilla e serena. Il popolo riconosceva che il sopportare il giogo di Augusto significava essere liberati da altre vessazioni, e che l’opporsi [ad Augusto] voleva dire rinnovare le sofferenze che negli ultimi tempi aveva subìto. Quando il popolo era molto più forte non era riuscito ad esercitare un’adeguata opposizione, ed ora che è debole, è ancor meno in grado di reagire. Pertanto, essendo stanco, non poteva che essere conquistato del tutto dall’attuale condizione di quiete e di assenza di guerra e in modo particolare [di assenza] di guerra civile. Così Augusto [riguardo alle donazioni finalizzate al conseguimento del potere] seguì la migliore direttiva tra tutte per rendere saldo un nuovo dominio, vale a dire dare denaro ai soldati, al popolo beni a basso prezzo, e a tutti quiete e pace. Insurgere paulatim, munia senatus, magistratuum, legum in se trahere. [Augusto] prese a poco a poco ad invadere [nuovi spazi di potere] avocando a sé affari e funzioni [propri] del senato, dei magistrati e delle leggi. Augusto ha finora adottato nei confronti dello stato l’atteggiamento di chi doma cavalli selvaggi : prima li ha bastonati e stancati, poi è stato attento a non spaventarli con ombre, successivamente ha offerto loro speranza di tranquillità e ha procurato loro forniture di grano, ed ora egli comincia a montare con discrezione lo stato. Egli sale a poco a poco. Perchè non è prudente per chi si appresta a convertire uno stato libero in una monarchia privare [i cittadini] di tutti i simboli della libertà, in un colpo solo, e improvvisamente far avvertire loro l’asservimento, senza prima aver introdotto nei loro animi alcune “previae dispositiones”, passaggi preliminari, per mezzo dei quali essi possono sopportare tale [cambiamento] nel modo migliore. La precipitazione in qualsiasi affare, specialmente se importante, dà luogo nella maggior parte dei casi al suo fallimento e l’attuare in una sola volta ciò che deve essere realizzato in fasi successive è un pensiero [tipico] di un uomo avventato e violento che non riesce a imporre limiti a se stesso e a contenere i propri desideri. Inoltre, nei confronti di un popolo da così lungo tempo affrancato da un governo monarchico, era molto più probabile, che egli potesse ottenere buoni risultati con azioni graduali mediante un lento inserimento [negli organi dello stato] e una costante tenacia, che potesse [conseguirli] con alcuni interventi improvvisi. Perciò egli avoca a sé gli affari e le funzioni del senato, dei magistrati e delle leggi ed incomincia ad appropriarsi di ciò che aveva cercato e atteso a lungo. Infatti, giacchè tutte le macchinazioni e le politiche che egli aveva precedentemente messo in atto miravano a questo scopo, se poi non ne avesse raccolto i frutti avrebbe potuto essere giustamente tacciato di incostanza e [si sarebbe detto] che le sue azioni erano dettate da una mente vanagloriosa e instabile, e la sua autorità sarebbe con il tempo caduta nel disprezzo. Ed infatti la capacità di intervento e l’amministrazione ininterrotta degli affari sono la sola cosa che conserva la continuità e la forza dell’autorità. E tutti concedono il loro rispetto, e pensano che esso sia dovuto, a coloro i quali ci si rivolge per la definizione dei propri affari importanti. Nullo adversante; cum ferocissimi per acies aut proscriptione cecidissent. Nessuno ora gli si oppone; poiché i più fieri erano morti o in battaglia o a causa delle proscrizioni. Questo assalto [portato da Augusto] alla libertà dello stato, nei primi tempi, non poteva ammettere oppositori ; ma ora i più strenui repubblicani erano stati estirpati. Perché questi uomini essendo i più arditi e i più pronti nell’impiego delle armi devono assolutamente essere snervati prima degli altri e, se [l’azione di logoramento intentata] incontra eccessiva resistenza, devono essere spezzati, giacché sono per natura poco inclini a piegarsi. E ancora, quando venivano attuate le proscrizioni, questi uomini erano gli unici ai quali esse erano destinate, gli avversari meno violenti invece trovavano salvezza nel disprezzo. Le proscrizioni delle quali qui si è detto sono quelle effettuate dai triunviri, essendosi uniti ai quali i capi delle fazioni, [questi ultimi] abbandonarono e in un certo modo sacrificarono i loro vecchi amici per questa nuova alleanza, [e perciò] non si poteva consentire che venisse lasciato in vita nessuno, a qualsiasi fazione appartenesse, che fosse coraggioso e pericoloso. E forse, non procurò minor vantaggio ai progetti di Augusto che fossero assassinati anche alcuni [membri] del suo stesso partito, di quanto ne recasse il massacro di coloro che avevano fatto parte delle fazioni di Antonio e di Lepido. Perché essi [i partigiani di Augusto uccisi], come ricompensa del loro servizio, avrebbero potuto pretendere di ottenere una qualche partecipazione al suo potere, cosa che egli [Augusto] avrebbe potuto non tollerare, oppure avrebbero potuto divenire [suoi] oppositori e spodestarlo, anche se con la sua caduta, avrebbero votato se stessi alla morte. Ma Augusto si era ormai disfatto di questi compagni tenaci. Ceteri nobilium quanto quis servitio promptior, opibus, et honoribus, extollerentur ; ac novis ex rebus aucti, tuta et praesentia, quam vetera et periculosa mallent. [Per quanto riguarda] gli altri nobili [v. la riflessione hobbesiana precedente : soprattutto i componenti la fazione di Augusto che non furono uccisi], ciascuno di essi veniva elevato in ricchezza e onori tanto più, quanto più prontamente [si disponeva] ad assecondare [Augusto], e poiché erano favoriti dal nuovo regime, preferivano la condizione politica presente, che dava loro sicurezza, alla precedente [caratterizzata dalle guerre civili], densa di incertezze. E’ ad un tempo atto di giustizia e buona politica ricompensare con vantaggi coloro i quali concedono obbedienza con prontezza e disponibilità, poiché il superarsi l’un l’altro in sollecitudine stimola negli uomini l’emulazione. E al contrario è cosa ingiusta e controproducente riversare benefici su oppositori strenui nei casi in cui non vi è modo di guadagnare la loro fedeltà. Innanzitutto, coloro che offrono elargizioni le cederanno una dopo l’altra a fondo perduto, nella vana speranza di portare i beneficati dalla propria parte e di non perdere il senso di obbligazione [che deriva] dall’iniziale concessione, ed in aggiunta anche gli altri [v. sopra, in questa stessa riflessione hobbesiana: coloro che concedono obbedienza con prontezza e disponibiltà] potrebbero essere indotti a prendere spunto dal comportamento degli oppositori [che ricevono benefici] a ritenere [egualmente] producente essere avversari tenaci. Ed inoltre, coloro che erano stati ricompensati per i loro atti di fedeltà, se vogliono conservare l’attuale condizione dello stato, dovranno necessariamente impegnarsi e contribuire a tenere lontane le guerre civili. Giacchè, per chi possiede ricchezze, i tempi migliori sono sempre quelli in cui regna la pace. [Mentre], nei periodi di guerre e disordini, essi pagano per tutti e nelle devastazioni la loro rovina è la più grave. Infatti la guerra civile non porta vantaggi a nessuno, se non ai dissipatori che non hanno niente da perdere, i quali possono tagliare la gola ai loro creditori senza temere la forca ; uomini i quali, in tempo di pace, le leggi e la spada della giustizia contrastano senza scampo. Ma i ricchi e coloro che andavano a caccia di titoli onorifici si sentivano più tranquilli e soddisfatti nei presenti tempi [di pace], più di quanto potevano prevedere di essere in tempi di guerra civile ed accettavano [di vivere] il presente [oscurato da un governo autocratico], ma che offriva sicurezza, piuttosto che lottare per il passato [illuminato dalle libertà repubblicane], ma pieno di incertezze. Neque Provinciae illum statum rerum abnuebant, suspecto Senatus populique imperio, ob certamina potentium, et avaritiam magistratuum ; invalido legum auxilio, quae vi, ambitu, postremo pecunia turbabantur. Neppure alle Provincie dispiaceva questo stato di cose, perché esse diffidavano del governo repubblicano a causa delle contese tra i potenti e dell’avidità dei magistrati e perché la tutela delle leggi era inadeguata essendo esse violate con la forza, con brogli elettorali e in ultima istanza mediante il denaro. Lo Stato Romano non si esauriva nella grandezza di quella città unica che era Roma, o nell’estensione territoriale della sola Italia, ma era anche espressione del gran numero e dell’importanza delle Provincie che erano ad esso soggette. E perciò era vitale per la stabilità del governo di Augusto ottenere che anche esse fossero soddisfatte di questo cambiamento [il passaggio dalla repubblica alla monarchia], ed esse lo erano per due ragioni. La prima era che una repubblica è sentita dalle Provincie non come uno, ma come molti tiranni, quando gli uomini che la governano finiscono con l’acquistare tanto potere da piegare le leggi ; cosicchè [tali Provincie], trovando difficile decidere a quale fazione aderire, vanno sempre incontro all’ostilità di qualcuno e qualche volta di tutti e diventano preda di chiunque se ne impadronisca per primo, e sono premio della contesa tra i capi delle fazioni. Negli affari interni esse [tali Provincie] sono dominate da opposte fazioni e da leggi contrastanti, cosicchè non possono né obbedire né disobbedire senza scontentare [qualcuno] e perciò sono spinte e trascinate a volte verso una fazione, a volte verso un’altra. Coloro i quali sono incaricati di rendere giustizia vengono indotti a non amministrarla conformemente alle leggi, ma in ossequio al capriccio di colui del quale essi stessi [i giudici] sono seguaci, e questi può essere ora uno e subito dopo (col mutare della fortuna) un altro. [Invece] a Roma, se esse [le provincie] dovessero ricorrere in giudizio per qualsiasi ragione, sebbene potrebbero tutte ritenersi soddisfatte di poter vincere una causa per soli motivi di merito, tuttavia l’eventuale appoggio che una fazione dovesse offrire a tale azione legale provocherebbe l’opposizione dell’altra [fazione] e di conseguenza [tale appoggio] ostacolerebbe [quella causa]. Quindi per una Provincia è meglio essere soggetta ad un solo capo, per quanto malvagio, che non ad una repubblica potente, ma dominata da fazioni. Inoltre esse [le Provincie] si trovavano a fronteggiare l’avidità dei magistrati. Infatti, quando esse si aspettavano che le loro ragioni e le loro richieste non finissero nel nulla, perche [ritenevano che] verità e giustizia fossero dalla propria parte, al contrario riscontravano che, a causa di tale insaziabilità, i giudizi dei magistrati non erano equi, anzi che essi amministravano la giustizia [badando] piuttosto al peso [della borsa] che alla misura [di un giudizio equanime]. La borsa più pesante, la regalia più grande guidavano il processo. La giustizia non era visibile, ma [più che altro] tangibile [non erano valutate le ragioni delle parti, ma era soppesata la quantità del denaro offerto per vincere la causa] ; una ricca largizione era il miglior avvocato delle provincie. Tali erano i magistrati ed i giudici in quei tempi. Ogni cosa era mossa dal potere, dall’ambizione e dalla corruzione. Chi non era ambizioso veniva emarginato e chi non era corrotto veniva giudicato dissennato. In questo periodo le provincie avrebbero accettato di buon grado una monarchia o una tirannia piuttosto che essere afflitte da così varie e insane inclinazioni di tante autorità. Ma ci può anche essere avidità nei magistrati quando il potere è nelle mani di un solo uomo ed in questo caso la presenza di tale vizio va ascritta alla singola persona [il singolo giudice] non alla forma di governo [la monarchia]. In realtà possono presentarsi forme di corruzione anche in questo tipo di stato [nella monarchia], ma in una repubblica dilaniata da fazioni non può avvenire che questo. Perché, nei casi in cui lo stato è compatto, i magisrati avranno cura di tenere una condotta corretta nei confronti di esso ; se invece [lo stato] è lacerato dalle divisioni ogni cittadino pensa solo a se stesso e deve cercare di rafforzarsi e arricchirsi con qualunque mezzo, per quanto cattivo esso sia. Perché le fazioni non traggono forza che dall’ingiustizia e dalla rapina. Per una tale complicazione un appianamento c’è ed è questo, che la legge sia dotata di un forte principio di autorità [che renda la norma efficace e certa] il quale negli ultimi tempi [quelli delle guerre civili] era pressochè andato perduto. Giacchè la violenza, gli amici e il denaro avevano minato la loro [delle leggi] efficacia . Infatti, quale legge era così autorevole che la pressione di Cinna, Silla, Mario, Giulio Cesare e altri, non avrebbe potuto forzare in quei tempi ? Nulla c’è di più proverbiale del fatto che le leggi siano simili a tele di ragno [fatte] per trattenere soltanto le mosche più piccole. Inoltre, i favori e le amicizie avevano consentito anche agli uomini che disponevano di minor potere [di fronte alla legge rispetto ai potenti indicati sopra] di piegare le leggi. E infine, il denaro aveva offerto la strada più comoda di tutte [per la violazione delle leggi]. Per tali motivi [la mancanza di certezza del diritto] le Provincie, poiché riponevano migliori speranze nelle leggi di Augusto, non riuscivano ad essere contrarie, anzi erano piuttosto soddisfatte del cambiamento [di governo]. Fin qui [ la descrizione] dell’acquisizione del potere regio e del [suo] consolidamento nella persona di Augusto; ora devono essere esaminati i metodi da lui adottati per renderla duratura e trasmetterla ai suoi discendenti. Augustus subsidia dominationi Claudium Marcellum, sororis filium, admodum adulescentem, pontificatu et curuli aedilitate extulit. Augusto, al fine di dare sostegno al proprio potere, eleva alla dignità pontificale e alla carica di edile curule Claudio Marcello, figlio di sua sorella e ancora molto giovane. Un principe che si sia innalzato fino a conseguire la sovranità di uno stato, una volta stabilitosi al governo in una condizione di assenza di conflitti, avrà nella maggior parte dei casi il desiderio di rendere quel potere trasmissibile e coglierà tutte le occasioni che possano rendere attuabile un tale proposito. E così fa ora Augusto, e ricopre di cariche e onori tutti coloro sui quali pensava che egli avrebbe potuto far discendere l’impero. [L’azione di] preordinare [i propri] successori nel corso della vita di un principe ( oltre ad essere una sorta di dovere al quale i governanti sono tenuti nei confronti del loro Paese, al fine di prevenire lotte intestine ) ha il pregio di insinuarsi nelle menti e di distruggere i semi di speranze legate all’ambizione e al tradimento in coloro i quali mirano a cambiamenti [rispetto a una linea successoria prevista] ; invece, il permanere di una condizione di incertezza riguardo al successore genera e alimenta la sedizione, per un susseguirsi di molti anni, in coloro che ambiscono [al potere]. Perciò, se alcuni cittadini avessero mantenuto ancora viva una qualche aspettativa che, quando Augusto fosse morto , il popolo avrebbe potuto di nuovo lottare per la libertà [repubblicana], o che si sarebbe potuta instaurare una nuova forma di governo, la quale meglio rispecchiasse i loro veri desideri, questo atto cautelativo [la designazione del suo successore] da parte di Augusto soffoca completamente tale speranza. delle leggi di Augusto Egli dunque, come primo atto, colloca suo nipote [Claudio Marcello, v. passo precedente di Tacito] in queste due posizioni di grande autorità quella di pontefice e quella di edile [curule], la prima delle quali, nell’ambito della religione peraltro pagana di quel popolo, era di massimo grado. Non è indice di scarsa accortezza in coloro che dispongono del più alto potere affidare posti di rilievo e di comando subordinato, e specialmente gli uffici principali, a uomini che siano loro legati o da vincoli di sangue o di necessità, giacchè dal fatto che sono i governanti ad avere il potere supremo discende che tutti i funzionari a loro sottoordinati possano essere così vincolati ad essi, che le loro azioni siano eventualmente sempre limitate in conformità alla volontà e ai desideri del loro sovrano, dal quale erano stati chiamati alle cariche che essi [i funzionari] detenevano, e proprio a tal fine [la conformità alle esigenze del re] erano stati nominati. E fu un pilastro e un punto di forza del governo di Augusto consegnare nelle mani di suo nipote (se così posso dire) il potere supremo nelle cose che riguardano la religione, il quale rappresenta uno dei principali momenti di indirizzo di uno stato. Marcum Agrippam ignobilem loco, bonum militia, et victoriae socium geminatis consulatibus extulit. Egli [Augusto] nomina due volte di seguito console Marco Agrippa, di umili origini, ma buon soldato e suo compagno nelle vittorie. Dopo che ebbe fatto avanzare di grado suo nipote, il successivo ad essere elevato di rango fu il suo amico. Da quest’ultima iniziativa possiamo dedurre che, secondo le valutazioni di Augusto, quando un sovrano ha un funzionario di valore e meritevole [di fiducia], qualità che possono renderlo adatto ad alti incarichi, l’umiltà dei suoi natali non dovrebbe costituire un ostacolo alla sua ascesa. Del resto, nell’innalzare M. Agrippa, innanzitutto egli [Augusto] non avrebbe dovuto temere che [questo] amico potesse essere una minaccia per lui, poiché si trattava di un uomo che così poco poteva aspettarsi dalla sua [acquisita] nobiltà. Perché una persona che per mezzo delle proprie capacità sale di grado emergendo dal novero della gente comune, andrà incontro più spesso a una invidia generalizzata che non a un consenso diffuso e perciò non può costituire un vero pericolo [per chi detiene il potere]. E quindi Augusto conferì a [M. Agrippa] quella carica [il consolato] senza correre rischi. In secondo luogo, Agrippa, poiché era valente nelle armi, meritava di ricevere la ricompensa del suo valore che consiste negli onori. E infine, in quanto compagno delle sue [di Augusto] vittorie, egli [M. Agrippa] era degno di essere partecipe di alcuni dei vantaggi che da esse provenivano. E tali forme di ricompensa Augusto avrebbe anche potuto prenderle in considerazione non tanto perché [M. Agrippa] era stato suo compagno in guerra, quanto [perché lo era stato] nelle vittorie. Perché gli uomini sono più propensi a premiare l’esito positivo delle azioni compiute [da altri] in loro favore, che non le fatiche e il valore, o il pericolo al quale essi [questi altri] si espongono nel porle in atto. La carica di console era un ufficio di grande rilievo, e nei tempi precedenti era stata [espressione] di supremo potere nella repubblica. E quindi, per il motivo che Agrippa era un uomo del quale egli [Augusto] aveva apprezzato per lungo tempo la lealtà, la devozione e il valore, e per le ragioni prima esposte, egli [Augusto] non esitò a concedergli tale ufficio per due volte consecutive, e più ancora, egli vuole fare di lui un altro sostegno, e una prospettiva per la [propria] successione. Mox defuncto Marcello generum sumpsit. Subito dopo la morte di Marcello, [Augusto] fa diventare suo genero [M. Agrippa]. Il grande rilievo di questo privilegio concesso a chi non poteva in alcun modo esigerlo o strapparlo ad Augusto offre qui una occasione per indagare nella psiche degli uomini in merito al concedere o al ricevere favori. Tacito nel I libro delle sue Storie [in realtà, negli Annali, IV, 18], dice : ” Beneficia eo usque esse laeta, dum exolvi possunt “, i vantaggi ottenuti gratificano l’animo fintanto che possano essere ricambiati. Allorchè tali concessioni vanno al di là della possibilità di risposta [ai benefici elargiti], esse finiscono col costituire un fardello intollerabile, e perciò le persone di rado sono disposte ad essere riconoscenti ; infatti, chi se non qualcuno in condizione disperata apporrebbe la propria firma ad una obbligazione così onerosa che egli ben sa di non poter mai evadere ? Questa è la ragione per la quale i principi sono così cauti nel migliorare lo stato di alcuni uomini che pur hanno meritato tale riguardo ; giacchè non possono così facilmente concedere benefici congrui al giusto merito dei loro [favoriti], poiché, se lo facessero, essi [i principi] valutano che l’atto dell’elargizione non verrebbe recepito nel significato che ha [di premio corrispondente al merito] ; cosicchè, nell’offrire ricompense, essi dovrebbero ad un tempo dare, e rimanere ancora debitori. E in genere tutti gli uomini, ma soprattutto i principi, odiano la riconoscenza e non tollerano di avere creditori che a loro vedere possano avanzare pretese di rilievo, ma anzi trovano comodo trarre vantaggi sia da questi ultimi [non rendendo il dovuto, o ritardando i tempi della restituzione], che da coloro, e sono molti, che criticano l’ingratitudine [e perciò ritengono giusto assolvere a un debito ricambiando il beneficio ricevuto] ; e così i grandi servigi [resi] procurano molte volte più l’odio che l’aprezzamento in coloro [uomini e principi ] a favore dei quali [tali servigi] vengono svolti [in quanto uomini e principi guardano con ostilità alla gratitudine]. Al contrario, quando le persone possono, senza sminuirsi, ricambiare coloro verso i quali esse si erano obbligate [avendo ricevuto elargizioni] in modo da gratificarli secondo la propria valutazione, allora nel far ciò eccederanno, e riverseranno su di loro un favore dopo l’altro, pensando con tali dimostrazioni di riconoscenza di poterne ottenere altrettanta. Ma la natura dell’uomo è fatta in modo che le cose non vadano così, giacchè i benefici accrescono il legame affettivo in colui che li concede più che in coloro che ne sono i destinatari. Giacché se è vero che : “ proprium humani ingenii odisse quem laeseris ” [Tacito, Agricola, XLII, 4 ;], è proprio della natura umana provare avversione verso coloro che si è offeso, è anche vero l’opposto : [è proprio della natura umana] amare quelle persone che si è beneficato. Agrippa aveva reso grandi servigi ad Augusto, ma questi era in grado ora sia di ricompensarlo, come di estendere la sua gratitudine al di là dei meriti di lui, senza sentirsi indebolito da ciò : e pertanto egli non tralascia nulla che possa esprimere la sua riconoscenza, anzi lo accoglie come suo genero e ciò consentiva ai suoi figli di diventare eredi perfino del potere stesso di Augusto che consisteva nella sovranità assoluta su tutto l’impero. E questa decisione di Augusto, per quanto dettata da un legame affettivo, ben si accordava anche con un’accorta condotta politica, e infatti, di chi dovrebbe egli fidarsi di più se non dell’uomo la cui dedizione era stata così tanto dimostrata, la cui lealtà così tanto provata ? E perciò lo pone in una posizione vicina a sé, e (essendo Marcello ormai morto) gli concede Giulia [ora] vedova e sua unica figlia. Ma a questo punto, mi deve essere concesso di posporre queste poche righe dell’Autore [il passo di Tacito :”Tiberium Neronem”], affinché l’argomento che riguarda l’ascesa al potere dei figli di Livia possa essere oggetto di una trattazione unitaria, in seguito. Dopo quest’ultima iniziativa [l’aver voluto il matrimonio di Agrippa con Giulia] egli promuove lo status dei figli che Agrippa aveva avuto da tale unione. Genitos Agrippa, Gaium et Lucium in familiam caesarum induxerat, necdum posita puerili praetexta principes iuventutis appellari, destinari consules specie recusantis flagrantissime cupiverat. [Genitos : da genitus, a, um, participio di gigno, generato, nato ; genitus de o ab o ex o col semplice ablativo = nato da]. Egli [Augusto] accolse Gaio e Lucio, figli di Agrippa, nella famiglia di Cesare e, pur mostrandosi contrario, nutriva un acceso desiderio che ricevessero il titolo di principi della gioventù e che venissero proposti al consolato, sebbene fossero ancora solo dei ragazzi [non avevano infatti ancora vestito la toga virile]. Poiché Marcello, figlio di sua sorella, era morto, e avendo ora discendenti propri che erano in grado di succedergli, egli [Augusto] vorrebbe che il popolo avesse piacere di prenderli in considerazione quanto prima, e comunque nel corso della sua vita, per [poter] attribuire ad essi qualche segno di potere, [adeguato] al loro futuro rango. In primo luogo pertanto, sebbene fossero nella minore età, egli già ora avrebbe voluto che fossero onorati con il titolo di principi della gioventù. Questo titolo comportava che essi fossero proprio eredi dichiarati dell’impero. E che venisse concesso significava ammettere e sostenere apertamente che lo stato sarebbe stato non solo possesso di Augusto per tutta la sua vita, ma anche eredità perpetua a favore dei suoi discendenti. In secondo luogo [Augusto avrebbe voluto che i due figli di Agrippa], venendo designati consoli, potessero ricoprire una carica di rilievo non appena la loro età l’avesse consentito. Sebbene Augusto avesse il potere di far approvare questo suo progetto, tuttavia egli [tendeva] ad essere ancora una volta restio ad irritare gli animi dei suoi sudditi, tali da poco tempo, [come già era avvenuto quando aveva respinto il titolo di triunviro ; cfr. : riflessione su : “Posito triumviri nomine.”, p. 43, ed. am.] ; e perciò, egli non voleva manifestare troppo apertamente questo suo desiderio, che riguardava i suoi nipoti, nel timore che essi [i sudditi] i quali di buon grado gli avrebbero ubbidito finché fosse stato in vita, di fronte a questo atto di dare loro un successore [che poteva apparire] come un [segno del] perpetuarsi del loro assoggettamento, potessero volgersi alla disperazione e compiere qualche azione che fosse tale da poterlo contrariare. Ma Augusto [per evitare tutto ciò] ricorre alla dissimulazione che in quei tempi era ritenuta uno strumento irrinunciabile in un abile principe. Egli manifesta di non volere ciò [che i nipoti vengano privilegiati] e invece lo desidera con ardente intensità e nello stesso tempo lascia che quel desiderio sia colto nel suo rifiuto. E coloro che si accorgevano di questo suo modo di rifiutare non potevano far altro che forzare il suo consenso e concedere tali onori ai suoi nipoti, sia che lo volesse o meno. [Segue ora il brano di Tacito che Hobbes ha posposto.] Tiberium Neronem et Claudium Drusum privignos imperatoriis nominibus auxit, integra etiam dum domo sua. (Ed) egli [Augusto] benché il suo casato non fosse ancora in via d’estinzione, nobilita con titoli imperiali Tiberio Nerone e Claudio Druso (children) [figliastri] di sua moglie. [Il testo latino riporta : ”essendo il suo casato ancora integro” ; “Ed” tra parentesi tonde è un’interpolazione di Hobbes]. Augusto, per rendere sicura la sua successione e non farla dipendere dalla vita di due soli eredi, e per di più giovani, promuove anche lo status dei figli di sua moglie [Livia Drusilla (58 a.C. - 29 d.C.) che nel 43 a.C. sposò Claudio Tiberio Nerone, da cui ebbe Tiberio Nerone e Claudio Druso, qui menzionati, e nel 38 a.C. fu sposa di Augusto], uomini in età matura che si erano distinti in guerra [v. più avanti, ”Tiberium Neronem (...) spectatum bello”], e conferisce loro titoli imperiali, affinché, se la sua discendenza si fosse estinta, egli potesse [comunque] lasciare un successore tale che proprio la sua volontà ne avrebbe dettato la scelta. Nella generalità dei casi, in un principe, tale condotta deve essere ritenuta ad un tempo cautelativa nei suoi confronti e anche in una certa misura necessaria per il bene comune dei suoi sudditi, proprio se si considera quanto cruente e quanto spaventose guerre [civili] siano seguite alla morte di un principe che non avesse provveduto a designare un successore prima di morire. Invece, in alcuni casi particolari, avviene l’opposto di quanto era nelle intenzioni di colui che aveva indicato il suo successore, come accadde in questa circostanza. Infatti se Augusto avesse ipotizzato che il favorire i figli di sua moglie avrebbe così gravemente nuociuto alla propria discendenza, egli li avrebbe lasciati, io credo, nell’ombra. Perciò non è bene per un principe, che lavori alla designazione dei suoi discendenti, lasciare [che] il momento critico della successione al trono di uno stato [cada in mano] a pretendenti di tal fatta che possano disporre di potere e mezzi, per sovvertire l’ordine di priorità degli eredi di quel regno. Sin qui egli [Augusto] si era preoccupato di allacciare il nodo [problematico] della successione e ora Livia, sua moglie, comincia a slegarne un capo o per meglio dire a tagliarlo a pezzi, per rafforzare l’altro capo [Livia trama per distruggere la linea successoria predisposta da Augusto a favore dei figli di Agrippa, al fine di dare potere all’altra che è stata fissata per i suoi figli]. Ut Agrippa vita concessit, Lucium Caesarem euntem ad hispanienses exercitus, Gaium remeantem Armenia et vulnere invalidum mors fato propera vel novercae Liviae dolus abstulit. Poco dopo che Agrippa cessò di vivere, una morte imprevista, dovuta al fato o forse alla perfidia della loro matrigna Livia, tolse di torno Lucio Cesare mentre si recava ad assumere il comando dell’esercito di stanza in Spagna e Gaio che rientrava dall’Armenia (inabile a causa di una ferita) [le parole tra parentesi tonda non sono state tradotte da Hobbes]. Come la sollecita attenzione di un fedele e accorto consigliere nei confronti di un principe riesce spesso a individuare le nascoste intenzioni di tradimento, così, al contrario, la morte di tale persona agevola brillantemente le trame di chi vuole venir meno alla propria lealtà. Dopo la morte di Agrippa i figli di lui non sopravvissero a lungo e sebbene Tacito in questo passo [v.“Ut Agrippa vita concessit...”] non accusi direttamente Livia della loro morte, tuttavia in esso possono essere colti questi elementi contro di lei. Innanzitutto la sua indole ambiziosa e intrigante. Poi la fine rapida e tempestiva di essi, come se il destino (se la loro morte fosse stata davvero naturale) si fosse consultato con lei. E infine il vantaggio che venne ai suoi figli da tali eventi. Quest’ultimo punto ha un grande rilievo nelle valutazioni degli uomini in quanto, a qualunque persona vada il beneficio derivante dal verificarsi di straordinari e inattesi accadimenti, sarà sempre a questa che nella maggior parte dei casi verrà imputata l’ideazione e la realizzazione di essi, se ne fosse ritenuta capace. A Livia va attribuito il sospetto di aver voluto la loro fine, giacché a lei giovava che trovassero la morte proprio quando questa li raggiunse, e del resto era diffusa l’idea che lei avesse parte in quel genere di scelleratezze. Druso pridem extincto, Nero solus e privignis erat. Essendo Druso morto da tempo, [Tiberio] Nerone era l’unico superstite dei suoi [di Augusto] figliastri. Questo fu il frutto raccolto a seguito della morte dei nipoti di Augusto giacché suo figlio [di Livia] Nerone, grazie a ciò, era rimasto l’unico ad avere la probabilità di succedere nel supremo potere dell’impero. Infatti suo fratello Druso era morto due anni prima a causa di una caduta da cavallo. A questo punto egli [Tiberio Nerone] non aveva alcun concorrente, né nell’ambito della sua parentela né nel casato di Augusto, che gli si opponesse ad eccezione del solo Agrippa Postumo il quale, per motivi che dovranno essere successivamente indicati, non godeva di molta considerazione. Illuc cuncta vergere [:] filius, collega imperi, consors tribuniciae potestatis adsumitur omnesque per exercitus ostentatur [l’edizione americana riporta “ostentari ”], non obscuris, ut antea, matris artibus, sed palam hortatu. Tutto convergeva su di lui [Tiberio Nerone] [:] fu preso come figlio [da Augusto], reso pari nel potere imperiale [e] collega nell’autorità tribunizia, [infine] presentato [come tale] a tutti gli eserciti, non mediante le oscure macchinazioni della madre di lui, come nel recente passato, ma con manifesta opera di persuasione. Tutti coloro che avevano appoggiato Augusto nel suo tenace progetto [politico] [uscire dalla guerra civile per riportare stabilità e pace] ora, al tramonto della sua vita, rivolgono la loro attenzione all’imminente cambiamento : giacché quelli che avevano ricchezze sotto Augusto intendevano conservarle con il beneplacito di chi sarebbe venuto dopo di lui, [mentre] quelli che non avevano nulla iniziavano adesso ad augurarsi [di ottenere] terre e onori sotto il suo successore. Infatti, questa è la natura degli uomini [:] essere attratti più dall’appetito e dal desiderio di benefici che dal godimento di essi, in quanto la fruizione dei beni induce sazietà, invece la speranza è per i desideri umani una pietra per affilare e non consente che essi si affievoliscano. Si deve alla saggezza di Augusto l’aver indicato apertamente un successore certo, e in tal modo l’aver privato di opportunità i molti che nutrivano ambizioni. Ma che quell’uomo dovesse essere Tiberio piuttosto che suo nipote [Agrippa Postumo ormai unico superstite del casato di Augusto] si deve decisamente alla saggezza di sua moglie ; perché non molti priverebbero la propria discendenza di una eredità [l’impero] chiaramente legittima, per concederla ai discendenti di un altro, se non ci fosse un motivo valido [v. più avanti, la riflessione di Hobbes sul passo : “Rudem sane”]. Se Livia non avesse amato i propri [figli] in un modo così esclusivo, il casato di Cesare avrebbe potuto continuare per un periodo molto più lungo di quanto di fatto durò. L’onore che Augusto concesse al figlio di lei fu di adottarlo come proprio figlio, e questo significava assegnare a lui un potere incondizionato per il futuro, dopo la morte dell’imperatore, renderlo coreggente dell’impero e compartecipe dell’autorità tribunizia, e tale autorità era in quel momento pari alla sua [di Augusto], infine indurre gli eserciti a concedere a lui la loro sottomissione e a riconoscerlo come prossimo sovrano. Livia aveva a lungo fatto pressione per ottenere tali posizioni di favore servendosi dell’insinuazione, della calunnia, del raggiro e di ogni altra arte che si renda necessaria quando si voglia soppiantare un rivale nel cuore di un principe. Ma ora la via era così sicura, a ragione dell’età [matura] dell’imperatore che lo esponeva ad essere facilmente condizionato, e della grossolanità di Agrippa, che lei [Livia] osò apertamente indurre Augusto a diseredare la propria discendenza e a preferire quella di lei. Invece, [a fronte della benevolenza di Augusto nei confronti dei figli di Livia, v. passi di Tacito : “Tiberium Neronem” e “Illum cuncta”], quella che Livia aveva ostentato nei confronti dei figli di Augusto era l’esatto opposto della benevolenza, a parte il sospetto [che gravava su di lei] di aver causato la morte di due di essi. Nam senem Augustum adeo devinxerat, uti nepotem unicum Agrippam Posthumum in insulam Planasium proieceret. Infatti, lei [Livia] aveva legato a sé così fortemente Augusto, ora giunto alla vecchiaia, che egli [si lasciò convincere] a confinare Agrippa Postumo, suo unico nipote, nell’isola di Pianosa. In nessuno dei suoi precedenti atti ho trovato un errore così grave nella decisione adottata da Augusto, come in questo caso, [in cui egli giunge] al punto di seguire [passivamente] la volontà della moglie nel bandire e confinare il proprio sangue per favorire la discendenza di lei. Ma, come fa notare Tacito, egli [Augusto] era ormai divenuto vecchio e pertanto la debilitazione che si accompagna all’età senile può essere un’attenuante di quell’errore che forse, egli, con la capacità di giudizio [di cui disponeva] quando era più giovane e più riflessivo, non avrebbe mai commesso. Per lui [Augusto], adesso che si trovava in età avanzata, era di peso non avere il sostegno della moglie [nell’assumere le proprie decisioni], era per lui intollerabile e incompatibile con la dignità di un imperatore, vivere con lei e non accontentarla, ed era per lui impossibile placare l’ambizione di lei. Cosicché se egli si fosse accorto dei maneggi di lei, in qualche modo sarebbe stato costretto a fingere di non essersene reso conto, a meno che essi non fossero sfociati in azioni violente. Infatti, non si addice alla dignità di un principe prestare attenzione a quei comportamenti riprovevoli ai quali egli non sia in grado di porre rimedio. Ma egli non li notò [i maneggi di Livia], perché, cosa non può produrre sulla debole capacità di giudizio di un vecchio, l’astuzia di alcune mogli che sappiano cogliere le opportunità, che ricorrano a una costante adulazione e ad argomenti ornati di tutta l’arte di cui possano far uso ?. [Il fatto che] il luogo di esilio di Agrippa fosse un’isola piccola e disabitata, che per lui costituiva più una prigionia che un confino, era in un certo modo un chiaro segno che egli non dovesse a lungo sopravvivere al nonno, giacché, come il timore [delle reazioni] di Augusto teneva per il momento lui [Agrippa Postumo] in vita, così il timore del suo titolo [questi, sebbene fosse stato privato del diritto alla successione ad Augusto, costituiva per Tiberio Nerone una presenza ingombrante, in quanto Agrippa Postumo era comunque nipote dell’imperatore], avrebbe indotto Tiberio [Nerone] a non lasciarselo mai sfuggire di mano. Rudem sane bonarum artium et robore corporis stolide ferocem, nullius tamen flagitii compertum. [Agrippa Postumo ] era, a dire il vero, carente nelle buone arti [del comportamento] e si mostrava fiero in modo ottuso del proprio vigore fisico, ma non veniva riconosciuto colpevole di alcun misfatto. Questi sono i motivi per i quali Agrippa fu estromesso dal diritto di successione e privato del riconoscimento che era altrimenti dovuto ai suoi natali. Egli non era di modi raffinati. In ciò si esauriva l’insieme delle sue carenze. E in uno stato in cui era possibile eleggere liberamente il sovrano [il Senato aveva almeno formalmente conferito l’autorità a Cesare e ad Augusto], tali pecche [di Agrippa Postumo] avevano costituito una ragione sufficiente per metterlo da parte. Giacché è una grande sventura per un popolo finire sotto il governo di un uomo di tal natura che non sia in grado di controllare se stesso. E infatti, dove è detto [v. passo di Tacito, “Rudem sane”] che egli non era dotato di buone arti, non si fa riferimento alle belle lettere, sebbene anch’esse si addicano ad un principe, e siano [per lui] il primo degli ornamenti, poiché un sovrano può aver bisogno di esse [le belle lettere] più della capacità di giudizio, del coraggio, o della mitezza di carattere. Ma l’arte della quale [Agrippa Postumo] è essenzialmente accusato di essere privo sembra che sia quella di adeguare il proprio comportamento [alle necessità] dei tempi, dei luoghi e delle persone, e consiste in gran parte in una conversazione moderata, e nella capacità di controllare e dissimulare le proprie emozioni e intenzioni, nei casi in cui un valido motivo lo richieda ; e questa [abilità di conformarsi ai tempi, ai luoghi, alle persone] era in quei tempi considerata l’arte di governo di maggior valore. E sebbene si dicesse che non era emerso alcun crimine a suo carico [di Agrippa Postumo], ciò non gli fu di grande vantaggio riguardo al problema in questione [la successione all’impero] ; infatti, per quanto egli potesse risultare uomo non malvagio, tuttavia nulla vietava che egli potesse essere un cattivo governante. Ma i difetti di Agrippa non costituirono la sola ragione per la quale egli veniva diseredato, anche se furono la sola giustificazione di tale decisione, quando essa fu adottata. Poiché la prospettiva di una successione, nonostante l’impegno dell’imperatore [affinché si concretizzasse], era ormai circoscritta, a causa degli intrighi di Livia, a una sola persona [Tiberio Nerone], Augusto assume nuovamente provvedimenti per inserire un altro uomo [nella sua linea successoria]. At hercule Germanicum, Druso ortum, octo apud Rhenum legionibus imposuit adscirique per adoptionem a Tiberio iussit, quamquam esset in domo Tiberii filius iuvenis, sed quo pluribus munimentis insisteret. Ed allora egli [Augusto] nomina Germanico, figlio di Druso [fratello di Tiberio Nerone, entrambi figli di Livia] comandante di otto legioni di stanza sul Reno e ordinò a Tiberio di adottarlo, sebbene Tiberio avesse già un figlio suo, in giovane età, ma ciò egli [Augusto] dispose, al fine di avere sostegni in più ampia misura [per rendere più sicura la propria successione]. Augusto è ancora di questa opinione [egli infatti continua a reintegrare la sua linea successoria venuta meno in seguito alla morte degli eredi designati], che la successione non dovrebbe dipendere dalla vita di un solo uomo, e questo principio gli [consente] di avere in futuro più sostegni per garantirla. Ma come la promozione dell’ascesa al potere di Tiberio [Nerone] fu considerata la rovina di Gaio e di Lucio [della cui morte fu sospettata la madre di Tiberio ; v. “Tiberium Neronem” e “ ut Agrippa”], così ora l’aver indotto Tiberio ad adottare Germanico avrebbe potuto rivelarsi la rovina di Tiberio se l’ambizione di Germanico fosse stata corrispondente al suo potere. Infatti Augusto aveva messo nelle sue mani otto legioni le quali in seguito non solo sarebbero state ben disposte a far avere a lui l'autorità imperiale, ma, di più , si attivarono per investirlo di tale potere con il ricorso alla forza. Pertanto, se un sovrano innalza più d’uno alla speranza di regnare, egli farebbe bene a premunirsi contro la rivalità, l’ambizione e la reciproca gelosia, alle quali solitamente una tale iniziativa dà luogo. Perché, in caso contrario, egli difficilmente [potrebbe] condurre qualcuno di loro [gli aspiranti al regno] all’appagamento [di quella speranza], o se riuscisse in tale intento con uno [dei designati], allora avrebbe esposto tutti gli altri a una fine prematura. Augusto, in questo caso [la decisione di far adottare Germanico da Tiberio Nerone] non diede a Livia, a dire il vero, alcun pretesto per manovrare contro questa sua [di Augusto] ultima scelta, poiché l’oggetto di essa era uno dei nipoti di lei. E tuttavia l’aver imposto a Tiberio [Nerone], che aveva [già] un proprio figlio, di adottarne un altro, doveva necessariamente far sorgere in lui [Tiberio Nerone] un acceso malanimo perché egli aveva sperimentato su se stesso quanto gli uomini ambiscano detenere piuttosto che attendere [di conseguire] un potere come questo. Tiberio [Nerone] temendo perciò che Germanico potesse avere in mente [di realizzare] un disegno analogo [estromettere Tiberio Nerone per impossessarsi dell’autorità imperiale] in seguito, secondo l’opinione diffusa, maturò un progetto per condurre lui [Germanico] alla morte. Da ciò si può capire a quale pericolo vada incontro una persona di retto agire che abbia vicino un uomo ambizioso, sia che si trovi [in una posizione] superiore, sia in una inferiore a lui, giacché per natura questi è portato a eliminare chi gli stia prima, nella speranza [di conseguire gli obiettivi desiderati], e chi gli stia dopo, per il timore [di essere scavalcato]. Dopo [aver narrato] che Augusto aveva domato le guerre civili, pacificato la popolazione e preordinato la successione all’impero, l’Autore nelle pagine che seguono illustra la situazione quale si presentava al momento. E prima di tutto le campagne militari nelle Provincie. Bellum ea tempestate nullum, nisi adversus Germanos supererat : abolendae magis infamiae ob amissum cum Quintilio Varo exercitum, quam cupididitate proferendi imperii, aut dignum ob praemium. [Il passo tradotto da Hobbes riporta il sostantivo “cupuditate”, in altri testi latini, v. ad esempio Annali, op. cit., si legge : “cupidine” : entrambi hanno un senso sia buono (voglia, amore), sia negativo (cupidigia, ambizione)]. In quel periodo non c’erano più guerre, ad eccezione di quella contro i Germani, e questa [era stata voluta] più per cancellare l’umiliazione legata alla perdita dell’esercito al comando di [Publio] Quintilio Varo, che per un qualche desiderio di espandere l’impero, o nella speranza di un adeguato risarcimento. Le guerre sono necessarie solo quando sono giuste, e sono giuste solo se sono di difesa. Innanzitutto delle nostre vite, in secondo luogo del nostro buon diritto e per ultimo del nostro onore. [Invece], per quanto riguarda l’ampliamento dell’impero o le aspettative di ricavarne benefici, tali [istanze] sono state ritenute giusta causa di guerra solo da coloro che preferiscono la legge dello stato piuttosto che la legge divina. Ma questa guerra contro i Germani era stata intrapresa per difendere la credibilità dell’impero romano e si era resa necessaria non solo per l’attenzione e anche per il rigore che i grandi personaggi hanno sempre avuto riguardo ai punti d’onore, ancor più gli stati potenti e, più di tutti quello di Roma, ma anche per [evitare] il danno reale e sostanziale (giacché qualche persona poteva considerare quei valori [relativi all’onore] nient’altro che un’ombra), [danno] che poteva derivare dal trascurare ombre di tal fatta. Perché spesso i regni appaiono meglio rafforzati e difesi dalla considerazione [in cui sono tenuti] sul piano militare, di quanto non lo siano dalla forza [effettiva] dei loro eserciti. Infatti non c’è nessuno il quale rechi un danno ad un altro individuo e [riesca] a scampare alle conseguenze della sua azione, che non attribuirà la propria impunità alla mancanza di forza del suo avversario (giacché sono pochi coloro i quali non abbiano la volontà di vendicare l’offesa subita), e perciò si sentirà ancora di più autorizzato a infliggergli un altro colpo e un altro ancora, fino a quando possano essere tollerati con rassegnazione ; invece, quando ci si trova di fronte a qualcuno pronto a far uso della spada ad ogni provocazione, si ha molta cura a non fargli alcun torto. [v., C. de Secondat Montesquieu, Lo Spirito delle Leggi, a cura di S. Cotta, UTET, Torino 1952, vol. II, Parte VI, Libro XXVIII, nei Capi XVII - XXVII viene svolta un’indagine storico giuridica sul duello, in particolare è trattato l’argomento del duello giudiziario ; i passi che seguono appartengono al capo XVII, p. 220 : ”La prova del duello singolare aveva qualche ragione, fondata sull’esperienza. In una nazione tutta guerriera, la codardia fa sospettare altri vizi : attesta che si è resistito all’educazione ricevuta, che non si è sensibili al sentimento dell’onore né fedeli ai principii che guidano gli altri uomini ; dimostra che non si teme il loro disprezzo e che non si fa alcun conto della loro stima. (...) Gundobaldo, re di Burgundia, fu tra tutti i re quello che autorizzò in più larga misura il ricorso al duello. Egli così giustifica la propria disposizione nella sua legge stessa : “Ciò” - egli dice - “perché i nostri sudditi non facciano più giuramenti su fatti dubbi e non spergiurino a proposito di fatti certi”. Così, mentre gli ecclesiastici dichiaravano empia la legge che autorizzava il duello, il re dei Burgundi considerava sacrilega quella che stabiliva il giuramento”. V. anche, Leviatano, Parte I, Cap. X : “Anche fra gli uomini, finché non vennero costituiti dei grandi Stati, non si considerò disonorevole fare il pirata o il ladrone. Anzi, come risulta chiaro dalle storie dei tempi antichi, si trattava, fra i greci e fra gli altri popoli, di un mestiere legittimo (v. Tucidide, Storie, I, V ). Ancora oggi, in questa parte del mondo, i duelli privati, sebbene illegittimi, sono onorevoli ; e lo saranno sempre, finché non venga il giorno in cui si attribuirà onore a chi rifiuta la sfida, ed infamia a chi la lancia. Infatti i duelli sono spesso effetto del coraggio, e il coraggio si fonda sempre sulla forza o sull’abilità, che costituiscono un potere ; anche se quasi sempre non sono altro che l’effetto delle parole avventate e della paura del disonore di uno o di entrambi i combattenti, che, per sventatezza, sono costretti a scendere in campo onde evitare la disgrazia”]. E oltre a ciò, Augusto poteva anche ricavare un vantaggio da questa guerra impegnandovi animi grandi e intraprendenti i quali altrimenti avrebbero potuto adoperarsi attivamente in Patria mettendo in pericolo il suo potere. Domi res tranquillae, eadem magistratuum vocabula. Iuniores post Acticam victoriam etiam senes (plerique) inter bella civium nati. Quotus quisque qui republicam vidisset ? [Il passo latino tradotto da Hobbes è privo dell’aggettivo “plerique”, riportato invece da altri testi latini, v. ad esempio Annali, op. cit. : “persino la maggior parte degli anziani”]. Negli affari interni [invece] tutto era stabile, anche le denominazioni delle cariche pubbliche [che non erano state variate ; v. “Posito triunviri“ , “Consulem se ferens” , “Id summi fastigii” e le relative riflessioni di Hobbes]. Coloro che appartenevano alla generazione dei più giovani erano tutti nati dopo la battaglia di Azio [questa sola battaglia navale decise delle sorti dell’impero ; Ottaviano (la romanità) vinse Antonio (l’ellenismo) nel 31 a.C., nelle acque prospicienti il promontorio di Azio che domina il Golfo d’Arta, l’antica Ambracia, capitale dell’Epiro sotto il re Pirro ; v. passo di Tacito : “Marcum Agrippam (...) victoriae socium”], e persino gli anziani erano nati ai tempi della guerra civile. In quanti erano rimasti i pochi che avevano conosciuto la repubblica ? Dopo i violenti disordini delle guerre civili segue ora la vita tranquilla sotto il governo di Augusto. Poiché accade nella struttura di uno stato, come anche nella struttura fisica di un uomo, che, quando una febbre ha consumato l’energia e l’umore cattivo dei quali si era nutrita, dopo, il corpo torni a una condizione di equilibrio. Qualunque riferimento avesse potuto far nascere una aspirazione di tornare alla precedente libertà e stimolare un rimpianto per la vecchia malattia [“la vecchia malattia” qui è il desiderio di un governo repubblicano, visto da Hobbes come un modello di instabilità e quindi potenzialmente foriero di guerre civili] era ormai eliminato. Pochi erano rimasti di quelli che avevano visto l’antica repubblica. E non c’è mai negli uomini un così acceso desiderio per le cose che essi non hanno visto, come [invece] c’è per le cose che essi hanno avuto sotto gli occhi. Ed è nella natura dell’uomo attivarsi più per recuperare un qualcosa di buono, che un tempo era stato motivo di appagamento, che per cercare di ottenere ciò di cui si ignora l’esistenza. Riguardo ai desideri che sarebbero potuti nascere da racconti e voci riportate, qui si aveva anche qualche soddisfazione. Infatti quando capitava di udire i nomi di consoli, tribuni, censori e altri analoghi, i medesimi [potevano] essere ritrovati anche nella attuale struttura statale, sebbene il potere derivante da tutte queste cariche si riconduceva alla sola persona di Augusto. Igitur verso civitatis statu, nihil usquam prisci et integri moris : omnes exuta aequilitate, iussa principis aspectare. Cosicché, essendo mutata la forma di governo di Roma, nulla sopravviveva delle antiche e sobrie consuetudini [e] ciascuno (spogliato dell’uguaglianza) [la mancata restaurazione della repubblica da parte di Augusto implicava la perdita dei diritti civili e politici ; le parentesi tonde sono di Hobbes ;] si mostrava pronto ad adempiere alle disposizioni dell’imperatore. In vita hominum perinde accidit, ut si ludas tesseris etc.. Terentius. [questa proposizione tratta da I Fratelli di Terenzio è incompleta perché serve ad Hobbes solo di spunto per introdurre la similitudine ; “tesseris” : tessera, ae, f. è il dado con cui si gioca]. Nella vita di un uomo accade come nel gioco della Tavola Reale nel quale, quando non si riesce a fare un lancio che dia il punteggio più soddisfacente, bisogna rimediare alla situazione nel modo migliore possibile, con una buona condotta di gioco. [“Tavola Reale” : è un gioco con dadi e pedine ; nato in oriente dove è diffuso ancora oggi, specialmente in Egitto e in Grecia, in Italia ha assunto diversi nomi : “tricche-trach” (v. lettera di Machiavelli al Vettori, del 10 dicembre 1513), “sbaraglino”, ”tric-trac” e “tavola reale” ; in Inghilterra l’arcaico “tables” è stato soppiantato da “back gammon” ; tra i significati di “gammon”, sia come sostantivo, sia come verbo, c’è quello di “vittoria al gioco del tric-trac”]. Poiché il mutamento [istituzionale] era stato ormai ampiamente completato e non c’era più speranza [di recuperare] le antiche concezioni di vita, i Romani si avvedono che lottare per l’eguaglianza non è la più opportuna delle loro mosse, ma lo è l’obbedienza e il disporsi a servire colui il quale aveva il potere di determinare la loro ascesa o di lasciarli nella loro condizione, secondo il suo gradimento. Perché sebbene altre virtù, specialmente l’intensa capacità di giudizio [e] l’alto e non comune ardimento, siano molto preziose in ogni forma di governo, e principalmente in uno stato libero (dove infatti si sviluppano nel modo più ampio, perché ad esse si accompagna in genere l’ambizione e sono remunerate con onori), tuttavia per i sudditi di un re la prima virtù è l’obbedienza e quelle sopra menzionate [le “altre virtù” distinte dall’obbedienza] tanto più saranno oggetto di maggiore o minore apprezzamento, quanto più favoriranno un maggiore o minore spirito di ubbidienza. Ne segue che ora [a Roma] non ci si applica più all’arte del comando, che in passato era stata indispensabile per ogni [buon] cittadino romano quando il governo del complesso delle istituzioni poteva giungere nelle mani di ciascuno di essi secondo un criterio di avvicendamento ; invece ci si volge in modo esclusivo alle arti del servire delle quali la deferenza è la principale e tanto più è da considerarsi apprezzabile quanto più essa può essere distinta dall’adulazione e vantaggiosa quando non si converte in noia. Nulla in praesens formidine , dum Augustus aetate validus, seque et domum et pacem sustentavit. [Ciascuno (...) si mostrava pronto ad adempiere alle disposizioni del sovrano], per il momento senza alcun timore di problemi [legati a nuove lotte intestine], fino a quando Augusto, in un’età che gli consentiva ancora vigore fisico, [riusciva] a sostenere (ad un tempo) sia se stesso, sia il proprio casato e la pace (nello stato). [Le parole in parentesi tonde sono interpolazioni di Hobbes]. Sebbene la principale energia richiesta per l’amministrazione di un impero sia quella della mente, tuttavia anche l’efficienza fisica è talmente necessaria che, se privo di essa, un sovrano corre il pericolo di dover sopportare non pochi problemi ai quali, nel caso opposto, egli [sarebbe in grado] di porre rimedio. La ragione di ciò è evidente a chiunque e consiste nel fatto che, quando [il principe] non può, per indebolimento dovuto all’età, oppure a causa di una salute precaria, presiedere le riunioni dei consiglieri dei quali si avvale nelle cose di stato, egli si trova costretto a dipendere da più d’una versione dei fatti, andando incontro di conseguenza a momenti di confusione, o altrimenti deve mettersi nelle mani di qualcuno diventando in tal caso vittima di inganni. E nel frattempo ogni uomo influente, ripromettendosi di ricavare un personale vantaggio dalla generale condizione di rovina, ciascuno per proprio conto, opprime i più deboli e nel medesimo tempo tiene lontano dalle orecchie del principe le loro lagnanze, e con tale condotta suscita il pericolo di rivolte e sovvertimenti. Postquam provecta iam senectus, aegro et corpore fatigabatur, aderatque finis, et spes novae, pauci bona libertatis in cassum disserere, plures bellum pavescere, alii cupere, pars multo maxima imminentes dominos variis rumoribus differebant. Ma ora che [Augusto] era diventato molto vecchio e era fiaccato da una salute malferma e che si avvicinava la sua morte e si profilavano nuove attese, pochi discutevano vanamente dei pregi della libertà, qualcuno di più temeva la guerra, alcuni la volevano, (ma) [i Romani] nella larghissima maggioranza denigravano in vario modo chi era prossimo a diventare il loro futuro signore [v. i passi successivi di Tacito : “Trucem Agrippam”, “Tiberium Neronem” e “Nunc et prima”]. Quando un principe si approssima alla propria fine, l’attenzione dei sudditi è tutta orientata verso nuove aspettative e i loro discorsi non hanno per oggetto niente che riguardi il presente, ma solo ciò che si sta prospettando. E questa ne è la ragione : essendo le speranze dei sudditi strutturate prevalentemente sulla vita del principe, quando questi muore, essi devono necessariamente cominciare da capo e, gettare di nuovo le fondamenta di quelle [speranze] in chi verrà dopo. Poiché Augusto era pronto a lasciare la propria posizione ad un altro, non si poteva scegliere niente di diverso se non impegnarsi in lunghe discussioni sui probabili sbocchi che il successore avrebbe dato alla situazione presente. Si doveva necessariamente verificare una di queste tre possibilità : libertà, guerra civile o un nuovo sovrano. Se un altro sovrano, allora o Agrippa o Tiberio. Riguardo alla libertà, ogni speranza era preclusa e nondimeno si parlava anche di essa, giacché gli uomini hanno in genere questa debolezza che quando si fermano a riflettere sulle prospettive che si presentano loro, si confondono, e si addentrano in discorsi senza costrutto sui propri desideri, tale è l’effetto che le cose gradite producono nella fantasia delle persone. Per ciò che concerne la guerra, essa era ad un tempo temuta e auspicata da molti a seconda dello stato in cui si trovavano i loro patrimoni ; infatti, senza alcun dubbio, coloro i quali avevano mantenuto integre le proprietà ne avrebbero avuto paura, mentre chi non disponeva delle ricchezze necessarie a sostenere le proprie spese incontrollate, l’avrebbe decisamente voluta, in modo da impadronirsi delle fortune altrui. Infine, in merito ad un (nuovo) sovrano, giacché era molto credibile che [delle tre eventualità] si verificasse [proprio] questa, al momento, l’argomento comune di conversazione della gran parte delle persone consisteva nel prefigurare quale dei [designati] dovesse essere il futuro monarca, ed esse, nel criticare le personalità dei due, raccoglievano anche elementi relativi alla successione di ciascuno di questi, e il grado di benessere in cui si sarebbero venute a trovare sotto di loro ; e nei discorsi su di essi comunicavano liberamente, [riuscendo ad esprimersi] con più coraggio (anche se solo in privato) di quanto sarebbe stato possibile fare, senza pregiudizio della sicurezza , nei tempi che sarebbero seguiti. Tale era la situazione in quei tempi nei quali Augusto era giunto all’ultimo atto e era pronto ad abbandonare le scene di questo grande impero. E ora Tacito passa a descrivere il pensiero corrente su coloro che si apprestavano a entrare [sulla scena]. [Postquam provecta (...) pars multo maxima imminentes dominos variis rumoribus differebant) ( :)] Trucem Agrippam atque ignominia accensum, non aetate neque rerum experientia tantae moli parem. Che Agrippa [Postumo] era violento e acceso d’ira per il sopruso subito, e che non aveva l’età adatta né l’esperienza (sufficiente) per un impegno così gravoso. Dall’asprezza di queste critiche, io avrei delle difficoltà a credere che esse venissero espresse dai ceti inferiori, [penserei] piuttosto che fossero dovute alle personali speculazioni dell’Autore, o che questi, con [l’espressione] “pars multo maxima” intendesse la maggior parte dei nobili, e uomini che erano al corrente degli affari di grande importanza. Per governare un grande impero sono necessarie maturità e esperienza, e il fatto che Agrippa fosse privo di esse era una motivazione molto valida a suo sfavore, come anche quella di avere un temperamento aggressivo, difetto quest’ultimo la cui assenza nel sovrano è dai sudditi desiderata più della mancanza di ogni altro genere di debolezza che riguardi solo la sfera morale. Ma l’altra accusa rivolta ad Agrippa [Postumo] di essere “ignominia accensus” (acceso d’ira per il sopruso subito) è un rilievo contro di lui, di gran lunga più grave che non tutti gli altri. Senza dubbio, nella maggior parte, gli uomini influenti si erano trovati d’accordo con la decisione di esiliarlo e, a causa di ciò, egli [Agrippa Postumo] viveva nutrendo verso tutte queste persone un generale disprezzo ; e pertanto non poteva fare altro che considerarsi vittima di un oltraggio sostenuto da un vasto consenso, sebbene l’onta subita fosse opera di pochi ; e una disposizione astiosa è in genere causa di un comportamento crudele e tirannico. Perciò, se ora fosse stato scelto come imperatore, gli sarebbero stati dati i pieni poteri che gli avrebbero consentito di attuare la propria vendetta seguendo la sua indole violenta e, [in questo caso,] si sarebbe agito in contrasto con i modi dell’umana natura. Infatti l’uomo è più disposto ad affidare la sua vita e i suoi averi a chi gli ha fatto un torto, piuttosto che a colui che sia stato, o ritenga di essere stato, da lui offeso, in quanto da quest’ultimo non possono che venire atti di ritorsione, [mentre] dal primo si può sperare una qualche ammenda. Questo però non è sempre il comportamento più vantaggioso se si tiene presente, del resto, un’altra comune inclinazione degli uomini, la quale rende l’individuo più disposto a perdonare un’offesa subita a coloro che si trovano in suo potere, che non a offrire loro una riparazione per un torto arrecato ; perché nel primo caso si otterrà gratitudine, invece la seconda circostanza sarà considerata alla stregua del saldo di un debito. Dopo le critiche dirette ad Agrippa [Postumo], seguono quelle rivolte a Tiberio [Nerone]. [Postquam provecta (...) pars multo maxima imminentes dominos variis rumoribus differebant) ( :)] Tiberium Neronem maturum annis, spectatum bello, sed vetere atque insita Claudiae familiae superbia, multaque indicia saevitiae, quamquam premantur erumpere. [La proposizione introdotta da “Tiberium Neronem” è legata, come la precedente “Trucem Agrippam”, a “Postquam Provecta” ; le prime due formano con quest’ultima un unico periodo, in quanto esplicitano le critiche mosse dalla “pars multo maxima” di “Postquam Provecta”. Per “spectatum bello”, v. la riflessione di Hobbes a ”Tiberium Neronem” : “uomini in età matura che si erano distinti in guerra”]. Che Tiberio Nerone era un uomo maturo e che si era distinto nelle guerre, ma che erano presenti in lui i caratteri dell’antica superbia, tipica della famiglia Claudia, e che si erano resi manifesti molti indizi di crudeltà, sebbene si forzasse per controllarli. L’abilità di governo non rappresenta tutto quello che si può chiedere a un governante ; riguardo ad essa, Tiberio era considerato fin troppo abile, nel senso che egli avrebbe molto probabilmente tenuto le redini del governo con eccessiva fermezza, specialmente per quanto riguarda un popolo da così breve tempo svezzato dalla pratica della libertà ; giacché i popoli di tali tradizioni sono sempre più reattivi a qualsiasi vincolo e oppressione propri di un regime monarchico, di quanto non lo siano altri abituati a tali restrizioni. Non ci sono nel mondo due qualità più dispotiche della superbia e della crudeltà ; di queste la prima impone comandi intollerabili [poiché l’alterigia crea distacco e disprezzo nei confronti delle condizioni oggettive del prossimo], e la seconda pretende pene brutali. In Tiberio, la superbia si poteva arguire che risalisse agli antenati e alla formazione del suo carattere, mentre la crudeltà era stata da lui stesso esercitata palesemente. Gli uomini derivano le qualità e i difetti dai propri antenati in due modi : o per ereditarietà o per imitazione. Dalla natura viene trasmesso tutto ciò che si riferisce ai caratteri fisici, gli altri si hanno per imitazione, e la corrispondenza [dei caratteri ottenuti per imitazione, a quelli degli avi] quasi mai viene tradita. Giacché la considerazione che gli uomini istintivamente hanno per le qualità degli antenati suscita nei discendenti un’accentuata riproduzione di esse. E così la superbia può attraversare un’intera stirpe mediante una [voluta] reiterazione dei caratteri ; non che gli uomini intendano replicare un comportamento superbo, ma si conducono così, per errore, sotto le sembianze della magnanimità. Inoltre, per ciò che riguarda la sua crudeltà, quanto più egli [Tiberio Nerone] si sforzava di nasconderla, e non ci riusciva, tanto più essa era temuta e detestata in lui. Perché, un impulso che si è in grado di dominare non può in nessun modo recare un danno così grave, come una passione che non si è capaci di controllare, specialmente in Tiberio, che era più di ogni altro abile a dissimulare i propri difetti. Quei vizi che Tiberio avrebbe voluto nascondere erano riprovevoli, e quelli riprovevoli che egli non riusciva a celare erano gravi ; perciò per tale genere di crudeltà che egli non trovava modo di coprire, [Tiberio Nerone] era con fondato motivo, da temere. E del resto, non è facile mascherare i propri difetti, intendo dire, se la finzione deve protrarsi nel tempo, perché una volta si può vincere anche la più accesa delle passioni, ma “difficile fictam ferre personam diu” (Seneca, Tragedie) [in realtà : in De Clementia, Proemio, 1, VI, v. : Seneca, Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 308]. [Postquam provecta (...) pars multo maxima imminentes dominos variis rumoribus differebant) ( :)] Nunc et prima ab infantia eductum in domo regnatrice ; congestos iuveni consulatus, triumphos. Che quest’uomo era stato allevato fin dalla tenera età nella famiglia imperiale ; che aveva cumulato cariche consolari e trionfi quando era ancora solo un adolescente. Questo è un ulteriore argomento per sostenere l’alterigia di Tiberio [Nerone], derivato dal tipo di educazione che lui aveva ricevuto. Gli onori, in alcuni casi, hanno una tale forza di suggestione da volgere al peggio l’educazione e il comportamento di un uomo, in quanto gli individui, in genere, misurano le proprie virtù più sulla base del consenso che essi incontrano nel mondo, che non sulla valutazione che la loro coscienza dà su di esse e mai sottopongono a esame, o pensano di non aver mai bisogno di farlo, quelle loro qualità che per una volta hanno ottenuto riconoscimento all’esterno e per le quali essi hanno guadagnato onori. Gli onori, inoltre, spesso rafforzano negli uomini lo stesso proposito che ha ispirato gli atti i quali hanno loro procurato quegli onori ; [Hobbes ha costruito queste due ultime frasi in modo circolare, iniziando e chiudendo con lo stesso vocabolo] e tale proposito è tanto spesso malvagio, quanto virtuoso. Poiché non c’è quasi nessuna azione pubblica che non possa discendere sia dal male che dal bene ; sono le circostanze determinanti di tale azione (che rimangono celate nella mente umana e quindi non appaiono e non ricevono onori) che danno luogo alla virtù. Indipendentemente da tutte queste osservazioni, io credo che si possa concludere che gli onori alimentino negli uomini superficiali e vanitosi un errato convincimento del proprio valore, e che di conseguenza spesso modifichino in peggio i loro comportamenti, ma soprattutto che accrescano la loro superbia e arroganza. Per ciò che riguarda la sua [di Tiberio] educazione in una famiglia che deteneva la sovranità assoluta, tale circostanza poteva aver generato nelle menti critiche di questi sudditi i seguenti rilievi (giacché non avevano certamente visto di buon occhio neanche per un po’ il meglio di Tiberio [Nerone], cioè il fatto che era stato allevato in una così alta scuola di potere, come la casa di Augusto). In primo luogo [dicevano] che ogni seme di arroganza e di superbia, che fosse in lui ereditario e che egli avesse acquisito per vincolo di sangue, adesso era cresciuto anche attraverso una lunga consuetudine e mancava solo il tempo in cui esercitare il potere, perché [quei semi] producessero frutti disgustosi. In secondo luogo essendo stato [Tiberio] istruito, attraverso la pratica, da un maestro [Augusto] così esperto nell’arte di governo, su come tenere i sudditi sottomessi nella misura che fosse di suo piacimento, essi non potevano sperare che alcun cedimento potesse derivare da lacune nelle sue cognizioni riguardo ai modi del loro assoggettamento, e quindi non avevano dubbi nel ritenere che la sua [di Tiberio] gestione del potere sarebbe stata in ogni caso non facile da sopportare. [Postquam provecta (...) pars multo maxima imminentes dominos variis rumoribus differebant) ( :)] Ne iis quidem annis quibus Rhodi specie secessus exulem egerit, aliquid quam iram et simulationem et secretas libidines meditatum. Che anche negli anni in cui egli [Tiberio] visse, sotto l’apparenza del ritiro, in esilio a Rodi [6-2 a. C.] non coltivò altro che collera, finzione e dissolutezza nascosta. Si dice che Tiberio in un primo tempo si fosse recato a Rodi di sua iniziativa, ma che una volta là, [Augusto] lo avesse costretto a rimanervi. Comunque fosse, egli ottenne che venisse usata l’espressione eufemistica di isolamento volontario, per coprire l’umiliazione di essere stato messo al bando. Si potrebbe forse pensare che le contrarietà dovrebbero senz’altro spegnere o almeno attenuare quelle passioni quali collera, finzione e dissolutezza, la crescita delle quali viene favorita prevalentemente da condizioni di grande agiatezza. Ed è questo che avviene quando gli ostacoli sono così ardui che si perde la speranza di dare attuazione ai propri [inquieti] sentimenti. Invece nel caso opposto, [che riguarda impedimenti che possono essere superati con relativa facilità], esse [avversità] producono un effetto nettamente contrario. Infatti, mentre la collera in genere si estingue allorché si dispera di poter realizzare la vendetta, la finzione è messa da parte nei casi in cui è vano affaticarsi per essa , e le fantasie legate alla dissolutezza si assopiscono quando non le si può più concretizzare, invece, nel momento in cui gli ostacoli sono di tal fatta che si ha la sensazione di poterli superare, accade spesso che le aspettative che alimentano tale genere di fantasie sono risvegliate da ciò [il ritenere superabili quegli ostacoli], e si è portati a soddisfare nell’immediato le proprie fantasie immorali mediante la prefigurazione di quello che si potrà realizzare in un secondo tempo, quando si potrà disporre del potere. Quest’ultimo caso era quello di Tiberio e era un motivo di inquietudine e di critica in coloro i quali erano destinati a vivere come suoi sudditi. [Postquam provecta (...) pars multo maxima imminentes dominos variis rumoribus differebant) ( :)] Accedere matrem muliebri impotentia : serviendum feminae et duobus [“duobusque”Annali di Tacito, op. cit.] insuper adulescentibus, qui rem publicam interim premant, quandoque distrahant. E che in aggiunta a questo si aveva a che fare con sua madre [di Tiberio Nerone] d’invadenza tipicamente femminile, che si doveva ubbidire a una donna e [“insuper” , “per di più” non tradotto da Hobbes] a due ragazzi [Druso Minore, figlio legittimo di Tiberio e suo nipote Germanico, adottato per volontà di Augusto], e questi [Livia, Druso Minore e Germanico] dapprima avrebbero esercitato un’autorità dispotica sullo stato e in un secondo tempo avrebbero potuto smembrarlo. Dopo la figura di Tiberio, erano oggetto di attenzione i componenti della sua famiglia, che pure avrebbero preteso sottomissione e ubbidienza per sé, vale a dire sua madre e i due figli di lui : Germanico [figlio] per adozione e il suo figlio legittimo [Druso Minore] e si pensava che essi costituissero una disgrazia non piccola per lo stato. Giacché è [già] un compito arduo servire e soddisfare un padrone in modo rispondente alle aspettative, ma accontentarne due, o più, quando c’è, o potrebbe esserci, rivalità tra di loro oppure invidia (senza contare che uno di essi è una donna), è decisamente impossibile. E ciò si verifica non perché l’impegno e l’abiltà di una persona non risultino sufficienti per la mole di lavoro [da svolgere], ma perché il genere di servizio [richiesto] non renderà possibile [servire più padroni], giacché la prestazione che ciascuno [di essi] si aspetta consiste nella maggior parte dei casi nel creare danno agli altri. E ciò si deve alla rivalità tra coloro che sono sulla strada che conduce al potere, i quali molte volte spendono energie non tanto per superarsi l’un l’altro durante il percorso, quanto per farsi vicendevolmente lo sgambetto. Ed è la medesima rivalità che, una volta vicini al traguardo, li spinge ad agguantare il trofeo, ad abbandonarsi alla violenza, alla guerra, a provocare disordini e a trascinare lo stato verso le divisioni e il sovvertimento. p.47, ed. am.) Vol. X, Scritti politici e filosofici, Paravia, Milano 1903 ; in particolare : Libro II, Cap. X, Quanto il letterato è maggiore del principe, altrettanto diviene egli minore del principe e di se stesso, lasciandosene proteggere]. che la ripeteva, tanto da potersi applicare, in primissima linea, contro chi osasse proporre una riforma della legge medesima”]. in Tacito,
1 Sulla ricezione inglese di Machiavelli cfr. V. Kahn, Machiavelian Rhetoric. From the Counter-Reformation to Milton, Princeton, Princeton University, 1994.
2 I. Berlin, The originality of Machiavelli, in Studies on Machiavelli, a cura di M. P. Gilmore, Firenze, Sansoni, 1972, p.169.
Pubblicazione del: 03-03-2009
nella Categoria Filosofia Politica e del Diritto
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